Scola, vescovo di Milano, è l’antiMartini e l’antiTettamanzi

Vittorio Bellavite
coordinatore di “Noi Siamo Chiesa”

Con gli articoli di stampa di questi giorni, tutti non smentiti e attendibili possiamo essere certi della prossima nomina del Card. Scola a vescovo di Milano (ma lo Spirito Santo potrebbe sempre ancora intervenire….). Sono notizie fatte passare dagli organi ufficiali del Vaticano per preparare l’opinione pubblica.

L’amarezza e la delusione per questa notizia ci sollecitano alcune prime brevi considerazioni:

1) questa nomina è il prodotto di una imposizione dall’alto, che lascia sconcertata gran parte della diocesi, che vede ritornare da vescovo chi, a suo tempo, non fu accettato come prete. Le consultazioni sono state condotte, in segreto, in ristretti circuiti ecclesiastici : è un metodo che continuiamo a mettere in discussione (si vedano in nostri convegni e i nostri documenti) e che non è stato usato in buona parte della storia della nostra Chiesa;

2) anche questa nomina – come tutte quelle recenti in sedi cardinalizie del nostro paese- conferma lo scarso spirito di comunione ecclesiale di chi guida la Chiesa, che vuole imporre un orientamento unico a qualsiasi costo e dovunque. E’ la linea di chi vuole congelare il Concilio;

3) la storia personale del Card. Scola e le sue posizioni preconizzano per il suo episcopato una diretta contraddizione con gli episcopati dei Cardd. Martini e Tettamanzi. Ciò è percepito immediatamente dall’opinione pubblica cattolica e non, che pure avverte che questa nomina potrebbe essere poco capace di capire il nuovo corso della città di Milano dopo le recenti elezioni.

Tra i collaboratori del Card. Tettamanzi si cerca di sostenere che sono la diocesi e le situazioni concrete che “fanno” il vescovo, che può essere “convertito” (come avvenne per Mons. Romero). Anche se con qualche scetticismo, anche noi vogliamo sperare che ciò possa avvenire.

Nonostante tutto nella Chiesa noi ci siamo perché noi siamo chiesa.

**********
2 commenti:

francesco zanchini scrive:
lunedì, 27 giugno 2011 a 12:09 (UTC 2)

Voglio manifestare a Vittorio Bellavite il mio totale dissenso su un atteggiamento che, pur vittimistico di NSC sulla ventilata nomina di Scola, si mostri sostanzialmente remissivo di fronte al fatto compiuto.

Bisogna invece recuperare dignitosamente l’istituto del rifiuto di obbedienza anteriore alle Cinque Piaghe di Rosmini fino alle estreme conseguenze della non accettazione il più possibile clamorosa di questo pastore da parte della base.

In altri tempi, e fin quasi al Tridentino, questo istituto mantenne la sua efficacia, prima di essere surrogato dalla opposizione giurisdizionalista dei principi.

In subordine, ben potrebbe utilizzarsi la remonstratio ad summum pontificem, con l’appoggio di Tettamanzi o del suo entourage, incluso il consiglio pastorale diocesano, che è rappresentativo di molte delle forze sane che agiscono oggi della chiesa ambrosiana.

Si piega alla prepotenza chi è disposto a farsene complice passivo (ma necessario). Si apra dunque subito una discussione sul tema, in tutte le sedi possibili e da parte di tutte le forze ecclesiali decisive in campo.

vittorio bellavite scrive:
martedì, 28 giugno 2011 a 09:04 (UTC 2)

Rispondo ben volentieri a Francesco Zanchini che mi ha interpellato ieri sulla nomina di Scola Le sue proposte non sono praticabili. Tutto qui.

Ho sollecitato in tutti i modi reazioni significative del clero di orientamento diverso da Scola ma tutti si lamentano ma non agiscono e subiscono passivamente.

In novembra abbiamo fatto un incontro pubblico, promosso da sette gruppi locali insieme a noi ,sulla nomina del vescovo.

