Tre discorsi sulla decrescita

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lUn articolo di Guido Viale sul manifesto, la risposta di Paolo Cacciari su quelle stesse pagine, e qui, in fondo, un’ulteriore riflessione di Felice Fortunaci per Alternativa e Megachip. Tema: la decrescita e l’economia. Leggiamo tre prese di posizione che sembrano accomunate da una visione similare del nodo economia-ecologia. Sicuramente diverso è invece il terzo elemento che entra in contatto con il nodo: la politica. Sullo sfondo, i referendum che hanno cambiato la dialettica istituzionale italiana, e la Grande Crisi che in Grecia e presto da noi, esigerà prezzi insostenibili alle nostre società.

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Le sberle dell’economia
Guido Viale

Il vento che ci ha portato all’esito delle elezioni amministrative e dei referendum continuerà a soffiare; bisogna cominciare a fare i conti con i problemi che ci troveremo di fronte a breve. A cominciare dai problemi economici.

C’è ancora qualcuno che crede che la Grecia possa ripagare il suo debito (in gran parte nelle mani di banche francesi, tedesche e inglesi e ora anche della Bce) o anche solo rinegoziarlo a tassi accettabili mentre le politiche che le impone l’Unione Europea annientano qualsiasi possibilità di ripresa?

O c’è ancora qualcuno che crede che alla lunga possano sottrarsi a una sorte analoga gli altri paesi europei che si trovano più o meno nella stessa posizione della Grecia, a meno di una revisione radicale del “patto di stabilità”? E c’è ancora qualcuno che pensa che in un contesto simile l’economia italiana possa tornare a crescere, realizzando un avanzo primario sufficiente a riportare il suo debito al 60 per cento del Pil? E poi, di che crescita stiamo parlando? Di una crescita del Pil, cioè contabile, per soddisfare le società di rating, interamente controllate dai big della finanza internazionale.

Quella stessa finanza che – dopo aver mandato in rovina milioni di clienti irretiti da mutui fasulli, di risparmiatori ingannati da titoli di carta straccia, di imprese rimaste senza credito perché le banche continuano a investire sui derivati – sta ora scommettendo sul fallimento di quegli Stati che si sono svenati per salvarla, svenando a loro volta i propri cittadini.

E ancora, è forse possibile affrontare temi di ampio respiro – come il dibattito sul reddito di cittadinanza (su cui si appena svolto a Roma un incontro promosso dal Basic Income Network); o il finanziamento di scuola, università e ricerca; o un piano nazionale di lavori pubblici finalizzato alla manutenzione del territorio, degli edifici pubblici e di quelli dismessi (e non alle “grandi opere”), e molte altre cose ancora – ipotizzando un semplice spostamento da una posta di bilancio a un’altra di fondi in gran parte “virtuali”, cioè inesistenti, e senza venir meno al patto di stabilità dell’Unione Europea (quello di cui si fa forte, e che rende forte, Tremonti)?

Il dibattito sul ritorno alla crescita, imperativo categorico di tutto l’establishment economico, politico e sindacale del paese – ma anche del resto del mondo – e che ha coinvolto anche, su questo giornale, Valentino Parlato e Pierluigi Ciocca, lascia perplessi.

Si parla, certo con approcci differenti e anche contrapposti, delle condizioni perché l’economia italiana torni a crescere: in due tempi, secondo alcuni; perché senza tagli di bilancio e “conti in ordine” non può esserci ripresa; con più ricerca, più investimenti, più occupazione, secondo altri; perché questa è la premessa per poter salvare i conti pubblici. Ma di quale ricerca, quali investimenti, quale occupazione, cioè di quale “crescita” non si parla mai.

