Scuola – Dalla Costituzione repubblicana al neo-concordato

Marcello Vigli
da www.arpnet.it/laisc

Intervento al convegno di studio: “Scuola e laicità nell’Italia unita. Questioni storiche e prospettive attuali”.    Lunedì 28  marzo 2011 – Sala conferenze dell’Archivio di Stato di Torino

Premessa

La Costituente è chiamata ad occuparsi di scuola in presenza di una Dc primo partito, di una gerarchia molto attenta, di un forte associazionismo  cattolico organizzato l’Unione cattolica italiana insegnanti medi (Uciim) e l’Associazione italiana maestri cattolici (Aimc). Incalzante era soprattutto l’interventismo a presenza delle famiglie religiose impegnate nella gestione di scuole confessionali, raccolte nella neo istituita Federazione degli istituti dipendenti autorità ecclesiastiche (Fidae; nel 1971 diventerà Federazione Istituti di Attività Educative). All’interno del corpo docente “moderato” faceva fatica, invece, a riemergere il movimento d’ispirazione laica e democratica tanto meno marxista, le cui istanze erano, però, ben presenti nei partiti della sinistra. Bisogna ricordare che nel pieno dei lavori dell’Assemblea ci fu l’uscita delle sinistre dal governo e che nella Dc prevalse la linea centrista Ne seguì la nomina del democristiano Gonella  a Ministro della PI. Nomina  impensabile  fino ad allora per il veto contro un cattolico: Croce si giocò il posto di Presidente provvisorio per esserne un sostenitore.

I due schieramenti chiamati a progettare la scuola dell’Italia repubblicana furono condizionati dalla  eredità di una contrapposizione che aveva accompagnato la formazione dello Stato unitario giunsero solo ad un compromesso, destinato a condizionare la vita della Repubblica, appena nata, rendendo faticoso il processo di adeguamento del Sistema scolastico al divenire della società. All’insorgere nel tempo di nuove agenzie educative, ben più potenti delle famiglie e della scuola, e ai radicali mutamenti nella costruzione e nel consumo di cultura  imposti dai nuovi linguaggi  . Per di più tale compromesso lasciava insoddisfatti gli integralisti cattolici.

In questa insoddisfazione affonda le sue radici un progetto di riconquista che si dispiega, nel tempo, su due direttrici: equiparazione della scuola confessionale alla scuola pubblica e progressiva confessionalizzazione di questa. Diversi ne furono i tempi e le strategie.

Per la presenza confessionale nella scuola pubblica si poteva contare, a Patti lateranensi vigenti, per di più nella prospettiva dell’art. 7, che per molti ne costituiva la costituzionalizzazione, sul riconoscimento della dottrina cattolica come fondamento e coronamento dell’istruzione essendo il cattolicesimo la sola religione dello Stato. La parità era, invece, tutta da costruire.

Le scuole cattoliche, infatti, costrette dal regime nei primi anni ad essere competitive, con la legge 86/1942 erano regolate da una nuova normativa che aveva favorito, nonostante introducesse nuovi limiti e controlli burocratici, l’incremento delle domande  di parificazione o di legale riconoscimento. Ne era derivata una situazione confusa e poco gestibile per cui nel 1945 fu istituito un Ispettorato per l’Istruzione non statale alle dipendenze del Ministero, per censire le scuole private e parificate.

Scuola paritaria: dalle scuole cattoliche alla Scuola cattolica

1946 – 1958

In questo quadro si apre nell’Assemblea costituente la discussione sui problemi della scuola affidata alla Prima Sottocommissione della Commissione dei 75. Presieduta dal Dc Tupini aveva fra i suoi membri autorevoli esponenti dei due schieramenti da un lato Calamandrei, Codignola. Marchesi, Togliatti, dall’altro Dossetti, La Pira, Moro. È quest’ultimo che definendo la “scuola laica” paravento per promuovere la scristianizzazione del Paese a cui si oppongono i diritti delle famiglie e non solo la Chiesa, indica il terreno dello scontro. In questo clima di diffidenza e di sindrome di stato d’assedio  ci si concentra sui rapporti pubblico privato, essenzialmente occupato dalle scuole confessionali, e non sulla necessità di ripensare la scuola di tutti in rapporto alle esigenze della società  in via di una trasformazione. L’oggetto del contendere diventa essenzialmente il rapporto fra la scuola di Stato e le scuole dette non statali, articolate in scuole pareggiate (due), parificate, legalmente riconosciute e private autorizzate. La discussione è ampia anche fuori delle aule della Costituente.

Si discute sul  carattere di  funzione pubblica che la scuola deve avere, sul diritto dei privati a fondarle  per rispondere alla domanda delle famiglie, sulla libertà d’insegnamento da garantire alle scuole, ma non ai docenti.

Durante i lavori della Sottocommissione nei due schieramenti, pur  permanendo distinti, emergono diversificazioni, che consentono di raggiungere pur faticosamente un compromesso. Agli integralisti cattolici, a cui interessa la piena parità e soprattutto i finanziamenti, non si associano pienamente i democristiani di sinistra e lo stesso don Sturzo, più concilianti e attenti alle esigenze della funzione pubblica della scuola. Ai laici intransigenti  oppositori di ogni concessione, non sono pienamente allineati i comunisti pronti alle mediazioni, preoccupati di dover salvaguardare l’unità delle masse popolari rimuovendo ogni motivo di tensioni con il vaticano.

L’accordo raggiunto con il rinvio ad una legge ordinaria delle norme per garantire alle scuole non statali l’esercizio del diritto ad esistere in piena libertà, va in plenaria nell’aprile 1947 ma senza che sia stato risolto il problema del finanziamento. Risolutiva fu la proposta di Corbino, appoggiata da Codignola, che consentì l’approvazione, in un’atmosfera molto tesa, degli art. 33 e 34.

Art. 33. L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.

La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

Art. 34. La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Al nostro intento conviene esaminare questi articoli non tanto dando conto del faticoso lavoro, che ne rese possibile l’approvazione, quanto ricostruendo i successivi tenaci tentativi di superarne i limiti che, nel tempo, ne hanno consentito lo stravolgimento. Non potremo che limitarci ad alcuni spunti di discussione in presenza di una pubblicistica sterminata in cui sono coinvolti costituzionalisti, politici, pedagogisti e che ancor oggi si mantiene vivace per le successive implicazioni che il rapporto pubblico/privato ha assunto. Faticoso era stato il lavoro dei Costituenti, perché condizionato non solo dalle implicazioni ideologiche delle diverse posizioni, ma anche dalla valenza simbolica, che le soluzioni raggiunte avrebbero avuto; tenaci sono stati i tentativi delle forze dell’integralismo cattolico a rimettere in discussione il compromesso raggiunto, che aveva subìto accettandolo come soluzione provvisoria, a partire dalla novità principale rispetto al passato: i privati non hanno solo facoltà (legge Casati) ma diritto a istituire scuole, e dalle due più evidenti ambiguità dei testi.

In questi sembra non esserci eco delle diatribe pubblico/privato, si parla di scuole dello Stato e non statali con l’effetto di alimentare l’equivoco che assimila le private a quelle “pubbliche” rette da Enti locali. Si è di fatto indebolito il presidio posto dai Padri costituenti che nell’esonerare la Pubblica Amministrazione e l’erario dall’onere di finanziare le scuole private, con la formulazione del senza oneri avevano di fatto espresso un giudizio di valore e indicato un modello di Sistema scolastico, che non consente la cancellazione delle diversità fra pubblico privato. La Repubblica è infatti impegnata ad istituire scuole di ogni e grado costituendole in una dimensione istituzionale, perché la scuola è uno dei mezzi attraverso cui adempie al compito assegnatole dall’art.3 di rimuovere gli ostacoli all’esercizio della cittadinanza. Si può aggiungere che le compete perché ha imposto l’obbligo di frequentarle ed è tenuta a rendere possibile il suo adempimento.

L’altro equivoco nasce dall’uso del temine equipollente per indicare il trattamento da riservare agli alunni che avrebbero frequentato le scuole non statali. Sembrò ovvio che chi intende frequentare scuole, che hanno il diritto ad essere istituite, non deve subire disparità di trattamento. Allora si seguì la logica che aveva portato alla creazione dell’Esame di Stato adeguato, grazie alle commissioni esaminatrici esterne, a garantire la validità dei titoli di studio conseguiti anche in scuole private; fu poi piegata  per individuare la via del finanziamento delle scuole attraverso il sostegno agli alunni in nome del diritto allo studio.