Esso si è concluso con un invito alle realtà cattoliche (parrocchie, religiosi, laici ecc….) a discutere del problema e a pronunciarsi. Non abbiamo ottenuto niente.

Ne abbiamo parlato all’assemblea nazionale di Noi Siamo Chiesa domenica 19. Si è concluso di inviare un testo alla diocesi dicendo quello che pensiamo ( dopo il mio testo di venerdì che è una reazione di prima battuta)

Questa è la situazione. Ciò non toglie che non ci sia resistenza e scontento, anzi mi pare vasto ma il sistema per ora è questo, è bloccato, si mormora ma non si parla e non siamo più negli anni ’70.

Noi dobbiamo calibrare i nostri interventi, non possiamo fare cose che, nel concreto, si trasformino in un autogol.Del resto il mio testo è quanto di più esplicito sia uscito, non mi pare reticente.

——————————–

Scola, l’anti-Martini a Milano

Luigi Sandri
Il Trentino, 18 giugno

Un anti-Martini a Milano? Se (se) il nuovo arcivescovo di Milano sarà l’attuale patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, il pontefice regnante avrà, con una sola mossa, posto il prescelto in “pole position” nel futuro conclave e, nel contempo, garantito un altro tassello per assicurare una interpretazione restrittiva del Concilio Vaticano II in campo ecclesiologico, assai diversa da quella, più lungimirante, suggerita dal cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo ambrosiano dal 1979 al 2002, e anche, in campo pastorale, da quella portata avanti dal cardinale Dionigi Tettamanzi, in procinto di dimettersi dalla cattedra di san Carlo, perché ha compiuto in marzo i 77 anni (l’età delle dimissioni dei vescovi è a 75; per i porporati di solito è differita di due anni).

Pare che, per Milano, sia stata presentata al papa, dieci giorni fa, una terna che vedrebbe il nome di Scola dominare su quello di mons. Aldo Giordano, osservatore vaticano al Consiglio d’Europa, e di mons. Francesco Lambiasi, vescovo di Rimini; secondo altre voci, invece, il terzo nome sarebbe quello di mons. Pietro Parolin, nunzio in Venezuela.

Scola è sempre stato un fervido ammiratore di Joseph Ratzinger, come teologo e come papa, da questi ricambiato con grande stima, tanto è vero che lo volle relatore generale al Sinodo dei vescovi del 2005 dedicato all’Eucaristia. Ma in Lombardia – ove è nato nel novembre 1941 – Scola non ebbe molti successi, anche se qui legò con Comunione e Liberazione (CL, movimento di cattolici intransigenti, almeno così li definiscono i loro critici). Nel ’91 fu nominato vescovo di Grosseto, nel ’95 divenne rettore della Pontificia Università Lateranense, e nel 2002 papa Wojtyla lo volle a Venezia.

Ecclesiologicamente, Scola è assai lontano da Martini; infatti, fu freddissimo sulla proposta di questi che, al Sinodo dei vescovi del 1999, propose, seppure non usò questa parola, un “Nuovo Concilio”, per dibattere sui seguenti temi: i necessari sviluppi dell’ecclesiologia di comunione prospettata dal Vaticano II, la “carenza già drammatica di ministri ordinati” (sottinteso: la questione del celibato dei preti), la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, il rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale.

Era un manifesto che, implicitamente, criticava le scelte di papa Wojtyla e del cardiale Ratzinger che, su tutti questi argomenti avevano sì parlato e deciso ma, lasciava intuire l’arcivescovo, in modo non soddisfacente.

Nemmeno Tettamanzi ha fatto suo questo programma anche se, in prospettiva, ha imboccato quel solco, con una pastorale mite, attenta e anche coraggiosa, come quando, mentre un cardinale a Roma parlava di “omicidio” nel caso del “distacco della spina” ad Eluana Englaro, lui chiese silenzio e preghiera. Perciò, l’eventuale promozione di Scola a Milano, avrebbe il sapore di una chiusura di una stagione troppo ardita per Roma, che desidera invece un assestamento su una interpretazione rassicurante del Vaticano II.

