Salviamo la memoria dalla ritualità necrofila

Enzo Mazzi (CdB Isolotto – Firenze)
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Il sessantasettesimo anniversario della Liberazione di Firenze è segnato da polemiche per la decisione del sindaco Matteo Renzi di affidare al cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo emerito di Firenze, l’orazione ufficiale nel Salone dei Cinquecento, con l’esclusione, così sembra, dell’Anpi.

Vorrei evitare di entrare nel merito del problema, che comunque voglio sperare che si risolva con una saggia mediazione. Ritengo invece di assumere la decisione del sindaco, al di là del metodo usato in concreto, come provocazione e stimolo a salvaguardare la memoria spogliandola dalla ritualità necrofila e attualizzandola.

Del resto la stessa Anpi nel documento per la Conferenza Nazionale di Organizzazione del 2009 sostiene la necessità di “aprire una nuova stagione diventando sempre più un punto di riferimento per i democratici di ogni fede e ceto”. C’è bisogno di aria nuova che spazzi via la polvere dalla soffitta muffita della memoria rituale.

La liberazione di Firenze non è solo quell’evento eroico di sessantasette anni fa. E’ un processo storico del vivere sociale che viene da lontano, è in pieno sviluppo nell’oggi, ed è proiettato nel futuro.

Un filo teso lega insieme l’insurrezione liberatrice del ’45 giù giù fino alla lotta attuale che sta incendiando l’Europa e non solo per estendere o almeno salvare dall’aggressione della globalizzazione neo-liberista il livello raggiunto di affermazione dei diritti dei lavoratori, della donna, dei migranti, dei diversi, dei bambini.

E una memoria unitaria tiene insieme la nostra identità sociale. La quale però ha molti e potenti nemici. I quali puntano a disarticolare la memoria che cementa il processo di socialità dal basso in modo da annullare tale identità. L’agguato è dietro ogni angolo. Occorre averne consapevolezza.

La memoria del vivere sociale ha una grande vitalità generativa: produce identità collettiva, tesse la trama del tessuto relazionale della città, crea di continuo comunità solidali e ostacola i germi distruttivi della frantumazione egoistica.

E’ la vitalità propria del seme: può restare a lungo apparentemente inattiva, a causa di contingenze storiche che ne impediscono lo sviluppo o la visibilità, ma è sempre pronta a esplodere in nuove fioriture, e inoltre, come avviene nei pollini, è racchiusa in forme piccole e leggerissime che possono essere trasportate lontano dal vento.

E’ una convinzione che ci deriva dall’esperienza di vita. Non dalle mappe dei navigatori culturali offerte dalla storiografia tutt’ora dominante, le quali sono per lo più devianti perché indirizzano solo sulle autostrade dei grandi eventi, delle individulità emergenti, dei fasti e nefasti del potere, mentre sono cieche sugli intrecci sotterranei dove si muovono le grandi masse dei senza potere.

Non vedono quegli intrecci di relazioni che tessono di continuo la trama sociale del vivere legando fra loro fatti distanti fra loro anche secoli e creando sintonie incredibilmente profonde fra persone, messaggi, esperienze, che magari non si sono mai fisicamente incontrate.

Il vivere sociale nella strada, nella piazza, nel lavoro, nella famiglia, negli stessi luoghi della segregazione, è la mappa che ci consente di vedere la struttura profonda dell’interrelazione che cavalca i secoli e produce e riproduce ininterrottamente valori di comunità aperta oltre i confini, liberata incessantemente dal dominio.

La memoria sociale, però, non è solo questo. E’ anche un luogo di resistenza, anzi il luogo privilegiato della resistenza rispetto ai sistemi di dominio che tendono sempre a frantumare il vivere sociale: divide et impera.

Per questo salvaguardare la memoria della liberazione del ’45 come momento alto del processo storico di liberazione, spogliarla dalla ritualità necrofila, attualizzarla, è uno dei compiti più urgenti di chi vede un futuro per l’umanesimo sociale, per la solidarietà planetaria, per la società dei diritti di tutti/e a partire dai diritti sociali, per l’etica comunitaria aperta oltre i confini.