Non sono un fautore della decrescita. Trovo questo concetto povero di contenuti; inutilizzabile, se non impresentabile, nelle situazioni di crisi (quando a essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro); ambiguo (in quanto speculare, anche se opposto, a quanto ci viene proposto dagli economisti mainstream). Non credo che le otto “R” di Serge Latouche (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare) apportino al dibattito politico molto più di un chiarimento concettuale. Però, quando si scende – se mai si scende – sulle cose da fare o proporre è molto più facile ritrovarsi d’accordo al di là delle formulazioni dottrinarie. Ma questa diffidenza non significa certo accettazione del diktat della crescita.

Il problema è individuare prospettive e proposte praticabili secondo il principio “pensare globalmente e agire localmente”; dunque, in contesti in cui è possibile raccogliere le forze intorno a obiettivi condivisi. La campagna referendaria contro la privatizzazione dell’acqua, con tutti i significati di cui si è caricata nel corso del suo svolgimento, è l’esempio di un agire che da modeste dimensioni ha assunto un respiro generale.

La costruzione di un Gas (gruppo di acquisto solidale) è l’esempio di una prassi che ha un valore paradigmatico, anche se effetti ancora circoscritti.

In ogni caso, la “crescita” (un concetto largamente screditato: lo ricordo a Valentino Parlato) non può essere un obiettivo; e nemmeno lo “sviluppo”; lo è il governo o, meglio, l’autogoverno dei processi economici.

La conversione ambientale (ecologica, diversificata, diffusa, solidale, partecipata, sostenuta dai saperi della cittadinanza attiva)nei settori decisivi dell’efficienza e dell’approvvigionamento energetico, dell’uso razionale delle risorse – di cui la gestione dei rifiuti è solo l’ultima fase – dell’agricoltura e dell’alimentazione, della gestione del territorio, edificato e non, dell’educazione e della ricerca, è una prima approssimazione al concetto di autogoverno. E qui ci si ferma; perché per le sue caratteristiche di processo che nasce dal basso e, pur armato di buone pratiche e dei saperi che scienza, cultura e tecnologia mettono a nostra disposizione, la conversione ecologica ha bisogno in ogni luogo della partecipazione e concorso degli organismi attraverso cui si esprime la cittadinanza attiva. Per questo ogni sua ulteriore definizione è in gran parte rimandata ai processi di auto organizzazione e di autogoverno.

Tuttavia, mano a mano che i processi molecolari si concretizzano, unificano e rafforzano, i movimenti vengono a confronto ed entrano in conflitto con il potere della finanza internazionale e dei governi che ne sono mandatari a livello statuale. La prima posta in gioco di questo confronto è il bilancio degli Stati. E lungo questo percorso, la strada della bancarotta della finanza statale, a meno di una revisione radicale del patto di stabilità, sembra essere una tappa obbligata. Si tratta solo di vedere chi e come la gestirà.

Prendiamo la Grecia. Prima o poi farà default. Chi lo nega lo fa per scaramanzia; ma è come nascondere la testa sotto la sabbia. Il problema è se a questo passaggio obbligato si arriverà dopo aver spolpato lavoratori e popolo di tutto quello che hanno conquistato nel corso del secolo scorso, e dopo aver svenduto alla finanza internazionale tutto il vendibile (porti, utility, servizi pubblici, acqua, edifici, isole, spiagge,magari anche il Partenone); oppure se la dichiarazione di insolvibilità arriverà prima delle svendite, perché la mobilitazione popolare – e il timore della sua moltiplicazione in molti altri paesi – avrà imposto al governo greco o all’Unione europea un cambio di rotta. Il che ci ricollega alla mobilitazione in corso in Spagna, a un referente nelle rivolte dei popoli del Maghreb e del Medio Oriente e, finalmente, anche un po’ al vento che ha preso a soffiare in Italia.

E da noi? Qualcuno ha cominciato a pensare come si governa l’economia di un paese insolvente? Magari in compagnia di altri paesi insolventi? Forse non è una prospettiva immediata, ma nemmeno una mera ipotesi di scuola; e meriterebbe qualche attenzione in più. Gli economisti che possono farlo non mancano. Gli esempi a cui rifarsi, nemmeno. L’ultimo in ordine di tempo è l’Argentina, che non ne è neanche uscita tanto male; anche grazie al fatto che lavoratori e comunità hanno presso in mano il destino di molte aziende altrimenti condannate alla chiusura.