E’ vero che, a Venezia, il patriarca ha varato iniziative interessanti per approfondire ad esempio i rapporti con il mondo musulmano, e questo non è un dettaglio trascurabile; ma, sul piano ecclesiologico, la sua ascesa sulla cattedra di Ambrogio e Carlo vorrebbe dire sigillare la stagione martiniana.

E non può non far riflettere che il papa scelga Scola, già legato a CL, mentre a Milano la gente ha voluto come sindaco Giuliano Pisapia. Ma vi è di più: oltrepassando la Lombardia e l’Italia, con la sua decisione Benedetto XVI mette in particolare risalto il “promosso” nella cerchia dei porporati. Ma un proverbio che a Roma si ripete nelle grandi occasioni, recita: “Chi entra in conclave papa ne esce cardinale”.

——————————–

Scola a Milano, la rivincita del vescovo di Cl

Gianni Barbacetto
www.ilfattoquotidiano.it

Il patriarca di Venezia pronto a succedere a Tettamanzi. Nel 1970 fu cacciato dalla diocesi ambrosiana: per “settarismo”. Obbediva solo a don Luigi Giussani e non riconosceva altre autorità

“Per la Chiesa ambrosiana sarà un trauma. Se davvero Angelo Scola sarà scelto come prossimo arcivescovo di Milano, sulla diocesi più grande del mondo, l’arcidiocesi di Giovanni Battista Montini e di Carlo Maria Martini, piomberà un macigno. Non riesco a crederlo possibile: sarebbe, anche per il clero ambrosiano, uno strappo culturale e pastorale lancinante”.

Chi manifesta queste preoccupazioni, a condizione di aver garantito l’anonimato, è un personaggio che ha avuto un ruolo nella storia della diocesi di Milano. Con lui, sono molti i preti e i laici impegnati nelle strutture ecclesiali che sono seriamente allarmati per il possibile arrivo di monsignor Scola nella curia di piazza Fontana. Sarebbe la grande rivincita: fu cacciato dalla diocesi di Milano nel 1970, tanto che dovette andare a farsi ordinare sacerdote a Teramo, e ora tornerebbe nella Chiesa di Ambrogio da trionfatore.

L’attuale arcivescovo, Dionigi Tettamanzi, a settembre si ritirerà in pensione. Il candidato favorito a sostituirlo è il patriarca di Venezia Angelo Scola, che gode della fiducia di papa Benedetto XVI.

Angelo Scola nasce a Malgrate, non distante da Lecco, nel 1941. Maturità al liceo classico Manzoni di Lecco, poi laurea in filosofia all’Università Cattolica di Milano. Intanto però Angelo ha fatto l’incontro che gli cambia la vita: quello con “il Gius”, don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione. Decide, adulto, di diventare prete. Entra nel seminario diocesano milanese: un anno a Saronno, poi a Venegono, dove si compiono gli studi teologici. Ma alla vigilia dell’ordinazione, il rettore Attilio Nicora decide di “fermare” il giovane Scola.

Il seminario milanese ha una tradizione antica e prestigiosa, che risale a San Carlo Borromeo: non può tollerare che alcuni seminaristi vivano tra i chiostri silenziosi di Venegono come fossero un corpo separato, senza riconoscere davvero l’autorità dei superiori, dei professori, dei teologi, del padre spirituale, perché hanno i loro maestri, i loro superiori, i loro teologi, i loro padri spirituali. Monsignor Nicora spiega ai ciellini che non possono usare il seminario ambrosiano come fosse un taxi.

