Concilio tradito. Concilio perduto? di G.Franzoni

di Giovanni Franzoni
Comunità cristiana di base San Paolo – Roma

(Relazione tenuta il 9/11 a Madrid  al  31° congresso teologico “Los Fundamentalismos” della Asociación de Teólogos y Teólogas Juan XXIII)

Carissimi amici, amiche, care e cari compagni di viaggio,

è per me un grande onore, e una grande gioia, essere stato invitato in Spagna per partecipare a questo vostro incontro. Vi ringrazio, ma non solo per questo che, in fondo, è un dettaglio; vi ringrazio soprattutto perché voi, malgrado le difficoltà, e malgrado che i tempi non sembrino propizi, continuate con coraggio e levare alta la fiaccola del Concilio Vaticano II, e con tenacia continuate a ribadire la necessità di una riforma evangelica della Chiesa romana. Che intendo, per “tempo poco propizio”? Intendo un tempo vuoto di eticità, e di fronte al quale spiace vedere le gerarchie ecclesiastiche, proprio in questa città, esaltarsi per la riunione spettacolare della Giornata mondiale della gioventù, mentre intanto hanno ignorato le ponderate critiche del Forum di oltre cento curas di Madrid, che mettevano in evidenza le contraddizioni – rispetto all’Evangelo – di molti aspetti, anche finanziari e pastorali, dell’organizzazione della Giornata stessa.

Fatte queste premesse, vorrei spiegarvi perché io presi parte al Concilio, per entrare poi, direttamente, nel nostro tema.

 1/ Per quale ragione io partecipai al Concilio.

Avete davanti a voi una persona anziana (sono nato nel 1928) che, quando era giovane, ha avuto la ventura di partecipare al Vaticano II. A quell’evento presero parte circa duemilacinquecento padri, ma, a cinquant’anni di distanza, quasi tutti sono morti. Io sono uno dei pochissimi “padri” sopravissuti (insieme, in Italia, al mio amico monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea); quindi, avete davanti a voi un testimone diretto. Sottolineo questo aspetto perché frequenti sono stati, in questi ultimi anni, i convegni dedicati al Concilio: teologi e storici, che magari negli anni Sessanta del secolo scorso erano dei ragazzini, o non erano ancor nati, hanno riflettuto su quell’evento, dicendo anche cose profonde e importanti; e, tuttavia, di norma, senza sentire il bisogno di ascoltare qualcuno dei padri conciliari ancora viventi. Non che noi, vecchi e spesso malati, possediamo la verità, o siamo indispensabili: ma, qualcosa di interessante potremmo perché testimoni del contesto (umori, attese, timori, delusioni, indignazioni) nel quale furono discussi e stesi i documenti. Un contesto che nessun verbale o cronaca ufficiale, e tanto meno i documenti stessi possono conservare.

     Nel 1964 io, monaco benedettino, fui eletto abate del monastero benedettino di san Paolo fuori le Mura. Pur non essendo vescovo, come abate di san Paolo – un’abazia nullius – avevo il diritto, sancito dai canoni, di prendere parte al Concilio, insieme agli altri abati nella stessa condizione giuridica. Ero, allora, uno dei più giovani padri conciliari: avevo solo 36 anni! Nell’autunno del 1964 partecipai dunque alla terza sessione del concilio, e l’autunno seguente alla quarta ed ultima.

     Quale “etichetta” affibbiarmi, come padre conciliare? Diciamo così che, su molti dei punti che il Concilio doveva affrontare, ero entrato al Vaticano II come un “moderato”; ma su alcuni altri ero “progressista” e, in questo cammino, fui risvegliato al Concilio dalla presenza e dagli interventi di cardinali come il belga Leo Suenens, arcivescovo di Malines-Bruxelles, o di Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, o di patriarchi come il greco-melkita Maximos IV Saigh. Timido com’ero, in Concilio non presi mai la parola; tuttavia, quando la Conferenzaepiscopale italiana fece una riunione per riflettere sulla collegialità episcopale, trattata dal terzo capitolo della Lumen gentium, presi la parola in assemblea. In quella occasione monsignor Antonio Poma – allora vescovo di Mantova;  nel 1968 sarebbe stato scelto da Paolo VI come arcivescovo di Bologna, al posto del “defenestrato” Lercaro – espresse molti timori sulla collegialità episcopale, sostenendo che essa oscurava il primato del papa. Io allora mi alzai, e, proprio prendendo l’esempio dalla Chiesa cattolica di rito orientale, retta in forma sinodale, affermai che il primato papale non viene diminuito ma, al contrario, rafforzato dalla collegialità episcopale. Ricordo che diversi vescovi vennero a congratularsi con il mio intervento e, di fatto, poi l’episcopato italiano, nel suo insieme, e salvo alcuni vescovi tradizionalisti, non fu più rigidamente contrario alla collegialità.