Ma il secondo dopoguerra (quello del 1945) è ricco di Stati insolventi, e l’Italia è uno di questi. Il caso più interessante è forse la Germania, dove oltre al debito pubblico era stato azzerato anche il valore della moneta, distribuendo a tutti una piccola somma per “ripartire”. Non che si debba ripercorrere strade già tracciate; oggi c’è l’euro e prima di affossarlo è probabile che si renda irrinunciabile l’azzeramento del patto di stabilità. Comunque, una maggiore apertura di spirito nel prospettare gli scenari di domani non farebbe male.

Il vento sta cambiando e bisogna attrezzarsi e mettersi al passo. Cambiare il mondo si può. Quando gli Stati Uniti sono entrati nella seconda guerra mondiale, in pochi mesi hanno convertito l’intero loro apparato produttivo (il più potente del mondo) per fare fronte alle esigenze della produzione bellica. Poi lo hanno di nuovo convertito (in poco tempo, e solo parzialmente) per fare fronte alle aspettative della pace. Oggi siamo in guerra contro una minaccia altrettanto se non più mortale: quella dei cambiamenti climatici. Molti governi – tra cui il nostro – non se ne curano affatto; quelli che se ne curano lo fanno in misura insufficiente. Ma la resa dei conti sta per arrivare e chi si sarà attrezzato per tempo si troverà meglio; o meno peggio. Ma una conversione ecologica del sistema produttivo e dei modelli di consumo dominanti non può avvenire senza liberarsi anche dalla cappa che la finanza internazionale ha steso sull’economia mondiale e sulla vita di tutti.

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Caro Viale, la decrescita è necessaria
Paolo Cacciari

Guido Viale mette correttamente in dubbio che la ricetta della crescita dei Pil possa salvare dal default gli stati nazionali più indebitati e con le economie più deboli. La concorrenza – si sa – non è un gioco a somma positiva: per far guadagnare alcuni devono perdere molti altri. Non è affatto vero che ampliando la torta si allargano proporzionalmente le fette.

Chi tiene il coltello per il manico (le istituzioni finanziarie) fa le porzioni che vuole e quelle destinate a remunerare i capitali investiti sono sempre le più grandi, per riuscire a saziare i giocatori più voraci. Ma oggi c’è dell’altro: di farina per impastare torte sempre più grandi non ce n’è più. I “fattori” di produzione fondamentali sono sempre meno disponibili. Per alimentare la crescita non rimane che drogarla stampando carta moneta, nell’attesa che scoppi la prossima bolla.

Tutto questo scrive Viale, ma si sente in dovere di distinguersi dagli «obiettori della crescita» (come li chiama Serge Latouche) poiché la decrescita sarebbe «un concetto povero di contenti, inutilizzabile se non impresentabile nella situazione di crisi, ambiguo…» e via apostrofando. Già altri amici e compagni di tante lotte (Pietro Bevilacqua, Roberto Mancini…) ci hanno sollecitati a cambiare lessico. Attaccarsi a una parola ostinatamente, per di più non amata, può apparire stupido. Ma in questo caso a me sembra necessario e utile insistere.

Lo abbiamo fatto con un libro (Decrescita. Idee per una civiltà post-sviluppista, Sismondi editore, Treviso) e lo faremo ancora meglio con la III Conferenza internazionale sulla decrescita economica per la sostenibilità ecologica e l’equità sociale che svolgeremo a Venezia dal 19 al 23 settembre del 2012.

Perché? Primo, perché in natura un modello di crescita illimitato, lineare, esponenziale non esiste se non per le formazioni cancerogene (rimando d’obbligo a Fritjof Capra).

