Le polemiche estive su Ici, beni della Chiesa e dintorni . Tre punti fermi di “Noi Siamo Chiesa”

Vittorio Bellavite, coordinatore di “Noi Siamo Chiesa”
Roma,  27 settembre 2011

Ci sono  da subito possibilità di una gestione diversa dei beni e delle  risorse. Ma per i vescovi tutto è a posto, nessun passo indietro è necessario. Essi non pensano minimamente di partecipare ai sacrifici richiesti da  questa crisi

Il discorso di Mons. Bagnasco del 19 agosto sulla necessità di contrastare l’evasione fiscale, che di per sé è stato di buon senso, ha scatenato reazioni vivaci, sicuramente impreviste in ambito ecclesiale. Ciò è successo perché manca da sempre nella Chiesa italiana una vera riflessione sul complesso dei problemi che riguardano le risorse materiali di cui essa dispone. Ventisette anni fa il Concordato Craxi-Casaroli e le leggi successive hanno garantito alla Chiesa nel nostro paese una comoda condizione che facilita il silenzio su queste questioni. E’ soprattutto dall’esterno che talvolta arrivano obiezioni. Quest’anno sono state particolarmente vivaci e diffuse dopo l’intervento di Bagnasco anche a causa della pesantezza della crisi e della “manovra” conseguente. Ci si è chiesti perché anche la Chiesa non dovesse partecipare ai sacrifici. Ma la ben scarsa consapevolezza del problema e la mancanza di dibattito hanno fatto scattare  nelle strutture ufficiali della Chiesa una immediata difesa d’ufficio della situazione, senza alcun riferimento a valori di fondo (Vangelo, povertà e sobrietà nella Chiesa ecc…).

La situazione dei conti della Chiesa

Ma intanto la pentola pesante dei beni e dei conti ecclesiastici  è stata, per quanto possibile, scoperchiata e, all’opinione pubblica attenta a queste questioni, è apparsa una condizione di favore che è stata descritta con precisione (vedi, per esempio, “Adista” n. 62 del 10 settembre,  l’Espresso del primo settembre). Il sistema dell’ottopermille  (che dal ’90 ha moltiplicato per cinque le risorse che vengono a questo titolo versate dallo Stato alla Conferenza Episcopale), l’esenzione dall’ICI (circa 400 milioni all’anno, secondo i comuni italiani) per “attività commerciali di confine” grazie a una legislazione ambigua e bipartisan (l’Espresso del 15 settembre documenta con cifre e situazioni concrete uno spaccato del contenzioso della Chiesa con il fisco su questo problema), gli stipendi agli insegnanti di religione, ai cappellani delle forze armate, degli ospedali e delle carceri e sussidi di ogni tipo alle scuole (quelle paritarie e quelle finanziate dagli enti locali), gli sconti sull’IRES, la condizione particolare dello Stato della Città del Vaticano ecc…costituiscono un lungo elenco.

Un complotto radicalmassonico?

Questa fotografia della realtà si è allargata alla situazione degli immobili di proprietà ecclesiastica (diocesi, ordini religiosi…) e a tutte le strutture e i fondi del Vaticano (Governatorato, IOR, APSA, Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, Obolo di S.Pietro…). Una situazione, probabilmente unica in Europa e nel mondo, per dimensioni e presenza diffusa sul territorio. La vivace campagna contro questa condizione di privilegio della Chiesa ha proposto un ridimensionamento  di quanto essa riceve (più di140mila sono state le firme raccolte su Facebook). C’è stata subito una reazione nevrotica dei vertici ecclesiastici, che mediante l’Avvenire, che è il loro megafono, hanno sostenuto che si voleva “tassare la solidarietà” (con riferimento alle attività sociali della Chiesa) e che ci si trovava di fronte a un complotto radicalmassonico (editoriale del direttore Marco Tarquinio  del 27 agosto). Una tale reazione è stata supportata con molta enfasi da Angelino Alfano per il  PDL mentre Bersani ha dovuto riconoscere che la legge da lui promossa nel 2005 aveva lasciato aperta la possibilità di evasioni dall’ICI da mettere in discussione. Anche alla Camera è passato un ordine del giorno il 14 settembre per ridiscutere queste esenzioni.