Così viene bloccato Angelo Scola, ma hanno qualche difficoltà anche Massimo Camisasca, Luigi Negri, Marco Barbetta, altri pupilli di “don Gius” che obbediscono a lui e solo a lui. Cl s’incarica di trovare altre strade per far diventare prete Scola e anche gli altri faranno poi comunque carriera nella Chiesa. Il ventinovenne Angelo di Malgrate viene ordinato sacerdote il 18 luglio 1970 dal vescovo di Teramo, monsignor Abele Conigli, e poi parte per Friburgo, dove completa gli studi di teologia.

Come gli altri preti ciellini vive in una sorta di extraterritorialità, fuori dalla diocesi, tanto che nel 1976, quando partecipa al primo convegno ecclesiale organizzato dalla Cei su “Evangelizzazione e promozione umana”, nel programma viene indicato come proveniente da Caserta. Per capire la sua espulsione di fatto dal seminario maggiore ambrosiano, bisogna ricordare che cosa stava succedendo in quegli anni a Milano. Il gruppo di Giussani aveva occupato il settore giovanile dell’Azione cattolica ambrosiana, con grande imbarazzo del presidente, Livio Zambrini.

Negli anni Sessanta, “il Gius” conquista Gioventù studentesca, “movimento d’ambiente” dell’Azione cattolica nelle scuole, trasformandola nel nucleo da cui nasce prima Undicesima ora, poi Comunione e liberazione. Con sapiente “entrismo”, colonizza il Settore giovani dell’Azione cattolica ambrosiana, ai cui vertici impone i ciellini Massimo Camisasca e Piera Bagattini. Angelo Scola era intanto diventato presidente della Fuci, l’organizzazione degli universitari cattolici. La campagna di conquista s’interrompe nel 1972.

L’assistente diocesano di Azione cattolica, don Antonio Barone, fiancheggiato dai giovani don Giovanni Giudici e don Erminio De Scalzi, va dal cardinale arcivescovo, monsignor Giovanni Colombo, e fa presente che la situazione non è più tollerabile. Si è insediata a Milano una Chiesa “parallela”, che risponde non al vescovo e ai preti e laici che hanno cariche formali, ma soltanto alla gerarchia invisibile di don Giussani. Il cardinale, dopo qualche tentennamento, interviene.

Camisasca e Bagattini sono costretti a dare le dimissioni, sostituiti da Giorgio Vecchio e Antonietta Carniel. Ma “Don Gius” e i suoi non si danno per vinti. Spostano la guerra a Roma. Ottenendo importanti riconoscimenti prima da Giovanni Paolo II e ora da papa Ratzinger. Una sorte beffarda ha già voluto che Scola diventasse cardinale nel concistoro del 21 ottobre 2003, lo stesso che ha concesso la porpora anche ad Attilio Nicora, il rettore che lo cacciò da Milano.

Ora, se arriverà nella diocesi ambrosiana come arcivescovo, la sua rivincita sarà completa.

——————————–

Il cardinale Scola torna a casa. A Milano

Sandro Magister
http://chiesa.espresso.repubblica.it

È imminente la nomina dell’attuale patriarca di Venezia ad arcivescovo della sua diocesi natale. Storia e ritratto di un uomo cresciuto alla scuola di due grandi maestri: Giussani e Ratzinger

Ritornare come arcivescovo e cardinale a Milano, nella stessa arcidiocesi che quarant’anni fa neppure l’aveva voluto ordinare prete, è una bella rivincita per Angelo Scola.

Fosse stata decisa collegialmente, dall’alto clero e dai maggiorenti del laicato milanese, la sua nomina non sarebbe mai passata. Men che meno se Benedetto XVI avesse dato retta al suo segretario di stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Il mite Joseph Ratzinger è stato su questo inflessibile. Un nome, un solo nome, il papa aveva in mente per la diocesi più grande e più prestigiosa del mondo. E l’ha tenuto fermo contro ogni opposizione.