 2. L’atteggiamento ambivalente di Paolo VI

E, dalla cronaca di quel giorno, cerchiamo ora di rispondere alla domanda che è al cuore della questione che mi avete posto: perché, come mai, a noi appare che il Concilio sia stato, e proprio cominciando dai papi, sempre più disatteso, svuotato e, forse, tradito? Una risposta esaustiva esigerebbe, naturalmente, uno studio esaustivo che qui non possiamo fare. Mi limiterò dunque ad alcuni flash, quasi titoli e sommari di una possibile e desiderabile più ampia trattazione.

      Oggi da più parti, anche nei nostri ambienti, si afferma spesso che furono Giovanni Paolo II e poi il cardinale Joseph Ratzinger, dal 2005 divenuto Benedetto XVI, a dare una sterzata per frenare i fermenti post-conciliari e imporre un’interpretazione minimalista e restrittiva del Vaticano II. Secondo me, invece, fu lo stesso Paolo VI a porre delle premesse perché il Concilio potesse essere, almeno in parte, addomesticato, e il post-Concilio raffreddato.

     Quando – novembre 1964 – il Concilio finalmente si apprestava ad approvare solennemente la costituzione sulla Chiesa, papa Montini obbligò ad allegare al testo  una “Nota esplicativa previa” al terzo capitolo della Lumen gentium, quello appunto che affrontava il tema della collegialità, cioè i rapporti tra primato papale e potere del collegio episcopale. La Nota ribadisce, in modo esasperato, il potere papale, dando di questo una interpretazione che, in prospettiva, svuotava la collegialità episcopale pur affermata dalla Lumen gentium (per essere preciso, ricordo che il testo conciliare non usa mai il sostantivo “collegialità”, ma parla del “collegio dei vescovi”); essa ripete cento volte che tale collegio nulla può “senza il suo capo”, cioè senza il sommo pontefice. Salvo eccezioni,la Curia romana sostenne poi che la “Nota previa” era un atto del Concilio. Ma non è così: essa è un atto papale, di sola responsabilità di Paolo VI. Il Concilio ne ha semplicemente preso atto, ma senza fare suo, formalmente, tale testo.

     Sempre a proposito della Lumen gentium: quando si arrivò a discutere del capitolo ottavo, che parla della Vergine Maria, l’episcopato polacco – guidato dal cardinale Stefan Wyszynski – si batté energicamente perché nel testo la Vergine fosse proclamata “Madre della Chiesa”. Un titolo che la maggioranza dei padri conciliari ritenne teologicamente insostenibile. I polacchi insistettero, gli altri pure. Infine, nel testo finale, il discusso titolo non c’era. Che fece, allora, Paolo VI? Nel discorso del 21 novembre 1964, dopo che quel giorno il Concilio approvò solennemente la costituzione Lumen gentium, egli proclamòla Madonna “madre della Chiesa… e vogliamo che con tale titolo soavissimo d’ora innanzi la vergine venga ancor più onorata e invocata da tutto il popolo cristiano”. E così, in un colpo solo, il pontefice scavalcava il Concilio che, a gran maggioranza, aveva respinto quel titolo, e faceva questo proprio mentre si approvava un testo che affermava la collegialità episcopale. Attenzione, sembrava dire il papa, discutete fin che volete, ma, alla fine, deciderò come pare a me. Di fatto, cioè, mentre con il Concilio egli proclamava la collegialità episcopale, ne dava una interpretazione personale minimizzante e una attuazione monca.