La posizione della Chiesa è stata successivamente ribadita senza alcun tentennamento nella prolusione del Card. Bagnasco il 26 settembre al Consiglio permanente della CEI.  Egli ha detto :”Quanto alla discussione, non sempre garbata e informata, che c’è stata negli ultimi tempi circa le risorse della Chiesa, facciamo solo notare che per noi, sacerdoti e Vescovi, e per la nostra sussistenza, basta in realtà poco. Così come per la gestione degli enti dipendenti dalle diocesi: essa si ispira ai criteri della trasparenza, senza i quali non potrebbe sussistere l’estimazione da parte di molti. Se abusi si dovessero accertare, siano perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti. Per il resto, ci affidiamo all’intelligenza e all’onestà degli uomini, segnalando che risposte a nostro avviso esaurienti, seppur non troppo considerate, sono già state offerte all’opinione pubblica: segnalo per tutte la pagina a firma di Patrizia Clementi, pubblicata su Avvenire lo scorso 21 agosto”.

Due novità

Nel corso di questa nuova attenzione a una questione antica,  ci sono state due novità da parte di due osservatori di particolare autorevolezza che hanno iniziato a rompere il muro dell’arroccamento ecclesiastico contro cui si sono scontrate da tanti anni le posizioni critiche e anticoncordatarie di “Noi Siamo Chiesa”, delle Comunità di base e di altri cattolici di ispirazione “conciliare”. Gennaro Acquaviva, uno dei protagonisti delle trattative che portarono al nuovo Concordato del 1984, ha riconosciuto (su “Il Corriere della sera” del 30 agosto) che la percentuale dell’ottopermille sul gettito IRPEF devoluto alla CEI  ha fornito un gettito eccessivo e che essa poteva essere ridotta, per esempio, al settepermille (la rimessa in discussione di questa percentuale è prevista dalla stessa legge istitutiva del sistema)

Alberto Melloni  (sul “Corriere della sera” del 28 agosto) ha auspicato un passo indietro unilaterale da parte della Chiesa, mediante qualche atto credibile. Qualcosa quindi potrebbe ragionevolmente cambiare. E’ mai possibile che una così pesante manovra finanziaria, nel contesto di una grave crisi economica, veda  i vescovi essere (o apparire) come una specie di casta, anche se sui generis, che giustifica  una situazione di privilegio con l’esibizione di meritorie  attività sociali che, peraltro, nessuno vuole mettere in discussione, punire o tassare? Una dimostrazione di casta arroccata a difesa della propria “roba” l’abbiamo vissuta dal vivo negli scorsi mesi quando il gruppo di Roma di “Noi Siamo Chiesa” ha cercato di interloquire  con il Vicariato e con i parroci romani in relazione a arroganti intimazione di sfratti fatte da proprietà immobiliari di soggetti ecclesiastici. Abbiamo trovato solo silenzi, furbizie, muri di gomma.

Le tre questioni fondamentali

Per quanto ci riguarda noi riformuliamo il punto di vista generale che da molto tempo, con documenti e libri, abbiamo espresso sulle tutte le questioni di cui si è parlato nell’ultimo mese.

1)      qualsiasi approccio al problema dei beni e delle risorse  deve partire dal fatto che la povertà della Chiesa e nella Chiesa è una condizione fondamentale per un vero annuncio evangelico. La povertà, la sobrietà e la semplicità di vita  come metodo di gestione delle strutture materiali è già ora proposta e praticata in alcune aree  dell’universo cattolico ma molto poco  nei paesi di antica tradizione cristiana. Una pratica diversa da quella che noi conosciamo avviene particolarmente in chi si ispira alla teologia della liberazione ma anche in altre situazioni. Questo approccio ha percorso tutto il Concilio Vaticano II ed ha le radici evangeliche che abbiamo analizzato nel libro “Sulla Chiesa povera” (editrice “La Meridiana”, 2008);

2)      nel nostro paese questa riflessione è intrinsecamente connessa con l’ipotesi della messa in discussione degli attuali rapporti Stato-Chiesa  che trovano nel Concordato e nelle leggi conseguenti il loro fondamento. E’ soprattutto da questo tipo di rapporti (e dalla presenza nel nostro paese di tutte le strutture centrali della Chiesa) che deriva una situazione di privilegio che permette ad ogni osservatore obiettivo di affermare che la Chiesa in Italia è mediamente “ricca” di risorse e di strutture (“troppo” ricca, diciamo noi). Questo punto di vista è sempre stato presente nell’area critica del cattolicesimo italiano che propone meno privilegi per avere più credibilità nella propria missione e più libertà di giudizio, ora e in futuro,  nei confronti dei poteri economici e istituzionali;