Benedetto XVI non passerà alla storia come grande uomo di governo. La curia vaticana l’ha lasciata come l’ha trovata, nel disordine in cui già era affondata con il suo predecessore Karol Wojtyla, troppo mondialista per occuparsi del cortile di casa. Per le più alte cariche curiali papa Ratzinger si è limitato in sei anni a pochissime chiamate nominative, non tutte riuscite, di uomini da lui conosciuti di persona. La prima, quella di Bertone alla segreteria di stato, si è presto rivelata per il papa più fonte di guai che di vantaggi. Ma l’ultima, quella del cardinale canadese Marc Ouellet a capo della congregazione che vaglia e propone al papa la nomina di ogni nuovo vescovo, promette di dargli più consolazioni. Sull’invio di Scola a Milano, tra Ouellet e Ratzinger l’intesa è stata perfetta.

E doveva essere così. Il sodalizio dei tre è di lunga data, temprato da battaglie comuni. La rivista teologica internazionale “Communio”, fondata nel 1972 da Ratzinger, Hans Urs von Balthasar e Henri De Lubac come contraltare conservatore al successo della rivista progressista “Concilium”, ebbe proprio in Scola e Ouellet i suoi adepti della prima ora, e prese corpo a Friburgo in Svizzera, nella facoltà teologica dove lo stesso Scola studiava.

A Friburgo, Scola era arrivato dopo un percorso tortuoso, ordinato prete a 29 anni nel 1970 non a Milano, la sua arcidiocesi di nascita, ma dal vescovo di Teramo, Abele Conigli, che gli aveva dato ospitalità dopo che i seminari milanesi, ai quali Scola aveva bussato tre anni prima forte di una laurea in filosofia all’Università Cattolica, l’avevano messo alla porta a motivo della sua militanza in Comunione e liberazione, movimento su cui l’arcivescovo di Milano dell’epoca, Giovanni Colombo, aveva forti riserve.

Del fondatore di Comunione e liberazione, don Luigi Giussani, il giovane Scola era uno dei rampolli più in vista. Fu per una decina d’anni il numero due del movimento a Milano, prima e dopo il burrascoso 1968, prima e dopo il suo farsi prete. Nel 1973 don Giussani – l’avrebbe scritto nelle sue memorie – pensò seriamente a lui come a suo successore.

Ma l’anno seguente, e per due anni, Scola patì difficoltà di salute. E Comunione e liberazione prese una piega antiborghese e terzomondista che a don Giussani non piacque, e alla quale lo stesso Scola pareva indulgere, come capo in quegli stessi anni dell’ISTRA, Istituto di studi per la transizione, dove arditamente incrociava teologia e teorie politiche, scienze del linguaggio e antropologia, Hosea Jaffe e Samir Amin. Don Giussani ordinò la chiusura dell’ISTRA nel 1976 e riprese in pugno l’intero movimento. Da allora il percorso di Scola continuò ad essere marcato dall’appartenenza a Comunione e liberazione, ma senza più cariche operative.

Con l’avvento, nel 1978, di Giovanni Paolo II, un papa amico, la strada per don Giussani e il suo movimento fu spianata. Scola prese a insegnare teologia a Friburgo. Poi, dal 1982, a Roma alla Pontificia Università Lateranense. Nel 1986 divenne consulente della congregazione per la dottrina della fede, della quale il cardinale Ratzinger era prefetto.

Nel 1991 è consacrato vescovo di Grosseto. Ma quattro anni dopo è di nuovo a Roma come rettore della Lateranense, dove fonda e presiede un “Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia” con filiali in tutto il mondo. Nel 2002 è nominato patriarca di Venezia e l’anno seguente è fatto cardinale. Entra nella rosa dei papabili ma quando il conclave arriva, nel 2005, non corre per sé, non ci pensa neppure, ma per il suo maestro Ratzinger.

Il quale, anche da papa, ha per lui un occhio di riguardo. Le volte, rare, in cui Benedetto XVI chiama a consulto dei cardinali sulle grandi questioni della Chiesa, Scola è tra questi. Venezia è una piccola diocesi con una grande storia mondiale, che consente al suo patriarca di operare a largo raggio.