In verità la vittoria della Dc nel 1948 e la conventio ad excludendum  nei confronti del Pci, che imponeva ai cosiddetti partiti laici di subirne l’egemonia, aprirono una stagione caratterizzata dall’uso introdotto dal ministro Guido Gonella – a cui fu affidato in quasi tutti i governi De Gasperi dal 1946 al 1951 il Ministero della Pubblica Istruzione – di aggirare il divieto di finanziamento per via amministrativa perpetuando i favori elargiti alla scuola privata dal regime negli ultimi anni di vita, e dai tentativi di approvare la legge prevista dall’art. 33 della Costituzione.

Lo stesso Gonella nel 1948 fece il primo tentativo presentando una proposta  che trovò, però, l’opposizione sia  della Fidae, in nome delle scuole cattoliche, sia degli Insegnanti democratici, che avevano cominciato a riorganizzarsi, superando le divergenze, esistenti fra loro su altre questioni, proprio per opporsi ai sempre più evidenti tentativi di aggirare la clausola costituzionale del senza oneri. Dalla loro ricerca emerse nel giugno 1954 un’altra proposta di legge, presentata dal senatore comunista Antonio Banfi, che definiva condizioni molto rigorose per il riconoscimento della parità, fra l’altro: programmi conformi a quelli delle scuole statali, proposti da insegnanti dotati di libertà d’insegnamento e di titolo legale di abilitazione. La libertà richiesta non era altra da quella che le organizzazioni cattoliche rivendicavano per le scuole, ma non per gli insegnanti al loro interno. Sarà d’ora in avanti il segno di contraddizione fra i due schieramenti.

Dalla proposta di legge sull’ordinamento della scuola non statale presentata l’anno successivo dal democristiano senatore Giuseppe Lamberti emergeva l’altro segno di radicale diversità: il primato delle famiglie nell’educazione. Se hanno diritto a scegliere devono poter contare sull’esistenza di scuole adeguate a consentirne l’esercizio. Nessuna delle due proposte superò il dibattito e decaddero per la fine della legislatura. Sulla libertà di scelta delle famiglie cominciarono ad emergere nuove convergenze: nel 1957 il socialdemocratico Paolo Rossi, il primo ministro della P.I  non democristiano dopo l’approvazione della Costituzione,  presentò un progetto di legge che giungeva a prevedere sovvenzioni alle scuole che fossero funzionali al sistema. Oltre a contraddire le posizioni, difese dallo stesso ministro alla Costituente, la proposta determinò una rottura fra gli insegnanti democratici dell’Associazione per la difesa della Scuola Nazionale (Adsn), dalla quale nacque l’Associazione per la difesa e lo sviluppo della scuola pubblica italiana (Adesspi). Al suo interno si andavano affinando le ragioni poste a garanzia dell’assetto costituzionale alle quali s’ispirò un disegno di legge, presentato dal senatore Parri nel 1959, che intendeva sviluppare la proposta Banfi,  distinguendo il diritto ad istituire scuole dalla concessione della parità.

1959 – 1975

Nel frattempo, Amintore Fanfani, l’uomo nuovo della Dc, diventato Presidente del Consiglio nel 1958 nel suo Piano per lo sviluppo della scuola introdusse, attuando l’art. 34, la concessione di borse di studio agli studenti meritevoli anche se frequentanti scuole non statali,: finanziando, in nome dell’equipollenza, gli studenti si raggiungeva indirettamente lo scopo del finanziamento alle scuole perché la sovvenzione andava a pagamento della retta. Da allora, oltre queste, sono state introdotte diverse forme di finanziamento a sgravio per le scuole elementari e materne in zone prive di scuole statali.

Questa inosservanza del dettato costituzionale, costantemente denunciata ma senza successo dall’Adesspi e dalle sinistre, contribuì a ridurre per il momento le pressioni per superare il senza oneri, ma non cancellò i contrasti, sul modo di interpretare gli articoli della Costituzione, confermati e meglio definiti nei diversi documenti approvati a conclusione dei lavori della Commissione d’indagine sullo stato della scuola costituita nel 1962 e registrati nella relazione del ministro Gui. Emergeva, infatti, che in entrambi gli schieramenti le posizioni andavano diversamente articolandosi, in particolare all’interno del mondo cattolico  con, ad esempio, Giovanni Gozzer che auspicava un sforzo di pacificazione e di civile intesa che portasse i cattolici a  superare ormai il complesso scolastico della breccia di Porta Pia collaborando tutti al grande sforzo per realizzare quella scuola nazionale unitaria sulla quale riposa buona parte del nostro avvenire (I cattolici e la scuola, p. 11).

Se, infatti continuarono negli anni a fallire i tentativi dei diversi partiti di legiferare sulla parità, si consolidavano sia la pratica consociativa dei provvedimenti  ministeriali sia la collaborazione ch, in coincidenza con la fase espansiva della scuola, portò nel 1962 alla nascita della scuola media unica obbligatoria e gratuita e l’istituzione, nel 1968, della scuola materna statale In verità  sui suoi finanziamenti e sulla normativa, che la  riguardava, quattro anni prima erano caduti o due governi del centro sinistra guidati da Aldo Moro.

Significative novità nell’approccio al problema della parità derivarono in quegli stessi anni dallo sviluppo della scolarizzazione di  massa, dall’apparire di nuovi soggetti impegnati sui problemi della formazione, con la nascita delle Regioni,  dall’interventismo dei loro assessori, dall’impegno sui problemi della scuola di Confindustria e Cgil, dalle contraddizioni aperte in campo cattolico per l’affermarsi, da un lato, di Comunione e Liberazione e, dall’altro, del “dissenso”, frutto della stagione aperta dal Concilio Vaticano II,.

Più radicale il cambiamento che derivò dall’esplosione del sessantotto nel contesto in cui si erano svolti i contrasti fra laici cattolici. Ne sono testimoni, da un lato,  le critiche alla Università cattolica durante le sue occupazioni, il successo della Scuola di Barbiana con la diffusione dei dopo scuola e ,dall’altro, l’indifferenza nei confronti della specificità del regime concordatario, considerato un capitolo della lotta alla Stato borghese, nelle assemblee del movimento.

Alla contrapposizione costituzionale fra statale e non statale si preferiva la riproposizione in termini ideologici del rapporto fra pubblico e privato; l’attenzione si spostava sul rapporto fra scuola e mercato del lavoro; la denuncia delle pretese clericali si innestava sulla critica alla scuola di classe e sull’insorgere, in forme nuove, del vecchio antistatalismo all’interno dei problemi posti dall’aumento dei costi per l’espansione dello stato sociale.

Contribuì a radicalizzare le posizioni anche l’insorgere di casi giudiziari che riproponevano il conflitto sulla libertà d’insegnamento. Emblematico fu il caso del prof. Franco Cordero agli inizi degli anni Settanta. Docente di Filosofia del diritto all’Università cattolica di Milano ne fu espulso per essersi dichiarato non credente. La Corte costituzionale chiamata in causa dalla  giustizia amministrativa, alla quale si era rivolto,  con la sentenza 195/72 si pronunciò per la non fondatezza della questione di legittimità. Grande eco ebbe la sua  Lettera a monsignore che riepiloga la vicenda, ripetuta poi con i caso Severino e Lombardi Vallauri.

Novità ci furono anche quando, a conclusione di una stagione così tormentata, giunse in porto la riforma del governo della scuola con la legge delega 477/1973 e i relativi decreti delegati. Essa di fatto rappresenta  un punto di non ritorno a vantaggio della tesi cara all’integralismo cattolico sul ruolo della famiglia nella formazione scolastica e nella rilevanza delle scuole private nel sistema scolastico pubblico. Negli organi collegiali delle scuole entrano di diritto i genitori e in quelli territoriali, Consiglio scolastico distrettuale, provinciale e nazionale, rappresentanti eletti dagli operatori e “utenti” delle scuole private.

Si avviano a conclusione le condizioni, che avevano consentito queste innovazioni, anche perché  il timore che l’esperienza del compromesso storico – anticipata dalla politica dell’unità sindacale e conclusa con la strage di via Fani – potesse dispiegarsi e non essere breve, come è stata, contribuì a cambiare i termini della questione dando forza,  all’interno del mondo cattolico, alle posizioni più radicali sulla richiesta di parità e favorendo la creazione di un fronte comune fra responsabili di scuole private: degli enti locali, confessionali e laiche.