Quindi decrescita significa propriamente e in prima istanza diminuzione dei flussi di materia e di energia impegnati nei cicli produttivi e di consumo (rimando d’obbligo al programma elettorale di Europe Ecologie).

Ma se ci fermassimo qui, alla sostenibilità, alla green economy, alle clean tech e, da ultimo, alla blue economy di Gunter Pauli prenderemmo un colossale abbaglio: non terremmo conto delle “trappole tecnologiche” e dell’ “effetto rimbalzo” sui consumi che genera la sola efficientizzazione degli apparati produttivi (il rimando agli studi di Martinez Aller è d’obbligo).

In altre parole, se i risparmi che si realizzano grazie alle innovazioni e alle nuove tecnologie servono per moltiplicare i consumi, il bilancio globale sarà crescente, cioè negativo per la salute del pianeta e di ogni essere vivente, specie se collocato sui rami bassi della gerarchia sociale. Scriveva qualche tempo fa sul manifesto Giorgio Ruffolo: «L’accumulazione, che è la logica del capitalismo, è per natura illimitata. Di fatto una logica impossibile, quindi illogica, dissennata».

Io credo che il termine decrescita infastidisca proprio perché colpisce il cuore del problema che molti dei critici della decrescita preferiscono non affrontare, credendolo “impresentabile” per la radicalità del cambiamento richiesto: immaginare e rivendicare una società fuori dal capitalismo e scegliere comportamenti, abitudini, stili di vita improntati al saper fare il più possibile da sé, alla sobrietà, alla sufficienza, al controllo consapevole e responsabile delle conseguenze del proprio agire.

Una società di liberi perché eguali, semplicemente, deve scegliere di farsi la raccolta differenziata, di astenersi dal mangiare hamburger, di evitare di servirsi di lavoro schivo, di servirsi delle banche che imprestano ad interesse, di rinunciare a produrre e vendere armi e via dicendo.

Insomma, dentro i paradigmi della crescita non credo vi potrà mai essere l’auspicato – da Viale e da tutti noi – autogoverno dei processi economici. Scriveva André Gorz (anche lui “povero di contenuti”?): «La decrescita è una buona idea: essa indica la direzione nella quale bisogna andare e invita a immaginare come vivere meglio consumando e lavorando meno e altrimenti».

Chissà perché non dovrebbe essere un mondo auspicabile, desiderabile, per il quale vale la pena lottare.

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La decrescita può avere un consenso?
Felice Fortunaci

La lettura dei due precedenti articoli pubblicati sul manifesto è piena di suggestioni contrastanti. Due autori che meglio di tanti altri criticano il pensiero economico dominante hanno tuttavia accenti diversi sul punto della decrescita. Li esprimono in modo ragionevole, e seguendoli mi trovo a oscillare anch’io intorno a un pensiero ondivago, come una nave in un mare agitato. Non è detto che sia un male, magari mi serve a ragionare senza pregiudizi.

Guido Viale precisa: “Non sono un fautore della decrescita. Trovo questo concetto povero di contenuti; inutilizzabile, se non impresentabile, nelle situazioni di crisi (quando a essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro); ambiguo (in quanto speculare, anche se opposto, a quanto ci viene proposto dagli economisti mainstream)”.

Tuttavia l’autore, che sappiamo essere uno dei più grandi esperti di riconversione ecologica, non cede di un millimetro all’ideologia della crescita e dello sviluppo, bensì le oppone “l’autogoverno dei processi economici”.

Mi pare di grande interesse l’utilizzo di questi termini. D’altronde è chiaro che in un’economia stazionaria sarà interesse collettivo quello di decidere consapevolmente cosa far crescere, cosa far decrescere e cosa mantenere stabile nel processo economico (Marx, in un certo senso, alludeva a queste scelte individuali e collettive quando sognava il suo comunismo, prefigurando l’affermarsi di una “proprietà individuale” che fosse altra cosa rispetto alla “proprietà privata capitalistica”).