     Altro scenario. Quando, con il decreto Presbyterorum ordinis, nella quarta sessione ci apprestammo a discutere sul ministero e la vita sacerdotale, si dovette affrontare il problema del celibato obbligatorio per i preti della Chiesa latina. Emersero interventi del tutto favorevoli a mantenere la legge in vigore ma, anche, qualche intervento che prospettava l’ipotesi di quelli che, poi, si sarebbero chiamati, in latino, i viri probati, cioè uomini maturi, già inseriti nella vita professionale, e padri di famiglia, da ordinare preti. Questi interventi “progressisti”, per quanto rari, turbarono il papa che, allora, scrisse una lettera al consiglio di presidenza del Concilio, chiedendogli di informare l’assemblea che il pontefice avocava a sé la questione del celibato sacerdotale; dunque, la discussione del Vaticano II in merito veniva troncata. Nel 1967, poi, papa Montini pubblicava l’enciclica Sacerdotalis caelibatus nella quale respingeva ogni ipotesi di cambiamento della legge in vigore. Ma tutti sanno che, da allora, per tutti questi cinquant’anni la questione del celibato ha provocato infiniti dibattiti, molto malessere, molta sofferenza. Se il papa avesse lasciato piena libertà al Concilio, forse si sarebbe aperto il varco per una riforma. Ma il papa decise, e i padri conciliari non ebbero il coraggio di insistere per mantenere la libertà di dibattere quello spinoso tema.

    Anche sulla Gaudium et spes il papa fece un intervento autoritativo che provocò gravi conseguenze. Quando si discusse sui metodi moralmente legittimi per regolare le nascite, numerosi padri – Suenens e Maximos IV tra essi – sostennero che ai coniugi andava lasciata libertà di coscienza; tesi contraddetta da padri meno numerosi ma combattivi. Decisi a riaffermare la Casti connubii, l’enciclica con cui nel 1930 Pio XI dichiarava essere colpa grave impedire il normale processo generativo di un singolo atto coniugale, i padri “conservatori” si opposero in ogni modo alle proclamate aperture e innovazioni. I “progressisti” ribadirono che – era stata appena scoperta la “pillola” – non era saggio opporsi alla scienza, ed emettere sentenze in campo così opinabile. Apparve chiaro che la gran maggioranza del Concilio era a favore delle tesi “aperte”. Intervenne allora Paolo VI, ed avocò a sé la determinazione dei mezzi moralmente leciti per regolare le nascite. Il che fece con l’enciclica Humanae vitae di cui parleremo poi.

     Ricorderò, infine, che molti padri, ormai affascinati dal dibattito conciliare, e ogni giorno più consapevoli della posta in gioco, speravano che, dopo la quarta sessione, altre ancora ce ne fossero. Ma, aprendo quella, il segretario del Concilio, monsignor Pericle Felici, dopo aver spiegato ai padri il programma dei lavori,  annunciò che la quarta sessione erit ultima, sarà l’ultima. Così, ovviamente, aveva deciso Paolo VI, che temeva che il protrarsi del Vaticano II avrebbe fatto ombra all’autorità papale.

     Da questi pochi esempi (altri se ne potrebbero addurre) risulta abbastanza evidente che fu Paolo VI a fare delle scelte che amputarono il Concilio delle sue potenzialità, e pose le premesse per una interpretazione riduttiva dei documenti del Vaticano II. Dunque Wojtyla e Ratzinger poterono, poi, riferirsi a lui per portare avanti una attuazione restrittiva e limitativa del Concilio. Ma – e questa è l’altra faccia della medaglia – Montini non fece solo questi interventi. Ne fece altri, e di altro orientamento. Qui ne ricorderò uno che, a me, parve allora, e pare ancor oggi, di grande significato storico, teologico ed ecclesiale.

Un vescovo italiano si levò un giorno a parlare osservando che chi invocava una “Chiesa dei poveri” non diceva nulla di nuovo, in quanto al Chiesa era sempre stata dei poveri. Successivamente prese la parola il patriarca dei melkiti Maximos IV Saigh il quale, in un breve e secco intervento di risposta, disse che era vero che la Chiesa era sempre stata per i poveri, ma li aveva sempre lasciati poveri. Essendovi nel nostro tempo un forte movimento di riscatto delle popolazioni dalla povertà, concluse dicendo che era opportuno che la Chiesa fosse con i poveri.