In un loro convegno nel 1977 a Sorrento su La Scuola non statale in Italia Gianfranco Miglio, docente della Università cattolica, rilanciò la proposta del buono scuola già in uso in Europa. La proposta non ebbe consensi nel cattolicesimo ufficiale, ma contribuì ad offrire all’integralismo cattolico, che si andava radicalizzando intorno a Cl, una nuova idea della scuola cattolica che consentisse di  rimettere in discussione l’assetto costituzionale in nome dell’assunto che pubblico non è solo statale. Rafforzata dalla Fondazione Agnelli, che la rilanciò nel 1979, la proposta avviò una svolta al processo volto all’integrazione. Si cominciava a teorizzare il superamento del dualismo pubblico/privato in nome del carattere di  funzione di servizio della scuola che, come altri “pubblici servizi”, poteva essere assolto, a certe condizioni e in convenzione, anche dalle scuole private. S’ignorava volutamente la peculiarità del “servizio pubblico” fornito dalla scuola che non può, perla loro natura, essere offerto da scuole di tendenza.

1978 – 2000

Nella metà degli anni ottanta, la Confindustria fece suo questo assunto che cominciò a trovare eco a sinistra anche fra gli sconfitti del compromesso storico, dopo la morte di Moro, e gli emergenti del craxismo avanzante. Nei dibattiti sulla politica scolastica della sinistra cominciarono a trovare spazio il tema dell’autonomia delle scuole e cittadinanza la formula del Sistema  formativo integrato Da un lato si comincia a parlare di scuola azienda da gestire all’interno di una programmazione e di una progettualità per raggiungere efficienza e produttività: sono chiari sintomi del coinvolgimento della scuola nella deriva neoliberista. Dall’altro si enfatizza la funzione delle scuole private “a sgravio”, che consentono alla Repubblica di sfuggire all’obbligo di istituire scuole ovunque siano necessarie, e alle quali, elementari e materne, è legittimo destinare contributi.

In verità i governi a guida socialista, con il tacito assenso degli stessi comunisti, non interrompono la prassi democristiana di derogare al principio del senza oneri violato anche da finanziamenti regionali alle scuole cattoliche, come contributi per i trasporti, e ai loro utenti per i libri di testo, in nome del diritto allo studio. Delle diverse forme di tali contributi si trova traccia nel Testo Unico D.lgvo n. 497/1994. Al tempo stesso, anche le private sono autorizzare a fruiredelle diverse forme di incentivazione offerte per chi, nella statale, lavora per Progetti.

Del nuovo clima è un esempio l’intervento al meeting di Rimini di CL del 1986 di  Claudio Martelli che giunse a teorizzare, anche forse solo per motivi di dialettica interna al centro sinistra in funzione anti De Mita,  un duopolio fra pubblico e privato, come per la televisione, con diritto al finanziamento diretto attraverso il buono scuola.

Decisivo diventa, però,  il cambiamento del contesto imposto dalla scesa in campo” della gerarchia cattolica italiana, dopo l’avvento al pontificato di Giovanni Paolo II. La Conferenza episcopale italiana, chiamata a realizzarla nel nostro Paese, avvia sulla base delle tante sollecitazioni una riflessione a tutto campo sulla gestione dei problemi della formazione, volta a ridefinire modello e ruolo di “scuola cattolica”. Prende il via un processo di accentramento per superarne la frammentazione in tante strutture, ispirate ciascuna al disegno del suo fondatore, per ridurne la sostanziale indipendenza dalle autorità ecclesiastiche. Anche il loro tradizionale associazionismo è chiamato ad adeguarsi.

Nel 1983 all’interno della Conferenza episcopale viene costituita una Commissione per l’educazione cattolica che elabora e diffonde un suo La Scuola cattolica oggi in Italia sulle linee disegnate in quello in cui nel 1977  la Congregazione vaticana per l’educazione cattolica aveva definito le caratteristiche perché una scuola possa definirsi cattolica. L’ispirazione ai principi pedagogici e ai metodi dei fondatori delle diverse scuole cattoliche deve essere declinata ormai all’interno di una identità specifica. L’identità della Scuola Cattolica nella prospettiva che oppone la società civile allo Stato: La Scuola Cattolica è scuola della comunità cristiana, cioè di un modo di essere della società civile che attinge il suo senso nella accettazione della salvezza come dono gratuito di Dio attraverso la Fede nel Signore Risorto. Non deve cioè limitarsi alla formazione dell’uomo ma all’educazione del cristiano; non più l’uomo nel cristiano, ma il cristiano nell’uomo.

Mentre si evidenzia, nel documento, questo aggiornamento nel carattere confessionale della scuola si aggiunge, ispirandosi alle idee maturate all’interno di Cl,  che la libertà per la scuola cattolica è ormai rivendicata nel quadro della più generale libertà di educazione da cui deriva un diritto di tutti: singoli e agenzie formative. La scuola cattolica, si legge infatti, vuole essere una Libera Istituzione per un responsabile servizio alla comunità civile. Sulla concezione monopolistica e statalistica della scuola deve prevalere l’utilizzazione di tutte le proposte educative secondo la categoria della reale parità. Non si chiedono più privilegi o elemosine ma il pagamento di un servizio reso alla società, attraverso gli utenti.

Appare paradossale che questa nuova tendenza avanza, proprio mentre nella scuola pubblica si comincia a “scoprire” l’autonomia delle scuole!

A queste novità si ispira il nuovo modo di porre il problema della scuola negli Accordi tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede del 18 febbraio 1984 che contengono, in sostituzione di quello del 1929, un nuovo Concordato nel quale il problema delle scuola è affrontato in modo radicalmente diverso facendo riferimento alla Costituzione. Si parla anche di parità scolastica, anzi, al primo comma dell’art. 9 si affronta il tema delle scuole confessionali prima ancora della presenza dell’insegnamento della religione in quelle pubbliche .

La Repubblica italiana, in conformità al principio della libertà della scuola e dell’insegnamento e nei termini previsti dalla propria Costituzione, garantisce alla Chiesa cattolica il diritto di istituire liberamente scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione. A tali scuole, che ottengano la parità, è assicurata piena libertà, ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole dello Stato e degli altri enti territoriali, anche per quanto concerne l’esame di Stato.

Appare evidente che l’associare il principio della libertà della scuola e dell’insegnamento costituisce una discutibile interpretazione del dettato costituzionale. La Costituzione, in verità,  non le associa, ammette, infatti, che esistano scuole istituite sulla base della prima senza che in esse sia necessariamente riconosciuta la seconda, tale era  il caso delle scuole confessionali cattoliche, alle quali non veniva chiesta ammettendo che pertanto, non possono esser pari a quelle dello Stato, che della libertà d’insegnamento fa la sua bandiera. Ad essa è, infatti, legato, insieme alla collegialità, il mandato agli insegnanti di promuovere la formazione degli studenti “obbligati” a frequentare la scuola.

Gli autori di tale comma del nuovo Concordato non ignoravano certo che i tentativi di approvare la legge, prevista dall’art. 33 della Costituzione, erano sistematicamente falliti proprio per l’assenza delle condizioni di parità fra i due sistemi scolastici, non poteva quindi apparire ovvio il raggiungimento della parità, senza la definizione “concordata” di dette condizioni. Di qui la formula ambigua di cui si è detto.

Anche l’esame di Stato, che la Costituzione ha legato al sistema scolastico nazionale, è qui ridotto a strumento per garantire l’equipollenza per gli alunni delle future paritarie, mentre non si fa nessun riferimento al senza oneri per lo Stato. Si accredita così la tesi che con il Nuovo Concordato si concede quello che già la Costituzione aveva consentito, ma senza i limiti in essa stabiliti.

Si può dire che ci sono in nuce gli elementi che caratterizzeranno la legge di parità n. 62 del marzo 2000 e la sua applicazione, anche se trascorreranno ancora tre lustri prima della sua approvazione resa possibile, però, dal convergere di due eventi che hanno sconvolto il quadro politico italiano: la crisi del centro-sinistra, con la fine del Partito socialista, e le successive trasformazioni del Partito comunista, dopo la caduta del muro di Berlino, attraversato poi dalla deriva neo-liberista. Anche nel dibattito sulla scuola prevalsero le spinte antistataliste

Ad esse si ispirò un documento Nuove idee sulla scuola, sottoscritto il 13 luglio del 1994 da 31 personalità, “laici” e cattolici, ex democristiani, ex socialisti e ex comunisti, con la “benedizione” della Confindustria. Apertamente proponeva la creazione di un sistema formativo pubblico comprendente scuole statali e non statali.

