Il mio Afghanistan

Emanuele Toppi
Comuità cristiana di base S. Paolo – Roma

Il mio è un Afghanistan fatto di odori.

L’odore del tè, delle cipolle e delle spezie. L’odore del riso e del pollo che Ishaq cucina ogni domenica.
Quell’odore che il lunedì, al risveglio, ti senti ancora addosso, ti riempie le narici. Ti accoglie, come a dirti “Buongiorno!”
Posso sentirlo anche adesso che scrivo. Non mi ha ancora lasciato. È qui accanto a me ogni giorno, e mi accompagna di domenica in domenica.


Il mio è un Afghanistan fatto di mani.

Mani che affondano nel riso, che sparecchiano rapide, che sbattono i tavoli, che raschiano le pentole.
Mani che stringono altre mani, mani che abbracciano, che battono, che danzano nell’aria.


Il mio è un Afghanistan fatto di suoni.

Olio che frigge, acqua che scorre, coltelli che tagliano, musica che risuona; bocche che ridono, bocche che masticano, bocche che parlano. Ancora tavoli che sbattono e mani che battono.
Il suono della voce di Mussafar che mi racconta delle sue montagne e della preoccupazione di sua madre. Perché Mussafar è malato di cuore, due operazioni. E la mamma è lontana e piange al telefono per quel suo figlio lontano che non può abbracciare.
Ma Mussafar sorride, sorride sempre, di un sorriso buono. E ogni volta che vedi quel sorriso ti chiedi come può la gente avere paura degli afghani perché…lui ti sorride come un bambino..
Il mio Afghanistan è la voce di sayed che racconta della sua famiglia, di Adam che si arrabbia, di Rashid che ti chiede: ”Oggi non ci sono i giochi?”, di Ishaq che domanda al nuovo volontario di turno: “Piaciuto riso?”, di Ichbal che scherza e mi dice “tu come bambino!”, lo dice sempre, e poi ride.
E ancora altre voci e ancora altri suoni: il suono del Pashto che improvvisamente riempie la cucina, e tu sei lì, in silenzio che vorresti chiedere: ”Di cosa parlate?” ma resti zitto, rispettoso…


Il mio è un Afghanistan fatto di parole…

Che ci si scambia lentamente, in un italiano stentato, tornando indietro, ripetendo, ricominciando da capo, rispiegando, provando in inglese, con i gesti, con le mani, con il corpo. Fermandosi ogni tanto per vedere se si è stati capiti e se si ha capito.
Così ogni parola è piena, è vera, è densa, è carica di emozioni, di voglia di farsi capire. Non è mai buttata lì, tanto per dire. È tua, è sua, è loro…è nostra. E non ricordi quando è stata l’ultima volta che hai parlato così, con tanta voglia di capire, di conoscere, di spiegarsi, di ascoltare. E dopo ogni frase un silenzio, gli occhi cercano nell’aria qualcosa da dire, un modo per farsi capire, perché la conversazione continui ancora.
Dio quante parole! Mi sembra di ricordarle tutte…
Le parole scambiate davvero a fatica con Haidid; e ogni volta che ci si capisce è un sorriso, una vittoria…parole sudate.
Le parole di Fahad, che è dovuto scappare dall’Afghanistan prima e poi dal Pakistan, perché suo padre si è rifiutato di appoggiare i talebani: “Mio padre è in Arabia Saudita, i miei tre fratelli maggiori in Germania. Io sono scappato dal Pakistan a ventidue anni, perché loro (i talebani) ti uccidono quando sei grande. A casa con mia madre sono rimasti i miei fratelli uno di tredici e uno diciotto anni, che va tutti i giorni a scuola con la scorta.”
E poi altre parole, confidenze fatte solo a qualche amico e che ora, chissà perché, rivolge a me. Me, ragazzo italiano che conosce da pochi mesi e che vede solo la domenica in mezzo a tanti suoi connazionali.


Il mio Afghanistan è la gioia di Farid nel porre e risolvere indovinelli matematici.

Quella di Ishaq nel mostrarti la macchinetta fotografica che ha appena comprato, ti fa vedere le foto cancellando quelle che hanno fatto gli altri perché non gli piacciono. Le cancella tutte, eppure quelle in cui ci siamo noi, i suoi amici italiani, quelle le lascia.


Il mio è un Afghanistan fatto di sguardi, di musica e di danze, di racconti, di sogni.

È un Afghanistan di volti e di nomi che mi si accalcano nella testa, davanti agli occhi…tanti, che qui non ho nemmeno nominato ma di cui racconta l’inchiostro che impregna la carta.
È un Afghanistan che non conosce la guerra, ma ne sente il peso schiacciante: in ogni ricordo, in ogni parola, in ogni sguardo. Un Afghanistan visto attraverso gli occhi e i racconti degli altri.

È tutto questo il mio Afghanistan…e altro ancora.

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LA SOSTA

La sosta è un momento di pausa, di riposo, è fermarsi un po’ per poi riprendere il cammino. Così abbiamo voluto chiamare l’incontro della domenica pomeriggio tra un gruppo della comunità cristiana di base di S. Paolo e un gruppo di giovani afghani. (…) Nessuno di noi si è messo a tavolino per decidere con quale etnia incontrarsi, più semplicemente abbiamo voluto percorrere le poche centinaia di metri che separano la comunità di S. Paolo dalla “buca” della Stazione Ostiense, dove trovavano rifugio i migranti afghani, per incontrarci, spinti dalla curiosità di conoscerci….         [PER MAGGIORI INFORMAZIONI]