Ebbene, dopo pochi giorni Maximos celebrò in san Pietro una liturgia in rito bizantino: da un tronetto collocato nella parte opposta del transetto, Paolo VI assisteva alla messa con la tiara in capo.  All’offertorio il papa si tolse la tiara (quella preziosa, regalatagli dai cattolici milanesi quanto nel 1963 era stato eletto papa), si alzò, attraversò tutto il presbiterio e la depose sulle ginocchia del patriarca. Io vidi in questo gesto – e sono sicuro che così lo intendeva anche il pontefice – la scelta di chiudere con l’era del potere temporale dei papi, un potere che era rappresentato da una delle tre corone della tiara (detta anche, per questo, “triregno”).  Non era, cioè, un gesto tanto per fare, ma una scelta strategica meditata. Bisogna notare infatti che, nessun papa dopo di lui è mai apparso con la tiara sul capo. Si può supporre che Paolo VI abbia detto qualcosa sulla definitiva eliminazione di questo arrogante simbolo dl potere, anche politico, del papato. Lasciamo da parte il fatto che la tiara fu poi portata in giro negli Stati Uniti per raccogliere soldi; ma, in sé, il gesto del papa era solenne e pregnante. Ma… le escrescenze del potere papale ereditate dalla storia, che sono ben altra cosa dalla sostanza del carisma petrino, non sono state purtroppo abbandonate; e, anzi, Wojtyla e Ratzinger le hanno accresciute.

     Certo, dobbiamo ammetterlo, papa Montini si trovava in una situazione scomoda: doveva cercare di tenere unito il Concilio scosso da opposte tendenze. Da questo punto di vista, si può ben comprendere il suo tentativo di far annacquare i testi conciliari fino al punto di farli accettare dalla minoranza conciliare, attestata su posizioni tenacemente conservatrici. Tuttavia, si deve anche rilevare – mi sembra – che spesso la sua opera di mediazione finì con il limitare, o cancellare, la libertà del Concilio; e, soprattutto, differì al futuro problemi che, poi, sarebbero scoppiati, provocando disastrose conseguenze. Montini era ossessionato dalla ricerca di una unanimità morale su tutti i testi conciliari: nobile proposito che, però, avrebbe  solo sopito, ma non cancellato tensioni laceranti.

 3. Le contraddizioni dei testi conciliari.

Nei testi conciliari – in particolare nella Lumen gentium – si sovrappongono due visioni ecclesiologiche: l’una, legata al Concilio di Trento e al Vaticano I, che vedevala Chiesa come “società perfetta”, quasi una piramide con al vertice il romano pontefice. Diciamo, una visione giuridica della Chiesa. L’altra visione, invece, vedevala Chiesa come “comunione”, come popolo in cammino nella storia per annunciare l’evangelo e, stringendo le mani con tutte le persone di buona volontà, deciso a fare la sua parte, senza pretese di primogenitura, per favorire la pace e la giustizia nel mondo.

     Più che scegliere tra queste due visioni, il Concilio le sovrappone, le mescola. Facciamo un esempio. Nel primo schema sulla Chiesa preparato in sostanza dalla Curia romana, il secondo capitolo era dedicato alla gerarchia, il terzo al popolo di Dio. Ma, infine, la Lumen gentium ha rovesciato l’ordine: il popolo di Dio al secondo capitolo, la gerarchia al terzo. Tuttavia, mentre il secondo capitolo apre ampi orizzonti, e sembra ricalcato sulla ecclesiologia della comunione, il terzo ha un altro sapore, un’altra angolazione, e gravato da una visione giuridica. Per cui, pur affermando la collegialità episcopale, la limita da ogni parte.