Sarebbe rimasta una delle tante voci che da tempo lo teorizzavano se non fosse stato condiviso  dal nuovo Partito democratico della sinistra, che nel novembre lo assume formalmente in una Assemblea di partito e da Romano Prodi, che di lì a due anni sarebbe diventato Presidente del Consiglio di un governo del quale per la prima volta nella storia repubblicana sarebbero entrati ex comunisti all’ombra dell’Ulivo. Nel programma elettorale, che nel 1996, lo rese possibile, si prevede una pluralità di soggetti di offerta scolastica, garantendo controllo e standard qualitativi comuni nell’ambito di un unico sistema di istruzione pubblica superando anche la contrapposizione tra scuole statali e scuole  non statali, per conseguire l’obiettivo di innalzare la qualità.

Questa proposta di parità tra scuola pubblica e privata, venne intrecciandosi, come si è detto, con l’affermarsi della linea dell’autonomia delle scuole. Nello stesso programma si affermava, infatti, la necessità di porre la parità scolastica nel contesto dell’autonomia, anzi in dipendenza da essa. Questa, lanciata ufficialmente nella Conferenza sulla scuola, convocata dal ministro della P.I. Sergio Mattarella nel luglio del 1990, l’autonoma non era più solo considerata un espediente per ridurre le spese, ma come forma di governo della scuola adeguata alla funzione di servizio pubblico sul territorio, che aveva così una formale legittimazione, all’interno del processo che la stava trasformando in struttura finalizzata alla socializzazione più che all’istruzione.

Ne seguirono intensi dibattiti all’insegna dell’incomprensione reciproca fra chi giustamente temeva che fosse l’avvio alla privatizzazione del sistema e chi inneggiava all’efficienza e alla aderenza delle scuole al territorio all’interno di un nuovo Sistema pubblico integrato.

Avviata concretamente con la delega affidata al governo nella finanziaria del 1993, si venne configurando nella sua forma definitiva di autonomia delle singole scuole, definite ormai istituzioni scolastiche, con la legge 59/1997 destinata al riordino della Pubblica amministrazione, ignorando la peculiarità che al suo interno aveva da sempre avuto il Sistema scolastico nazionale.

In essa all’art. 21 si legge  L’autonomia didattica è finalizzata al perseguimento degli obiettivi generali del sistema nazionale di istruzione, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa da parte delle famiglie e del diritto ad apprendere, Si mettono con ciò  sullo stesso piano gli obiettivi del sistema nazionale e la libertà di scelta educativa da parte delle famiglie.. Dalla scuola come pubblica istituzione ci si avvia alla scuola struttura di servizio all’utenza, che può, ovviamente, essere prestato anche da strutture private.

Si rende così evidente che la spinta alla parità del privato con il pubblico si sta intrecciando con la frammentazione del Sistema statale emergente dal DpR 274/1999, che ne configura il nuovo assetto. Fra l’altro si sancisce il diritto di ingerenza, non solo di presenza, delle famiglie all’interno di un Sistema di “comunità educanti” che si autodeterminano dal basso per adeguarsi alla funzione di servizio ed essere aperta alla concorrenza fra loro e, in prospettiva, con le private. In verità il ministero che mantiene il controllo mantenendo la nomina e il controllo dei loro dirigenti.

Oggettivamente era la stessa direzione verso cui premevano le gerarchie ecclesiastiche che in quegli stessi anni, in cui il sistema dei partiti si andava sgretolando, erano in grado di mobilitare la piazza, come nella manifestazione del 30 ottobre 1999 in piazza san Pietro dove in 100.00 chiedevano «libertà, libertà». I cattolici ormai infatti si vantavano di lottare non tanto per ottenere parità per la scuola confessionale, quanto per garantire alla società civile scuole libere all’interno di un  unico sistema formativo. La linea da sempre seguita dagli integralisti cattolici veniva integrandosi con il processo di centralizzazione, di cui si è detto, avviato dalla gerarchia italiana. Trovava anche consensi fra i sostenitori del sistema integrato, sempre più numerosi anche a sinistra, disponibili a trascurare il carattere anticostituzionale del finanziamento e ad accettare la tesi che lo presentava come piuttosto un rimborso dovuto per un servizio prestato di pari valore, per di più meno oneroso per l’erario, di quello offerto dalle scuole statali.

Grande era la confusione sotto il cielo anche perché nelle Regioni, a cominciare dalla Lombardia, si andava aggiungendo l’erogazione del buono scuola alle varie forme già in atto di finanziamento camuffato nell’ambito delle loro competenze nel campo dell’assistenza e del diritto allo studio. Se la scelta lombarda, visto chi la guidava, poteva anche essere messa in conto, sorprendente fu la decisione dell’Emilia Romagna di stanziare 12 miliardi di lire per finanziare studenti disagiati, pubblici o privati che fossero. Non mancarono sentenze dei Tar sull’argomento mentre all’interno del centro sinistra si tornava a parlare apertamente di un disegno di legge sulla parità. Significativa quella che delegittimava una legge regionale dell’Emilia Romagna che introduceva un sistema integrato pubblico-privato nelle scuole dell’infanzia proprio per consentirne il finanziamento.

La resistenza restava affidata agli intellettuali fedeli all’insegnamento di Calamandrei, alle forze della sinistra alternativa e alla mobilitazione degli studenti e degli insegnanti dentro e fuori le scuole. Un documento  Dalla Scuola del Ministero alla scuola della Repubblica proposto nel 1995 da settanta personalità della scuola, della politica e della cultura in alternativa a quello dei trentuno,  raccolse migliaia di adesioni nel Paese perché coglieva, come appare sua intestazione Scuola della Repubblica, anche l’esigenza di liberare la sua difesa dall’accusa di essere statalista.

E’ del novembre 1998, il Manifesto laico firmato da Giorgio Bocca Alessandro Galante Garrone Vito Laterza Enzo Marzo Paolo Sylos Labini Indro Montanelli Rossana Rossanda che pose la difesa della Scuola statale all’interno della promozione della democrazia e della laicità. raccogliendo ampi consensi. Sui suoi temi fu organizzato un convegno a Roma le cui  relazioni confluirono in un volume pubblicato da Laterza

Questa mobilitazione non riuscì ad impedire che andasse in porto una legge sulla parità, ma solo ad ottenere che il testo preparato dal Ministro Luigi Berlinguer, fatto proprio dal governo Prodi, subisse significativi interventi per eliminare gravi contraddizioni prima di arrivare il Parlamento dove fu trasformato nella Legge n. 62 10 marzo 2000 Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione.

Il primo dei requisiti richiesti per ottenere la parità è: un progetto educativo in armonia con i principi della Costituzione da  realizzare attraverso un insegnamento .. improntato ai principi di libertà stabiliti dalla Costituzione repubblicana. Quanto questo sia incompatibile con i caratteri della Scuola cattolica sopra definiti appare evidente, ma non è la sola incongruenza perché certo la legge non intende chiederne la rinuncia.. Anche per quanto riguarda la normativa ordinamentale in molti casi non va molto oltre quanto già raccolto e ordinato nel T.U. n.297/1997. Si aggiungono solo norme di adeguamento a quanto previsto per le scuole pubbliche diventate “autonome” introducendo l’uso nel testo di termini quali progetto educativo e offerta formativa in sintonia con la scuola dell’autonomia, nel tentativo di rendere omogenee strutture che non possono esserlo.

Sono, invece, apertamente discordanti le norme concernenti il reclutamento degli insegnanti funzionali a garantire la piena libertà delle scuole paritarie. Se da un lato si pongono condizioni, neppure immediatamente vincolanti, sul possesso di titolo abilitante,  dall’altro, si consente che siano assunti sulla base di contratti individuali, pur rispettosi dei contratti collettivi nazionali di settore, nei quali deve essere contenuta la clausola dell’accettazione dell’orientamento culturale e ideale della scuola pena la rescissione del contratto stesso. Si consente inoltre l’impiego di personale docente “volontario” pur se solo nella misura del 25% del totale.