Io, che mi riconosco a pieno nella lettura “decrescista” di Badiale e Bontempelli, non lascio però cadere il sospetto che possa essere necessario usare con cautela certi termini, che rischiano di diventare una bandiera che ci terrà lontane moltissime persone. Perché, se voglio cambiare l’economia e la politica, devo farlo prima o poi con grandi masse. Dire “prima o poi”, come vedremo, può segnare la differenza.

Se mi pongo il problema di raggiungere quanto prima una moltitudine, dovrò comunicare probabilmente con altre parole rispetto a “decrescita”, termine che suscita spesso equivoci. Parole che valgano allo stesso modo a disegnare uno scenario “in decrescita” che, al contempo, sia percepito “immediatamente” come opportunità di ricchezza umana e sviluppo di ciò che nella vita è buono e giusto (benessere, solidarietà, qualità delle relazioni, bellezza degli oggetti e loro durata, ecc.). Il buon vivere non è in crescita né in decrescita: è nella “giusta misura”. E così metto d’accordo Aristotele e Confucio, Occidente e Oriente.

Le prospettive avanzate da Viale sembrano affrontare la fatica di essere “decresciste” nei fatti (non potendo essere lette banalmente come “green-economy”), ma con toni più vicini alla cultura attuale dei lavoratori.

Ad esempio, investire nello sviluppo delle energie rinnovabili è una forma di crescita di una precisa area dell’economia, che però può comportare una decrescita complessiva dei consumi di energia e una riduzione enorme delle emissioni di CO2. Anche se non è detto, come ci ricorda Paolo Cacciari nella sua risposta a Viale, quando cita i rischi perversi dell’«effetto rimbalzo», che traduco così: grazie all’economia verde ottengo più energia e anziché risparmiarla la consumo per assecondare uno stile di vita che nel frattempo non cambio.

Viale mi spinge ad avvicendare altre parole, termini come pace, equilibrio, armonia, giustizia, che hanno una storia e un’accettazione più consolidata. Non si dimentichi che l’ideologia neoliberista – affermatasi sicuramente attraverso il bombardamento dei media e l’egemonia culturale degli economisti mainstream – ha promesso libertà e spazi ulteriori per l’individuo (ahimè solo nel campo dei consumi, la libertà di scegliere fra 120 tipi di shampoo). Il loro è uno scellerato e fatale fraintendimento, ma coglie dei motori simbolici legati alla modernità.

Torna il dubbio ondivago. Con “decrescita” abbiamo uno strumento analitico potente, ma non è che forse ci tagliamo fuori dal dialogo con i molti? Anche con quelli che ad esempio mettono al centro della loro azione i Beni Comuni, di nuovo in auge come hanno rivelato il recenti referendum?

Ma torna anche la certezza, ondivaga. Se si rinuncia al termine “decrescita” oggi, prima di fare una battaglia culturale sulle parole, si rischia comunque di finire nel generico. Il motivo è semplice: “decrescita” è avvertito come un termine negativo perché “crescita” nel senso comune è avvertito come un termine positivo. Ma se si accetta questo vincolo del senso comune (cioè quello di non turbare il “crescismo” inconscio della maggioranza) ci si obbliga a non esplicitare la cosa fondamentale, cioè appunto il fatto che siamo contro la crescita, e si finisce per usare formule vaghe e generiche.

La mia corsa sussultoria e ondulatoria continua, come vedete. Ma, ribadisco, sono oscillazioni non tanto sul concetto di fondo, che è saldo, ma sulla sua comunicazione e sui soggetti con cui interloquire. Con un ‘avvertenza però. Non va nemmeno assolutizzato questo “senso comune”.

Se digitate “crescita” su un motore di ricerca o su un database librario, scoprirete subito che il concetto non è mai direttamente teorizzato da alcuno, neanche dal più esagitato degli economisti liberali. Se cercate testi sulla crescita in quanto tale, non ne troverete che in Elhanan Helpman – Il mistero della crescita economica (Il Mulino) e poco altro. La crescita è un concetto – risultante – da un insieme di diverse disposizioni, inclusa la mancanza del concetto di limite. Infine, esso è un concetto esclusivamente economico ma normalmente le società sono lette e vissute, sopratutto dalla media culturale delle persone che ne fanno parte, come qualcosa di più ampio, ricco e complesso, che non il semplice risultato dei rapporti di produzione.