    A parte questo, i documenti conciliari sono disseminati di limitazioni: i vescovi potranno fare, se il papa consentirà… I laici potranno fare, se il vescovo permetterà… Questo e quello si potrà fare, ma solo se i tempi lo consentono…

    Fatte queste premesse, che accadde, quando i padri, terminato il Concilio, tornarono a casa? Alcuni ritenevano che, quanto affermato dal Vaticano II, fosse il massimo che si potesse concedere; e dunque si adoperarono per smorzare ogni prospettiva innovativa; altri, al contrario, erano del parere che il Concilio avesse detto il minimo che si potesse dire perché tutti lo accettassero, lasciando poi alle chiese locali, di fare altri, ulteriori passi in avanti. Gli uni e gli altri potevano trovare nei testi conciliari le frasi che sostenevano le loro tesi.

 4. Il post-Concilio, delusioni, contraddizioni, speranze.

Fare la storia del post-Concilio significherebbe di fatto fare la storia della Chiesa cattolica romana degli ultimi cinquant’anni: impresa ovviamente impossibile in questo mio breve intervento. Mi limiterò, dunque, a indicare, i punti che secondo me sono più interessanti, per capire che cosa è accaduto, e per dare a noi qualche indicazione per il nostro cammino futuro.

    Nell’insieme, la Curiaromana, sotto Paolo VI, ha fatto di tutto per normalizzare la situazione, e depotenziare il Concilio. In particolare, fu depotenziata l’attuazione della collegialità episcopale: infatti, il Sinodo dei vescovi, istituito dal papa mentre iniziava la quarta sessione, e dunque sottraendo al Vaticano secondo un dibattito su tale argomento capitale, non è una vera attuazione della collegialità episcopale (pensate che il motu proprio Apostolica sollicitudo con cui papa Montini istituisce il Sinodo non cita mai la Lumen gentium!): Paolo VI concepisce il Sinodo come un organismo per “consigliare” il papa, che rimane libero di accogliere o respingere le proposte dell’Assemblea. E, nella attuazione pratica, le Assemblee sinodali sono state articolate in modo da attenuare la libertà dei vescovi, anche se, talora, come nel Sinodo del 1971 che affrontava il tema del sacerdozio ministeriale, alcuni padri ebbero il coraggio di parlare di argomenti-tabù – come i viri probati e, addirittura, i ministeri femminili.

     Ancor più: nulla è stato fatto per concretizzare l’affermazione conciliare della Chiesa come “popolo di Dio”. Sarebbe del tutto logico che, posta questa premessa, fosse istituito una specie di Senato della Chiesa cattolica, ove fossero rappresentanti vescovi, preti, monaci, monache, religiosi, religiose, laici, uomini e donne, per dibattere insieme i problemi maggiori. O, meglio, accanto ad ogni Conferenza episcopale (che riunisce le Chiese locali di una data nazione o di un dato territorio), dovrebbe esserci questo Senato, che invierebbe un suo rappresentante nel Senato della Chiesa cattolica.

      In mancanza di tale organismo rappresentativo a livello universale, alcune Conferenze episcopali hanno scelto delle strade per attuare in modo serio il Vaticano II. La Chiesaolandese ardì addirittura convocare un Concilio pastorale, che osò affrontare anche temi tabù, come il celibato opzionale dei preti, per questo costretta da Roma a fare marcia indietro. In Germania i vescovi vollero un Sinodo che di fatto contestò l’enciclica Humanae vitae. Negli Stati Uniti d’America i vescovi scrissero una lettera sulle donne che, infine, dovettero amputare nei passaggi che, secondola Curia romana, potevano lasciare aperto un varco verso i ministeri femminili. In altri paesi vi furono iniziative analoghe. Insomma, da più parti si cercò di trarre le conseguenze dai principi generali, ma astratti, lanciati dal Concilio. Ma, proprio per la giustapposizione di due ecclesiologie che percorre i testi del Vaticano II, mentre alcuni si fecero forti di talune affermazioni, altri, e cioè la curia romana e i vescovi conservatori, si fecero forti di altre, e dunque si innescò quella tensione, che dura fino ad oggi, tra gli uni e gli altri, ambedue che appoggiano le loro scelte su parole del Concilio.