Altrettanto chiaro lo sforzo volto a legittimare finanziamenti senza un’aperta sconfessione dell’art. 33 della Costituzione e il suo senza oneri: ben 10 dei 17 articoli che la compongono ne declinano le forme. Assume la forma della detrazione fiscale, del contributo agli studenti, del finanziamento diretto per le scuole dell’obbligo, dell’incentivo per l’accettazione dei portatori dei handicap senza giungere alla piena equiparazione. Questa resta pur sempre l’obiettivo da raggiungere anche perché il sistema scolastico integrato ha avuto una sorta di costituzionalizzazione – ha assunto una modalità istituzionale si è detto – con l’approvazione, l’anno successivo 2001, del nuovo Titolo V. All’art. 17 comma 3, offre una legittimazione costituzionale alla autonomia delle istituzioni scolastiche fra le quali non è difficile considerare ormai inserite le scuole paritarie rafforzando gli effetti della legge 59/1997. Nel quadro dell’art. 18 si definisce l’istruzione materia concorrente nel quadro del principio di sussidiarietà, tanto caro all’integralismo cattolico:  Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.

L’intreccio fra autonomia delle istituzioni scolastiche e nuove competenze delle Regioni – destinate ad aumentare con l’avvento del federalismo – costituiscono un duro colpo per la Scuola della Costituzione che va ad aggiungersi alla dichiarazione di inammissibilità, da parte della Corte Costituzionale nel gennaio 2003,  di un referendum abrogativo della legge 62/2000 promosso dall’associazionismo scolastico di base, Cobas, PRC, Verdi e da alcuni spezzoni della FLC CGIL.

Allo stesso modo a  nulla erano valsi i referendum indetti per abolire la concessione del “buono scuola” in Veneto 6 ottobre 2002 e in  Liguria 27 aprile 2003 falliti per il mancato raggiungimento del quorum grazie anche all’astensione dal voto, supportata apertamente dalla Chiesa cattolica.

Da allora nulla è più come prima: da un lato il servizio prestato dagli insegnanti nelle scuole private, pur sulla base di assunzioni discrezionali funzionali al loro diritto a imporre il loro orientamento ideologico o confessionale, viene equiparato a quello prestato nelle scuole statali.

Dall’altro, i finanziamenti per le private sempre più trovano posto nelle finanziarie, anche quando tagli pesanti calano sulle scuole statali,.

Le scuole private sono entrate ormai a far parte di un “Sistema nazionale d’istruzione altro dal “Sistema pubblico integrato” di cui si parlava a  sinistra non come integrative ma pienamente paritarie pur mantenendo tutte le caratteristiche che le rendono diverse e contrarie alla scuola “veramente pubblica”, per di più ormai inserite nel sistema centralizzato e dichiaratamente alternativo della Scuola cattolica nella prospettiva, come si è visto,  che oppone la società civile allo Stato. Appare evidente che questa idea di scuola è incompatibile con il primo dei requisiti richiesti dalla stessa Legge n. 62/2000: un progetto educativo in armonia con i principi della Costituzione da  realizzare attraverso un insegnamento … improntato ai principi di libertà stabiliti dalla Costituzione repubblicana. Ma di questo i legislatori non hanno tenuto conto.

Soprattutto è alternativa alla scuola che la Costituzione vuole fondata sulla libertà di insegnamento di chi insegna e del diritto di chi apprende ad una autonoma formazione della personalità.

Nella formazione delle nuove generazioni in regime democratico, infatti, la scuola è la sede per aiutare i giovani a realizzarsi in piena autonomia dalla famiglia e dal gruppo di appartenenza; a maturare una socializzazione fondata sull’uguaglianza e sulla solidarietà; a familiarizzarsi con la memoria collettiva posta a fondamento della comunità nazionale; ad acquisire strumenti e metodi per partecipare criticamene alla gestione dl potere. Questi obiettivi sono ancor più validi oggi in una società diventata multietnica, multiculturale e inserita in un accelerato processo di planetarizzazione. Possono essere conseguiti, però, solo assumendo la laicità come dimensione nella quale trovano fondamento sia lo studio critico delle diverse concezioni del mondo –  ideologiche o religiose, di parte o  confessionali – sia  il principio della loro contaminazione, che va oltre il multiculturalismo e la semplice giustapposizione, sia il sistema valoriale offerto dalla Costituzione come Carta dei valori su cui chiamare i giovani a confrontarsi

Lo Stato si avvia a non gestire più il sistema scolastico nazionale, ma solo a farsene garante e promotore dettandone le norme generali. Emblematica la  costituzione a Roma di un  Comitato per la Scuola della società civile. Una società civile in cui la distinzione costituzionale fra statale e non, ha solo un valore amministrativo.

Confessionalizzazione della scuola statale

Cattolicesimo fondamento e coronamento

Parallelamente al processo che ha portato alla creazione del Sistema nazionale d’istruzione, all’indomani dell’avvento della Repubblica si avvia un processo che, iniziato per consolidare le condizioni di privilegio assicurate dal regime fascista alla Chiesa cattolica, finisce in verità con la confessionalizzazione della scuola pubblica sia con un’altalenante introduzione o potenziamento di elementi “confessionali” nei suoi ordinamenti e nei suoi programmi, sia con il progressivo potenziamento dell’ora di religione, che restò obbligatoria in tutte le classi con diritto al’esonero a certe condizioni: i genitori dovevano impegnarsi a sostituirla in casa!

Un segno di tale potenziamento si ebbe ancor prima della fine della guerra con la circolare n. 311 del 9 febbraio1945 del Ministro della Pubblica Istruzione Arangio Ruiz che, nel confermare l’obbligo per i maestri, se ritenuti idonei dalle curie, d’impartire l’Insegnamento religioso, aggiunse l’integrazione di  20 lezioni di mezz’ora ciascuna affidate a sacerdoti designati dalle autorità vescovile, che furono in genere i parroci nella cui giurisdizione le scuole avevano sede. Tornava in vigore la circolare che nel 1932 le introduceva, dopo la crisi del 1931,  per consentire ai cappellani dell’Opera Nazionale Balilla, istituiti con la legge del 1926, di assistere a scuola i loro ragazzi.

In sede di Costituente anche sull’ora di religione ampio fu il dibattito, ma le diverse proposte, per rompere o conservare il sostanziale appalto della educazione morale dei giovani alla Chiesa che la gestiva, suscitarono forti opposizioni sia a destra sia a sinistra. Ci furono fra le altre una proposta di Concetto Marchesi, che ne metteva in discussione la permanenza, e una di Aldo Moro d’inserire nell’art. 33  l’insegnamento religioso nella forma ricevuta dalla tradizione cattolica, ma restarono entrambe senza successo. Neppure fu approvata la proposta di Bruni d’introdurre una educazione civica.

Si decise pertanto prendere atto, soprattutto dopo che l’intero regime concordatario trovò la sua legittimazione nell’art.7 della Costituzione, che tale materia era disciplinata nell’art. 36 del Concordato e se ne doveva rinviare la discussione a quella più generale sui rapporti tra Stato e Chiesa.

In verità in esso era garantita oltre che un’ora di religione una forte egemonia cattolica nella scuola statale. L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo programmi da stabilirsi d’accordo tra la Santa Sede e lo Stato. Tale insegnamento sarà dato a mezzo di maestri e professori, sacerdoti e religiosi approvati dall’autorità ecclesiastica, e sussidiariamente a mezzo di maestri e professori laici, che siano a questo fine muniti di un certificato di idoneità da rilasciarsi dall’ordinario diocesano. La revoca del certificato da parte dell’ordinario priva senz’altro l’insegnante della capacità di insegnare. Pel detto insegnamento religioso nelle scuole pubbliche non saranno adottati che i libri di testo approvati dalla autorità ecclesiastica

Non meraviglia che su questa premessa la politica scolastica dei governi centristi a maggioranza democristiana, a partire dagli anni, che sono stati chiamati gli anni della onnipotenza clericale, fosse volta a promuoverne l’attuazione avviando un processo di confessionalizzazione delle scuole pubbliche.

Un primo effetto si ebbe nella riforma dei programmi della scuola elementare promossa dal ministro Giuseppe Ermini del 1955. In essi fu ripresa alla lettera la formula dell’art. 36 del  Concordato, si legge infatti nel suo preambolo

Questa formazione, anteriore a qualunque finalità professionale, fa si che la scuola primaria sia elementare non solo in quanto fornisce gli elementi della cultura, ma soprattutto in quanto educa le capacità fondamentali dell’uomo; essa ha, per dettato esplicito della legge, come suo fondamento e coronamento l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica.