Di nuovo però oscillo, quando penso che alla parola decrescita devo associare spesso ulteriori spiegazioni e devo accompagnarla a qualche aggettivo più rassicurante (felice, serena, controllata, ecc.).

La questione è che il termine è opposto e speculare a quello che vogliamo combattere. Non ci si innamora della decrescita, al massimo la si può ritenere giusta. Ma bisogna forse innamorarsi della politica? Certo che no, tuttavia se si vogliono coinvolgere corpi e anime bisogna farlo parlando non solo alla testa, ma anche al cuore.

Inoltre, se parlo di decrescita dovrei ogni volta specificare che parliamo di decrescita dell’Occidente per un riequilibrio planetario nell’uso delle risorse. È infatti chiaro che, sia tra paesi sviluppati e paesi a un altro stadio di sviluppo industriale, che fra i ceti subalterni e i ceti ricchi dell’Occidente, esiste un forte senso di ingiustizia percepito per le diseguaglianze sociali esistenti. «Inizia prima a decrescere tu, ciccione!» avrebbe titolo a urlarci un indiano che vede finalmente affermarsi il suo Paese a livello globale, mentre noi siamo alla fine di un ciclo.

Capite il rovello, l’onda che sale e scende. Vado più dritto allora sulla questione della crescita, per capire se per combatterla devo urlare più forte e se questo può aiutare a farmi capire.

La crescita che conosciamo produce la catastrofe. Possiamo non dirlo, possiamo girare attorno alla questione, possiamo abbellire la pillola, ma la sostanza non cambia. Perciò anche le formule di Guido Viale mi sembrano molto al di sotto del problema di massima, cioè la catastrofe. Viale auspica l’«autogoverno dei processi economici». Ma non so se sia più comprensibile. Non sembra puntare a un cambio di paradigma, e perciò è comunque poco mobilitante.

Mentre dovrò essere sincero sui nodi veri dell’economia e degli stili di vita sostenibili.

Essere sincero e trovare alleati, compagni di strada, persone con idee all’altezza del pericolo estremo che il modello di sviluppo dominante fa correre a tutti.

Noi che riteniamo che si debba fermare la corsa alla crescita sappiamo che dovremo parlare a larghissimi strati di persone, e conquistarli perché abbandonino l’idea della crescita come obiettivo per migliorare le proprie condizioni di vita.

Il fatto è che questo non può essere l’obiettivo di breve periodo. Un cambio di cultura, mentalità, stili di vita così ampio come quello necessario non può essere realizzato in tempi brevissimi.

Nemmeno se gli eventi negativi costringeranno tutti a confrontarsi con la realtà. Soprattutto: il cambiamento che auspichiamo non può essere realizzato senza che vi siano persone organizzate che a questo lavorano.

Conta il fattore tempo. Il ragionamento di Viale non si sofferma sui tempi della crisi. Ma questi sono un fattore determinante. Se la l’insostenibilità catastrofica avverra’ in 100 anni è un conto. Se la crisi ecosistemica precipiterà in meno di 50 anni è un conto (politico) del tutto diverso. Soprattutto se esistono studi scientifici che anticipano ancora di più il redde rationem.
Il collasso eco-sistemico non attende le decisioni politiche: le determina. Pensare un trapasso lento implica (anche se non lo si dice) una terapia lenta. Ma se questa terapia risultasse impossibile? Se occorresse una terapia brutale e rapida?
In altri termini, per dirimere la questione politica bisogna andare a valutare i dati conoscitivi circa la crisi globale. Altra via non c’è per giungere a una decisione sensata. E serve qualcosa che sia un trait d’union politico-scientifico-organizzativo.