Non coglierebbero totalmente nel segno coloro che ritenessero sufficienti le categorie dei “progressisti” e dei “conservatori” per identificare le divisioni manifestatesi nel Concilio. Non si trattò sempre di blocchi contrapposti  in base al modo di vedere, in generale  più aperto o più tradizionale. In alcuni casi si è trattato invece di divisioni trasversali, derivanti dal contesto in cui si trovava ad operare ogni singolo episcopato. Poteva così verificarsi che alcuni padri, “progressisti” su determinati argomenti, si rivelassero “conservatori” su altri. L’esempio più evidente fu quello dell’episcopato statunitense, chiuso su temi come la pena di morte o l’armamento atomico e tutto sommato ben fermo sull’autorità monarchica del Papa, ma che si rivelò poi decisamente innovativo sul tema della libertà religiosa (oggetto della “Dichiarazione conciliare” Dignitatis humanae) perché erano nati e cresciuti in un paese dove agli immigrati irlandesi, italiani, latinos, pur essendo disprezzati, venne sempre riconosciuta la libertà religiosa. E così fecero, di quella cattolica, una Chiesa fiorente a tal punto che fu in grado di esprimere un Presidente degli Stati Uniti.

     Il paradigma di tutte queste contraddizioni è stata, secondo me, la vicenda dell’Humanae vitae. Proprio il metodo scelto da Paolo VI (impedire al Concilio un libero dibattito sulla regolazione delle nascite, istituire una commissione di studio per farsi aiutare, smentire le conclusioni di tale organismo perché demolivano le tesi care alla Curia romana, decidere autoritativamente di imporre sulla coscienza dei coniugi dei pesi che l’Evangelo non impone) è la prova evidente, la prova ecclesiologica, della incapacità di Montini di accogliere il senso del Concilio. In lui – e più ancora, poi, in Giovanni Paolo II e in Benedetto XVI – rimane ferma una idea assolutista e monarchica del papato: una idea che contrasta con la radice del ministero petrino come emerge dal Nuovo Testamento e come, purtroppo con grande timidezza, il Vaticano II aveva cercato di far intuire.

     Per non smentire il magistero papale – un magistero recente, perché risaliva a Pio XI – Paolo VI smentì di fatto il Concilio: a suo parere, infatti, il magistero papale è “più” di un Concilio. Aggiungo però tre osservazioni. Prima osservazione: la Humanae vitae chiede ai confessori di trattare con misericordia i coniugi che non accettassero quell’enciclica, ed esplicitamente afferma di non escluderli dai sacramenti. Il che non era scontato. Infatti, dagli Anni Trenta agli Anni Cinquanta – in Italia, almeno; in Spagna non so – i parroci negavano l’assoluzione agli uomini onanisti. Dunque, sotto questo aspetto Montini fece un passo avanti importante. Seconda osservazione: il papa non definì in modo infallibile le sue tesi, come pure chiedeva una parte della Curia e alcuni gruppi di vescovi conservatori. Terza osservazione: Paolo VI fu talmente turbato dall’ondata di critiche – di teologi, di gruppi vari, perfino di alcune Conferenza episcopali, dall’Olanda all’Indonesia – che nei dieci successivi anni di pontificato non emanò più nessuna enciclica.

     Papa Wojtyla, invece, con il valido aiuto del cardinale Ratzinger, pretese di fatto obbedienza assoluta all’enciclica, “come se” essa fosse un pronunciamento infallibile. E così, per esempio, radiarono dall’insegnamento il teologo statunitense Charles Curran che apertamente contestava quell’enciclica tecnicamente “fallibile”, non essendo dal papa stesso voluta come “infallibile”.

     Un punto su cui, invece, a mio parere, sia Montini che Wojtyla hanno proseguito sulla scia del Concilio è l’impegno per la pace e la giustizia nel mondo. Con l’enciclica Populorum progressio nel 1967 Paolo VI ammise addirittura l’insurrezione armata per rovesciare dittature; e alla prima guerra del Golfo, nel 1991, e alla seconda, Giovanni Paolo II levò alta la voce contro quell’”avventura senza ritorno”.