Da questa premessa derivano le indicazioni specifiche per l’insegnamento della religione, che restava affidato al maestro se ritenuto idoneo dall’autorità ecclesiastica. In particolare il programma  per il primo ciclo contemplava:

L’insegnamento religioso sia considerato come fondamento e coronamento di tutta l’opera educativa. La vita scolastica abbia quotidianamente inizio con la preghiera, che è elevazione dell’animo a Dio, seguita dalla esecuzione di un breve canto religioso o dall’ascolto di un semplice brano di musica sacra. Nel corso del ciclo, l’insegnante terrà facili conversazioni sul Segno della croce, sulle principali preghiere apprese (Padre nostro, Ave Maria, Gloria al Padre, preghiera all’Angelo Custode, preghiera per i Defunti), su fatti del Vecchio Testamento ed episodi della vita di Gesù desunti dal Vangelo. Nello svolgimento di tale programma si tenga presente la “Guida di insegnamento religioso per le scuole elementari”, pubblicata dalla Commissione superiore ecclesiastica per la revisione dei testi di religione.

Per il secondo ciclo:   L’educazione religiosa si ispiri alla vita e all’insegnamento di Gesù, esposti nei Vangeli. La vita religiosa derivi da una sentita adesione dell’anima ai principi del Vangelo e dalla razionalità dei rapporti fra tali principi e l’applicazione della legge morale e civile.

Alle preghiere precedentemente apprese si aggiunga la “Salve Regina”, e si spieghi più particolarmente il significato del “Padre nostro”; inoltre si guidi il fanciullo alla conoscenza e all’apprendimento del “Credo”.

Si continui nella narrazione facile ed attraente di episodi del Vecchio Testamento (primo anno del ciclo) e del Vangelo. Nel secondo e nel terzo anno del ciclo si tengano pure facili conversazioni sui Comandamenti e sui Sacramenti, sulle Opere di misericordia corporale e spirituale, sul Santo Patrono, sulle tradizioni agiografiche locali, sui Santi la cui vita possa interessare particolarmente i fanciulli, sui periodi dell’anno ecclesiastico e sulla Liturgia romana; si leggano e si commentino passi del Vangelo, accessibili alla mentalità degli alunni. Non si trascuri l’eventuale riferimento a capolavori d’arte sacra.

Queste minuziose indicazioni erano affidate ad insegnanti, che non solo dovevano avere il riconoscimento di idoneità delle autorità ecclesiastiche, ma si erano anche formati in Istituti magistrali nei quali fino al 1966 non era previsto l’esonero dall’ora di religione e che per di più, nella stragrande maggioranza, erano confessionali perché in tutto il territorio nazionale solo cinque erano quelli statali.

C’è da pensare che  se nella scuola elementare il processo di confessionalizzazione nelle scuole elementari non ebbe troppo gravi conseguenze lo si deve all’ispirazione democratica dell’Associazione  italiana maestri cattolici (Aimc), la più seguita dalla categoria. Fondata da Maria Badaloni e Carlo Carretto nel 1945 da subito dopo la caduta del fascismo vide confluire al suo interno l’esperienza associativa delle sezioni dei maestri dell’Azione Cattolica, unica forma di associazionismo consentita durante il ventennio, raccogliendo, però, anche l’eredità dell’Associazione magistrale cattolica Niccolò Tommaseo, operante dal 1900 al 1926 e soppressa in seguito alle norme restrittive fasciste.

Nel suo primo Congresso Nazionale settembre 1946, prevalse una scelta, che ha caratterizzato a lungo le linee guida dell’Associazione,  impegnata sul piano del riscatto professionale e del sostegno alla nascente democrazia.

Non altrettanto si può dire della sua dirigenza che, insieme a quella dell’Uciim, ebbe modo di condizionare la didattica nelle scuole attraverso i Centri Didattici nazionali da loro controllati.

Nelle scuole medie inferiori e superiori, invece, si intervenne sull’ora di religione affidata a docenti, che, selezionati dalle curie, erano nominati annualmente dai presidi; pagati dallo stato

godevano, indipendentemente dall’ordine di scuola, del trattamento economico riservato ai docenti della scuola superiore; avevano il privilegio di cumulare punteggio valido anche per altre graduatorie. Erano tenuti ad essere ligi alle direttive curiali per non rischiare di non essere riconfermati nel posto, anche se talvolta si ricavavano un loro spazio diventando “tuttologi”, essendo gli unici a disporre della possibilità di rispondere alle nuove domande che i giovani portavano a scuola, almeno fino a quando fu introdotto lo studio della Costituzione nella scuola attraverso l’educazione civica, immessa con un dpr del 1958 superando rimozioni, qualunquismi e integrismi.

Quanto tali direttive, in realtà, fossero chiare emerge anche nei programmi destinati alla scuola media inferiore, riformata nel 1963, nei quali muta il linguaggio, ma non l’obiettivo.

L’insegnante, presentando le verità rivelate su Dio Creatore, Gesù Cristo Salvatore e lo Spirito Santificatore, in modo rispondente alle istanze profonde del ragazzo, lo aiuterà a scoprire e a vivere nella Chiesa la sua vocazione di cristiano.

Nella stessa direzione  andava nel 1967 il Dpr. 756 (G.U. 29 ag. 1967, n. 216), di modifica dei programmi dell’ora di religione nelle scuole superiori. In tutte, L’insegnamento della religione .. è orientato alla formazione  alla maturazione cristiana dei giovani.

Negli Istituti magistrali, però, pur introducendo il diritto all’esonero per i fedeli di altra religione, si aggiungeva che le ore di lezione dovevano restare due e si ribadiva che la seconda ora di lezione, settimanalmente programmata in due classi, sarà destinata agli sviluppi tipicamente professionali del problema religioso. Gli allievi dovevano, cioè, essere preparati ad insegnare la religione acquisendo fra l’altro la metodologia per alimentare il sentimento religioso e guidare il comportamento cristiano dei fanciulli. Ci si muove ancora nell’ottica della funzione catechistica dell’ora di religione, che sarà, almeno formalmente, abbandonata dopo l’approvazione del Nuovo concordato quando si parlerà di funzione culturale dell’irc.

Alla fine degli anni sessanta dell’ora di religione si comincia a discutere. Mentre, come si è detto, nella società avanzava il vento della secolarizzazione e si assisteva ad un rilancio e intensificazione dell’attività dell’associazionismo democratico nelle scuole e nella società, pur in assenza di una forte iniziativa politica dei partiti e sindacati, nella comunità ecclesiale cattolica, per effetto del Concilio Vaticano II,  cominciavano a maturare critiche al regime concordatario e in particolare alle condizioni di privilegio che gliene derivavano nella scuola

Questi fermenti del dissenso cattolico innestandosi con le spinte del sessantotto nella scuola si manifestano proprio in forme di contestazione  dell’ora di religione trascurata., invece, dal movimento studentesco. Riviste e convegni e una ricca pubblicistica ne danno testimonianza Anche sui testi usati nelle scuole si mossero critiche..

Da più parti si levavano voci molto critiche contro l’esistenza stessa dell’ora di religione: il Vangelo si vive non s’insegna era uno slogan diffuso fra i gruppi del dissenso. Ci furono casi di docenti dimissionari per dissenso (Empoli, Genova, clamoroso il caso dei 13 preti di Napoli) mentre  i cattolici del Movimento di cooperazione educativa Mce, invitavano i maestri al rifiuto d’insegnare religione. Intere classi di studenti delle superiori chiedevano l’esonero collettivo motivandolo con documenti contro la condizione ambigua dei  docenti di religione: nominati dalle curie senza concorso, ma soggetti al loro controllo.

L’istituzione reagì con la repressione, – clamoroso fu il caso del francescano Agostino Zerbinati a Genova licenziato non per motivi dottrinali, ma per avere rifiutato di schedare gli studenti! –, ma anche avviando un processo di aggiornamento. Le curie cominciano a considerare l’incarico per l’insegnamento della religione non più come un modo per sistemare preti o arrotondare le congrue dei parroci – si parcellizzavano gli incarichi per moltiplicare i “posti” –  e ad utilizzare laici, donne e uomini, formandoli con corsi e ad aggiornandoli con riviste e convegni. Si provvede all’aggiornamento dei programmi. Al tempo stesso si cercò di ostacolare il ricorso all’esonero ottenendo, anche se solo per poco, che una circolare ministeriale, n. 108/1980, stabilisse che la domanda di esonero fosse redatta in carta da bollo!