Vedo come un compito urgente costruire quest’organizzazione. So che abbiamo poco tempo, tuttavia non possiamo non procedere per gradi, perché è l’unico modo per avere qualche speranza di successo. Al momento noi non possiamo pensare di vincere e governare. Non ora. Il nostro obbiettivo è costruire l’opposizione. Una vera opposizione al ceto politico, che oggi manca quasi completamente. Scrivo “quasi” perché esiste il Movimento 5 stelle, che è un embrione di opposizione al ceto politico, ma che per le sue caratteristiche non può essere né efficace, né duraturo. Almeno non nella forma “iper-grillina” che conosciamo adesso. Tuttavia esso ha il merito di aprire la strada alla costruzione di un soggetto politico di opposizione che possa essere anche forte dal punto di vista elettorale.

La mia oscillazione ritrova un momento di fermezza. Odio le sette, i discorsi dei puri che epurano. Amo altrettanto i discorsi chiari che accettano anche di essere minoranza, ma si pongono il problema di convincere pacatamente una maggioranza. Nel breve periodo vorrei incontrare una minoranza di persone che sia in grado di assumere un livello molto alto di conoscenza e consapevolezza di quanto sta accadendo (e dei motivi per cui accade).

Quindi non corriamo, per ora, il rischio di essere malcompresi utilizzando il termine “decrescita”, e nemmeno costituisce un problema il fatto che sia un termine avvertito come “negativo”.

Le persone a cui mi rivolgo oggi sono appunto persone che sanno perfettamente che “decrescita” indica anche le cose che non sono per molti evocate da quella parola (“Liberiamo il tempo, riprendiamoci i beni comuni, aumentiamo le relazioni umane sensate fuori dal mercato”).

Il linguaggio specifico delle elezioni attingerà a slogan positivi e capaci di attrarre consenso elettorale. E’ un problema meno urgente, sebbene già presente.

Viale rientra in quel gruppo di intellettuali che, legittimamente, non ritiene necessaria la nascita di un soggetto politico. Essi credono che la diffusione delle buone pratiche, unite a forme di auto-organizzazione, possano realizzare il cambiamento di cui la società ha bisogno.

Guardo invece a una prospettiva diversa, e così leggo il progetto di Alternativa: costruire un soggetto politico per il cambiamento, in grado di competere anche sul piano elettorale-istituzionale.

Questa necessità si conferma proprio in questo periodo, dopo la bellissima vittoria ai referendum. Non cadiamo nell’errore che i movimenti possano sostituire i soggetti politici. Non vi è nessuna possibilità che il movimento assuma connotati maggiormente politici. I motivi sono abbastanza ovvi, e dipendono dalla eterogeneità delle realtà che compongono il movimento stesso. Dentro vi troviamo sinistra “radicale”, e pezzi di sinistra “moderata”, Cobas e Fiom, associazioni come Legambiente, e il movimento 5 stelle. Difficilmente si accorderanno su questioni che non riguardino uno specifico tema.

E soprattutto è difficile che compiano salti di qualità dal punto di vista della “politicizzazione” del movimento, perché questo sarebbe in contraddizione con gli interessi e gli obiettivi delle varie realtà di appartenenza, che sono già gruppi politici, oppure sono realtà che devono mantenere l’indipendenza dai gruppi politici, come i sindacati.

Naturalmente la vittoria al referendum permette di provare a fare qualche passo avanti, senza forzature né illusioni. Più si estenderà l’area di ascolto, più dovremo ascoltare le voci diverse. Ma non credo che possiamo e dobbiamo decidere noi, adesso, quali saranno le parole d’ordine di quella fase. Si deve procedere, sul piano politico, sperimentalmente; sul piano teorico, scientificamente. La decrescita è la bussola di una nave in un porto. Durante il viaggio cambierà, assieme ai metodi di rilevazione. Ma ora serve così, proprio per intraprendere quel viaggio.