Scola vi fonda uno “Studium generale” intitolato a san Marco, il patrono della città, che si articola in tutti i gradi del sapere, dall’infanzia all’università, con studenti da molti paesi, con corsi in più discipline e con la teologia che tutte le abbraccia, con una sua casa editrice.

E poi crea una rivista e un centro culturale internazionale dal titolo “Oasis”, che fa da ponte verso l’oriente, dall’Europa dell’Est e dal Nordafrica fino al Pakistan, in più lingue compreso l’arabo e l’urdu, con un’attenzione spiccata all’islam e alle cristianità presenti in quei paesi, con periodici convegni fra vescovi ed esperti cristiani e musulmani.

Da Venezia, Scola lancia una parola d’ordine per definire l’incontro tra i popoli e le religioni: “meticciato”. Su “Oasis” il vescovo di Tunisi, Maroun Elias Lahham, gliela contesta come equivoca e incomprensibile per gli stessi musulmani. Ma il patriarca la tiene ferma, la difende. A differenza di Ratzinger, Scola non brilla per chiarezza concettuale. L’esperienza vitale, l’incontro personale con Cristo, in lui sovrastano l’argomento di ragione, come sempre gli aveva insegnato don Giussani. Ma questa polivalenza espressiva si è rivelata per lui un vantaggio a livello di opinione pubblica. Quando contrappone il “meticciato di civiltà” al deprecato “clash of civilizations” il consenso progressista è sicuro. Quando pubblicizza le iniziative di “Oasis” Scola rastrella il consenso dei multiculturalisti. Nonostante la sua provenienza da Comunione e liberazione e nonostante la sua indubitabile linea ratzingeriana, Scola gode di buona stampa più di ogni altro leader ecclesiastico italiano, a destra come a sinistra.

Certo, la vita gli sarebbe diventata difficile se dalla tranquilla Venezia Scola fosse stato proiettato nel centro della mischia ecclesiale e politica, come presidente della conferenza episcopale italiana. Era questo l’approdo che per lui si profilava, quando tra il 2005 e il 2007 si combatté la guerra di successione al cardinale Camillo Ruini, come capo dei vescovi. A Ruini sarebbe piaciuto lui, come successore. Ma in Vaticano sia il vecchio che il nuovo segretario di stato, i cardinali Angelo Sodano e Bertone, erano contrarissimi. Il secondo, soprattutto, fece di tutto per bruciare la candidatura di Scola. La sua nomina, sosteneva, avrebbe irreparabilmente “diviso” l’episcopato. In realtà avrebbe azzerato le ambizioni di Bertone di esser lui il capo della Chiesa italiana nell’agone politico. Alla fine, quando a Benedetto XVI toccò di decidere – perché in Italia è il papa che nomina il presidente della CEI –, la sua scelta non cadde su Scola, e nemmeno sul docile vescovo che Bertone avrebbe voluto impalmare, Benigno Papa, di Taranto, ma sul ruiniano Angelo Bagnasco. Al cardinale di Venezia la mancata nomina non dispiacque affatto.

All’orizzonte, infatti, si era intanto profilata Milano. Dopo due episcopati eccentrici come quelli di Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi, Benedetto XVI s’era convinto che era giunta l’ora di insediare lì finalmente un vescovo più consono alla propria visione. Nella mente di papa Ratzinger la candidatura di Scola non aveva alternative, certamente non quelle che il segretario di stato Bertone, anche questa volta indaffaratissimo a sbarrargli la strada, ha escogitato fino all’ultimo. La convinzione di Ratzinger è la stessa di un altro anziano cardinale milanese, Giacomo Biffi, secondo il quale per riportare l’arcidiocesi di Milano sulla retta via occorre riprendere la tradizione dei grandi vescovi “ambrosiani”, di forte tempra e di orientamento sicuro.

L’ultimo dei quali era stato Giovanni Colombo. Cioè, per ironia della sorte, proprio colui che non voleva ordinar prete quell’Angelo Scola che ora, dal cielo, vede arrivare come suo successore.