Il tema della presenza della religione a scuola diventa ben presto uno di quelli scottanti all’interno del dibattito che accompagna l’avanzare, da un lato, dei progetti di riforma nelle elementari e nelle superiori, dall’altro, del processo che porterà alla revisione dei Patti lateranensi. Si prospettano alternative solo formali, proponendo l’ora di religione come Un servizio religioso, o radicali cambiamenti come un insegnamento di storia delle religioni – nel progetto di Riforma delle superiori del 1982 si era proposta una storia del pensiero religioso per tutti gli indirizzi – magari opzionale a quello confessionale in una sorta di  un “doppio binario”. Se ne trova una traccia nei nuovi programmi delle elementari con l’introduzione di una “conoscenza dei fatti e fenomeni religiosi” sotto la responsabilità diretta del maestro, senza sostituire l’insegnamento concordatario.

Dall’ora di religione all’Irc

Non c’era in verità nelle autorità ecclesiastiche nessuna voglia di cambiamenti radicali. Emerge negli 1984 dagli Accordi di Palazzo Madama che rispecchiano la scelta di Craxi di portare a termine il lungo processo di revisione assecondandole. Le novità introdotte sull’insegnamento del religione cattolica tengono conto che ormai si avvia a conclusione la stipula delle Intese previste dall’art. 8 della Costituzione e che la religione cattolica non è più religione di Stato. Nel rinnovarsi perciò diventa insegnamento della religione cattolica e viene presentato non più come occasione per avere lezioni di catechismo  ma offerto come servizio alla scuola.  Significative pertanto sono le novità perché sembra rovesciata la prospettiva  tradizionale, ma non realmente innovative per la loro ambiguità: l’Insegnamento della religione cattolica (irc) serve alla scuola che non potrebbe prescindere dalla dimensione religiosa per fornire un’educazione integrale dell’uomo.

All’ art.9 secondo comma del nuovo  Concordato si legge: La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione.

Si individua così il nuovo “fondamento” per consentire la permanenza dell’impegno per la Repubblica di assicurare un insegnamento della religione nella scuola pubblica essendo venuta meno la sua definizione come religione dello Stato. Questo fondamento è il valore in sé della cultura religiosa di fatto identificata con il cattolicesimo che per di più fa parte del patrimonio storico del popolo. Non si  dice che esso, nella fase in cui questo popolo si è costituito in stato unitario, o è stato speso per rafforzare chi si opponeva alla sua costruzione, o si è notevolmente contaminato con altre culture.

Per evitare dubbi il testo usa i termini continuerà e ad assicurare!

Non solo si garantisce l’impegno dello Stato a mantenere nelle sue scuole l’insegnamento della religione, ma si dichiara che s’intende farlo in continuità col passato. L’impegno non vale, però, per la scuola materna, dove prima non c’era, e fu introdotto per due ore come nelle scuole elementari! Per circoscriverlo, si giustificarono i politici “laici”, evitando che restasse come insegnamento diffuso!

La presenza del nuovo irc, in verità, viene dichiarata necessaria perché la scuola possa raggiungere le sue finalità, ammodernando la formula del a fondamento e coronamento di gentiliana memoria, ma assicurando che avrà un carattere “culturale” non “catechistico”.

In verità nell’art. 5 del Protocollo addizionale, approvato successivamente a completamento del testo dei Patti, se ne mantiene la struttura: sarà impartito da docenti, che dovranno muoversi nell’ambito della dottrina cattolica, scelti e controllati dalle curie fra quelli che, si aggiunge, abbiano frequentato corsi di formazione tenuti all’interno di istituti, centrali o periferici, all’uopo costituiti e gestiti, a pagamento, dalle autorità ecclesiastiche. Si stabilisce, inoltre, che saranno nominati docenti anche nelle materne ed elementari pur in presenza di maestri disponibili e già dichiarati idonei.

Per sostituire il “diritto all’esonero” si sancisce il diritto a scegliere se “avvalersi” o non dell’irc; diritto che va, però, obbligatoriamente esercitato all’atto dell’iscrizione. Ci si avvale perché l’irc è un valore!

Appare evidente che ci sono tutte le premesse perché la pretesa facoltatività della frequenza possa essere ampiamente ridotta se non di fatto negata. E’ quello che si fa nello stesso Protocollo addizionale, prima, e, subito dopo, nella Intesa concordataria (per distinguerla da quelle costituzionali con le altre confessioni) del 1985 – detta Falcucci Poletti dai due firmatari –, che ne dà applicazione,  ma soprattutto nella prassi quotidiana delle autorità scolastiche locali. L’Intesa, seguita da numerose circolari su aspetti particolari, prevede che l’irc abbia luogo all’interno dell’orario scolastico obbligatorio senza definire, però, norme sulle opportunità d’impegno per i non avvalentisi, ma solo vaghe indicazioni su attività alternative. Giocheranno a carte dichiarò il ministro Falcucci in risposta alle proteste e alle denunce.

Dopo una risoluzione della  Camera dei deputati  che impegnava il governo a uscire dall’ambiguità e a non creare forme di discriminazione, si stabilì con un’ennesima circolare che le scuole dovevano organizzare attività alternative e imporle come obbligatorie Non dovevano essere ispirate ai programmi delle altre discipline, per non danneggiare gli avvalentisi, né troppo interessanti così da indurre gli studenti a preferirle all’irc. Le scelte operate di fatto dalle scuole circa tali attività  e soprattutto la loro obbligatorietà furono decisamente impugnate davanti alla giustizia amministrativa.

Sulla nuova normativa si era infatti sollevata una diffusa mobilitazione che, pur rifiutando alla radice il nuovo irc, aveva avviato una puntuale contestazione delle norme e della prassi di attuazione del nuovo ordinamento. Si ottenne l’approvazione  della L. 281/1986 che trasferisce il diritto di scelta dai genitori agli studenti delle scuole medie superiori, anche se minorenni. Sollevato dal Tar del Lazio il problema della costituzionalità dell’obbligo della scelta, che rendeva l’irc di fatto opzionale e non facoltativo introducendo quella discriminazione esplicitamente vietata dalla legge 449/1984 applicativa dell’Intesa con la Tavola Valdese, si giunse alla sentenza n. 203/1989 della suprema Corte. Questa imponeva lo stato di “non obbligo” per chi sceglieva di non avvalersi, e a quella successiva n. 13/1991 che lo precisava come diritto di non presenza a scuola, Gli integralisti denunciarono come occasione per introdurre nella scuola l’ora di nulla, ignorando che la non presenza era già prevista ai tempi del fascismo per chi chiedeva l’esonero. R.d. 1297/28.

Non si ottenne, invece, l’obbligo per le scuole di collocare l’irc alla prima o all’ultima ora dell’orario obbligatorio per favorire l’esercizio del diritto di scelta. In verità perfino una circolare del 10 gennaio 1924 lo collocava all’inizio e alla fine delle lezioni per favorire l’esercizio dell’esonero!

Solo nelle scuole materne le due ore settimanali previste possono essere raggruppate in periodi diversi dell’anno per favorire, di fatto, ore a disposizione in occasione di festività religiose, Natale e Pasqua in particolare. Molto più importante fu la definizione dei limiti del ruolo dei docenti di irc all’interno dei Consigli di classe, sanciti da una seconda Intesa Mattarella Poletti del 1990. In occasione degli scrutini possono intervenire solo su questioni concernenti studenti che si avvalgono e il loro voto, se determinante per provocare bocciatura o non ammissione agli esami, non ha valore: viene accluso a verbale accompagnato da una motivazione scritta. In ogni caso il voto non compare sulla pagella, ma trasmesso alle famiglie con una scheda di valutazione. Questa forma farraginosa ha offerto più volte occasione per contestazioni o false interpretazioni dei docenti che non si rassegnano ad essere discriminati anche perché temono di perdere autorevolezza presso gli studenti. Un altro contenzioso è sorto, e ancora permane, quando sono stati introdotti i crediti, scolastici e formativi. Ha iniziato Berlinguer a proporre nel 1999 che ne fosse consentita l’attribuzione da parte dei docenti di irc, anche se solo per gli avvalentisi. Un ricorso contro tale provvedimento, ritenuto discriminante, fu respinto dal Tar del Lazio anche per la mancata notifica alla Cei organismo, in verità, estraneo all’ordinamento scolastico, pur se riconosciuto dallo Stato.