     Ma quando i teologi della liberazione in America latina tentarono di applicare alla concreta situazione del loro Continente sia la Gaudium et spes che la Populorum progressio, e trassero le conseguenze operative dalle forti affermazioni della Conferenza di Medellín sulle “strutture ingiuste della società” che inevitabilmente generano oppressione e povertà, ecco che Paolo VI in modo incipiente, e Wojtyla e Ratzinger in modo sistematico, troncarono autoritativamente la teologia della liberazione. Leonardo Boff èeIvone Gebara sono stati le vittime più illustri di questa politica vaticana. Inoltre, a partire da Wojtyla,la Curia romana ha attuato una politica sistematica per sostituire i vescovi “progressisti” con vescovi “conservatori” e, soprattutto “anti-liberazionisti”. E Quando Oscar Romero morì martire della giustizia in Salvador, a sostituirlo chiamarono un vescovo dell’Opus Dei!

     Ancor più aspra fu la repressione dei papi post-conciliari contro i teologi che, con le loro tesi ecclesiologiche (ben radicate nelle Scritture, e con agganci anche nel Vaticano II), mettevano in questione le strutture di potere della Chiesa romana. Le vittime maggiori (non uniche!) di tale repressione sistematica attuata dalla Curia romana, già a partire da Paolo VI e ancor più dopo, sono stati il teologo svizzero tedesco Hans Küng, il tedesco Bernard Haring e il teologo cingalese Tissa Balasuriya.

     Infine – sempre procedendo per rapidissimi flash – penso che soprattutto su un punto i papi post-conciliari hanno dimenticato il Concilio, o lo hanno interpretato in modo riduttivo e, infine, deviante: mi riferisco al rapporto tra norme etiche proclamate dal magistero cattolico e leggi dello Stato sui “punti sensibili” (cioè i temi riguardanti la sessualità, la famiglia, il fine-vita). In Italia, come sapete, per il maggio 1974 era in programma un referendum per dire SI’ oppure NO all’abrogazione della legge sul divorzio. Dunque, si trattava di discutere su una legge civile, non su un sacramento. Ma il Vaticano ela Conferenzaepiscopale tentarono di imporre, moralmente, e non solo ai cattolici, ma a tutti i cittadini, di votare SI’ all’abrogazione. Io – permettetemi un riferimento personale – mi opposi pubblicamente a questa pretesa e, in un piccolo libro, sostenni la libertà di voto, di coscienza, dei cattolici. E così fui sospeso a divinis!

     Infine, il 12 e 13 maggio ’74 si votò: e l’Italia – che secondo le statistiche vaticane era cattolica al 98% – al 60% votò NO alla cancellazione della legge sul divorzio. Papa e vescovi rimasero tramortiti, ma non si arresero né allora né poi: e, infatti, in un referendum del giugno 2005 sulla procreazione assistita, essi fecero pubblicamente campagna per invitare tutti a non andare a votare e così, non avendo raggiunto il quorum del 50%+1 dei votanti, il referendum fu invalido. Le gerarchie ecclesiastiche  sono convinte che solo il magistero cattolico possa dire parole di verità sulla “legge naturale” e sui “temi sensibili”; e dunque impegnano i cattolici a far sì che le leggi civili ricalchino il punto di vista della dottrina cattolica ufficiale sui singoli temi. Il concetto di laicità è totalmente estraneo alle gerarchie: o, meglio, esse lo invocano, ma precisando che la laicità deve essere “sana”, cioè accogliente le tesi vaticane.

    Ultimo flash: in questi cinquant’anni, con un crescendo continuo, anche nella Chiesa romana sempre più si è imposto il problema donna: quale il loro ruolo? E’ pensabile un ministero femminile? Paolo VI prima, Giovanni Paolo II poi hanno troncato ogni possibile dibattito sulla donna-sacerdote. Ma anche le donne non vogliono diventare sacerdote, perché non vogliono nemmeno uomini-sacerdoti. Il sacerdozio, infatti, non esiste nel pensiero di Gesù: egli parla di altro, parla di una comunità di fratelli e sorelle, parla di “servizio reciproco”; il Nuovo Testamento parla di “sorveglianti” (vescovi), “presbiteri” (anziani), “diaconi” (servitori). Ecco, a questa Chiesa si oppongono, oggi, le gerarchie, decise a mantenere una struttura maschilista e patriarcale per salvaguardare il loro potere sacro. Perciò, pur volendo i preti, dicono no alla donna-prete. Noi, invece, sogniamo questa Chiesa senza preti e pretesse, ma dove donne e uomini, celibi o sposati, esercitano dei “ministeri” a servizio della comunità ecclesiale. Utopia? Eresia?