Un successivo ricorso sull’argomento contro un provvedimento del ministro Fioroni nel 2007  che estendeva l’ambito delle competenze dei Consigli di classe in merito all’attribuzione dei crediti   formativi, accolto dal Tar è stato respinto dal Consiglio di Stato, che ne ha annullato la sentenza. Altri sconfinamenti ci sono stati,in occasione delle successive innovazioni concernenti i programmi nei diversi ordini di scuola, ma si è sempre mantenuta inalterata la collocazione oraria e normativa del’irc. Non  ha subito variazioni, neppure quando il ministro Moratti ha introdotto uno specifico spazio orario per le discipline facoltative. L’irc è restato fra quelle obbligatorie! Un tentativo del Ministro d’inserire il voto sull’irc in pagella non ha avuto successo, invece,  perché nel novembre 2005 il Tar del Lazio ha respinto il provvedimento.

Un svolta decisiva, in verità si è avuta con la L.186/2003 che ha istituito un ruolo speciale per i docenti di religione cattolica mettendo un limite al loro stato di precarietà. Ogni anno infatti la loro nomina decadeva e poteva non essere rinnovata senza che fosse necessario darne spiegazione. L’autorità ecclesiastica anche durante l’anno aveva diritto a ottenere il licenziamento del docente che non considerasse più “idoneo” , ma doveva documentare all’autorità scolastica i motivi alla base della richiesta. Non era facile mantenere questa discrezionalità nei confronti di personale inserito nei ruoli dello Stato. Si è dovuto inventare un concorso speciale: per potervi partecipare resta necessaria la dichiarazione di idoneità delle curie che, per di più, mantengono il diritto di ritirarla anche dopo la nomina e la permanenza nel ruolo. Per sanare questa grave anomalia il licenziamento di un funzionario pubblico, vincitore  di concorso, a discrezione di un’autorità diversa da quella che l’ha assunto in ruolo si è inventato per il docente “sfiduciato” il diritto a mantenere il ruolo ordinario con il passaggio all’insegnamento in altra disciplina per la quale sia abilitato o, comunque, ad altra mansione nell’ambito della Pubblica Istruzione.

Pur in questa condizione di stabilizzazione dei docenti dell’irc si continua a discutere perché proprio per la loro stabilizzazione si accentua un’incongruenza resa evidente in questi ultimi tempi: stanno diminuendo, lentamente ma costantemente, gli studenti che si avvalgono – sono il 90% –  non diminuiscono anzi aumentano e non subiscono tagli i docenti di religione oltre 25.000. Non deve meravigliare perché anche per un solo studente lo Stato è impegnato a garantire l’irc. Sta inoltre diminuendo il numero dei sacerdoti impegnati a favore dei laici e fra i quali prevalgono le donne: sono il 56% del totale.

Si continua a discutere anche per il ciclico riemergere delle controversie sulla celebrazione di cerimonie religiose nelle scuole, sulla sospensione delle lezioni per favorire la partecipazione degli studenti a quelle in altre sede, o sulla visita nelle scuole stesse di ecclesiastici a diverso titolo. Più dirompenti sono le altrettanto cicliche polemiche sulla presenza del Crocefisso nelle aule scolastiche, in questi giorni tornate d’attualità per la sentenza della Camera alta della Corte di Strasburgo a cui si era appellato il governo italiano contro quella precedente della stessa Corte contraria che l’aveva dichiarata discriminante.  Proprio questa vicenda, da la misura della complessità del problema perché in essa si confondono questioni di principio, culturali e pedagogiche, con l’uso politico della religione nelle forme più sfrontate con l’aggravante che si svolgono mentre nel nostro Paese si afferma, ormai irreversibilmente, una società multiculturale e multireligiosa

Prospettive attuali

Di tale complessità bisogna tener conto se ci si interroga sulle prospettive. Sul particolare aspetto dell’irc essa spiega il perpetuarsi della ricerca di forme che consentano alla scuola di offrire conoscenze sulla religione e/o sulle religioni con soluzioni alternative all’esistenza del solo irc, al cui carattere culturale e non catechistico ben pochi osano ancora fare appello. Non mancano proposte di affiancare l’irc con altri insegnamenti confessionali, respinti dagli evangelici non esclusi dagli islamici. Sempre più frequentemente si rilanciano proposte per aggiungere all’irc – non se ne propone l’abrogazione – altre discipline, che affrontino il discorso sulla/e religione/i in chiave storica, antropologica, sociologica, insegnamenti, cioè di storia delle religioni, di discipline attinenti alle scienze sociali, perfino la presentazione della Bibbia. Per di più talvolta sono proposti come opzionali all’irc che cesserebbe quindi di essere facoltativo, rinunciando pregiudizialmente a metterne in discussione l’esistenza. Si rilancia in tal modo il doppio binario, anche se la fine indecorosa della introduzione della conoscenza dei fatti e fenomeni religiosi nelle scuole elementari ne ha sancito il carattere velleitario.

I tentativi pur ricorrenti non hanno successo perché la proposta coinvolge chiaramente la concezione stessa del fenomeno chiamato religioso e al tempo stesso va ad innestarsi, acuendolo, sul conflitto intorno al tema della laicità dell’istituzione scolastica. Inutile rilevare le difficoltà ad individuarne una definizione condivisa.

Si può, in verità, rilevare che si può forse concordare se la si può declinare a partire dall’ovvio riconoscimento della storicità della dimensione umana nella quale religioni e ideologie hanno accompagnato e accompagnano il dispiegarsi della vita dei popoli.

In questa prospettiva si può riconoscere una valenza sociale alla religione nelle sue diverse forme, alle religioni quindi, e il dovere di ad assicurare ad esse guarentigie da ricondurre però a quelle da assicurare a tutte quelle “narrazioni” o a concezioni del mondo su cui si fondano le identità – ideali culturali, etniche, sociali – individuali o collettive. Nella scuola quindi non c’è bisogno di un particolare autonomo insegnamento sulle religioni, ma dell’attenzione alle loro manifestazioni nel tempo e nello spazio all’interno delle diverse discipline – dalle storie alla letteratura, dalla geografica antropica ai linguaggi dell’arte – in relazione ai diversi gradi d’istruzione. Su questa linea dovrebbe costituirsi un fronte ampio senza tentennamenti o espedienti dalla storia delle religioni alla lettura della Bibbia.

Altrettanto necessario che si ricostituisca uno spazio unitario per ripensare la Scuola della Costituzione ribadendo la sua funzione nazionale e la responsabilità della Repubblica nel ripromuoverla in un tempo così diverso da quello in cui è nata.

Si deve muovere da due premesse.   Il Sistema nazionale integrato uscito dalla legge di parità somiglia molto poco alla Scuola della Costituzione, né si può pensare che le gerarchie cattoliche consentano che sia messo in discussione Sono pronte, anzi, ad appoggiare ogni maggioranza disposta a conservarlo.

Gli interventi legislativi e amministrativi di politica scolastica degli ultimi dieci anni hanno prodotto un susseguirsi di progetti e provvedimenti,  da Berlinguer a Tremonti/Gelmini, volti a ristrutturare il Sistema – non uso il termine riforma per scivolare nel vortice delle polemiche sul loro valore – che, nella loro contraddittorietà, hanno posto con forza il problema proprio del governo del Sistema.

Forse dopo l’avvento della seconda Repubblica e l’avanzata del federalismo esso non può essere  lasciato all’esecutivo centrale e alle maggioranze, che lo sostengono, in competizione con gli assessorati regionali.

C’è forse da riscoprire il senso vero del carattere istituzionale del Sistema e portare fino in fondo la scoperta dell’autonomia da non affidare alle singole scuole, pur se ampollosamente chiamate istituzioni scolastiche, ma proprio al Sistema nel suo complesso a partire da una radicale trasformazione nelle funzioni, competenze e costituzione del suo organo supremo il Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione. Ne prendo a prestito il nome per indicare il punto da cui partire rovesciandone però il rapporto con il Ministero, che ne dovrebbe diventare l’organo esecutivo Deve diventare il referente del Parlamento. Un Consiglio così reinventato dovrebbe essere infatti espressione di quella stessa collettività di cittadini che al Parlamento delega l’esercizio temporaneo della sua sovranità.

Non vedo altra prospettiva di cambiamento reale che non si riduca a qualche puntellamento per ritardare il collasso della Scuola della Repubblica deformata, ma ancora non distrutta, dalla legge sulla parità, dalle contraddizioni del Titolo V e dalle picconate del clerico-berlusconismo.