 5. Alzate lo sguardo, già la messe biondeggia

Ovviamente – l’ho già detto, ma mi piace ripeterlo – ci vorrebbero volumi e volumi per affrontare in modo adeguato il nostro tema. Volendo ora sintetizzare, descriverei così il nodo del contrasto che grava sulla Chiesa cattolica da decenni: per Wojtyla e Ratzinger il Vaticano II va visto alla luce del Concilio di Trento e del Vaticano I; per noi, invece, quei due Concili vanno letti, e relativizzati, alla luce del Vaticano II. Dunque, data questa divergente angolazione, i contrasti sono ineliminabili, ed a cascata, ogni giorno, noi vediamo giungere dalla cattedra romana norme, decisioni, interpretazioni che, secondo noi, confliggono radicalmente con il Vaticano II.

    Che fare, allora? Penso che, senza presumere di avere in tasca tutte le soluzioni buone, noi dobbiamo assumerci la responsabilità di vivere, in modo comunitario, la risposta all’Evangelo, e poi, sedendoci alla tavola con tutti gli uomini e con tutte le donne di buona volontà, cercare insieme di capire che cosa possiamo fare per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato – il programma del “processo conciliare” lanciato nel 1984 dalla sesta Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese svoltasi a Vancouver, in Canada. Io ritengo che ogni volta che noi cristiani e cristiane celebriamo l’Eucaristia, celebriamo quasi una ordalia: e, cioè, in quel momento, in quella mensa con Gesù, noi siamo giudicati se stiamo compiendo un rito falso e consolante, o un impegno reale e coerente. Se, come Gesù, malgrado i nostri limiti e le nostre contraddizioni (lasciatemelo dire: siamo pieni di contraddizioni anche noi: siamo imperfetti e peccatori, come lo èla Chiesastorica alla quale apparteniamo), ci impegniamo ad essere una Chiesa-per-gli-altri, come ci ha insegnato Dietrich Bonhoeffer, allora l’Eucaristia che celebriamo sarà per noi di benedizione e di salvezza, un vero viatico nel nostro cammino verso il Regno; se invece dietro al rito non vi è nulla, e lavoriamo per una Chiesa-per-noi, la nostra Eucaristia sarà la nostra morte e la nostra maledizione (I Cor 11,28). Ma, come benissimo dicono i rabbini commentando i primi due capitoli del Genesi, quando il Signore maledice il serpente che ha tentato Eva, ancora benedice: e, infatti – essi argutamente notano – obbligando il serpente a strisciare in realtà il Signore gli permette di fuggire dai pericoli e di nascondersi nei buchi della terra. Ecco allora che se la nostra Eucaristia non è sincera, il Signore ci invita al ravvedimento, alla conversione, a riprendere con umiltà e coraggio il cammino.

     Mi chiederete: hai fiducia nel futuro della Chiesa? Che rispondervi? Se il mondo è messo così male, potrebbe maila Chiesaessere messa bene? Non pensiamo, dunque, al futuro, pensiamo all’oggi. In questo oggi così tragico e tormentato, così sconvolto da mali spaventosi e coperto dalle tenebre, ecco che veniamo a sapere, tanto per fare un esempio, che nella centrale nucleare giapponese di Fukushima dei tecnici, sapendo di andare alla morte, si sono calati nella centrale per cercare di raffreddarla. Quelle persone non erano cristiane, forse nulla sapevano di Gesù. Eppure hanno accettato la morte semplicemente per salvare altre vite. E, vedendo questo, mi commuovo, e dico che si può ancora sperare nell’uomo. E mi vengono in mente la parole di Gesù: “Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura” (Giovanni, 4, 35). Sì, in un mondo dove straripano il loglio e la zizzania, qua e là, grazie a Dio, matura il grano dorato, là dove donne e uomini si impegnano per pace-giustizia-salvaguardia del creato, là dove si fanno Samaritani per aiutare quel fratello sconosciuto che cade vittima dei briganti.