3)      corollario di questa convinzione è quello che sia necessario, come inevitabile primo passo, prendere subito le distanze dalle attuali forze di governo. Al di là di qualche  parola di distinguo negli ultimi mesi e di un più deciso intervento di Bagnasco il 26 settembre (come conseguenza dell’insofferenza della base cattolica e di esplicite denunce, da più parti, del silenzio della Chiesa), l’intreccio perverso di simpatie e di interessi tra la segreteria di Stato, i vertici della CEI e il Governo è continuato fino ad ora senza alcuna reale  soluzione di continuità. Ciò ha fatto in modo che sia stata bloccata ogni modifica dello statu-quo, anche per quanto riguarda i privilegi più evidenti. Essi, anzi,  sono progressivamente aumentati negli ultimi dieci anni con norme e benefici di vario tipo, a livello nazionale e locale. Riteniamo che la auspicata presa di distanza da questo tipo di rapporti con le istituzioni debba avvenire anche nei confronti di una possibile nuova situazione politica.  Potrebbe essere l’occasione concreta, quasi inviata dalla Provvidenza, perché la Chiesa faccia un passo indietro, spontaneamente o forzatamente.

Pubblicità, trasparenza, gestione controllata e partecipata

La prospettiva generale, contenuta in queste tre questioni fondamentali, non potrà essere accolta in tempi brevi dalla maggioranza dell’opinione del mondo cattolico. I nostri punti di vista esigono tempi lunghi di conoscenza e riflessione Ma, da subito, ci sono obiettivi concreti e praticabili anche in Italia, come già avviene in tante chiese locali di altri paesi. Ci riferiamo alla necessità che tutti i beni che fanno capo, direttamente o indirettamente, alle strutture ecclesiastiche siano inventariati e conosciuti da tutti, da quelli usati per  attività sociali  a quelli delle parrocchie, delle diocesi, degli Istituti per il sostentamento del clero, degli ordini religiosi, a quelli relativi a altre iniziative tipo scuole, case editrici ecc…Questi beni devono essere considerati, in un certo senso,  di “proprietà” di tutti i membri della Chiesa, accumulatisi nel tempo con il contributo, grande o piccolo, di moltissimi di essi. Attualmente solo la gestione di alcune parrocchie è conoscibile, tutto il resto è segreto o conosciuto solo per grandi cifre (ciò avviene, per esempio, per la ripartizione del miliardo annuo di gettito dell’ottopermille, di cui non si hanno dati realmente disaggregati e, quindi, concretamente valutabili).

L’ipotizzata conoscenza dei tanti attuali segreti di curia sulle dimensioni e le caratteristiche  dei beni (che devono essere specificatamente individuati) esige necessariamente la trasparenza nella loro gestione. Essa non esiste, contrariamente a quanto sostiene Bagnasco (vedi sopra  la citazione del suo intervento del 26 settembre) e questa sua affermazione è stupefacente.  Si deve sapere chi gestisce le risorse, secondo quali criteri, quali siano in modo analitico le destinazioni finali delle stesse, né più né meno di quanto prevede la legislazione civile per gestioni simili. Bisogna poi attivare, nei pochi casi dove sono già previste, e  organizzarle dove non ci sono, strutture di controllo e di gestione del beni e delle risorse che coinvolgano il maggior numero possibile delle componenti del popolo di Dio.

Ciò, ovviamente, deve avvenire secondo criteri di molta prudenza, gradualità e competenza che garantiscano non solo la correttezza amministrativa ma soprattutto la destinazione finale, avendo a mente la scelta prioritaria a favore dei bisognosi  e la semplicità e la sobrietà  come criteri da usare per organizzare le strutture della Chiesa che siano indispensabili. Le proprietà della Chiesa erano patrimonium pauperum e dovevano essere gestite prioritariamente a favore dei poveri come prevedeva un’antichissima tradizione ed esplicitamente lo stesso codice di diritto canonico del 1917 (in particolare il canone 1473). Il Concordato Craxi-Casaroli e la legislazione successiva, in modo arbitrario, hanno cambiato la destinazione di questi beni, destinandoli interamente agli Istituti diocesani per il sostentamento del clero. Ora è necessario prendere coscienza degli errori fatti e ripartire da zero per reinventare come gestire beni e risorse.

Pubblicità, trasparenza, gestione controllata e partecipata sono la conseguenza diretta di chi propone una Chiesa più povera in coerenza con l’Evangelo. Non si tratta di questioni teologiche, sono obiettivi praticabili dal grande corpo della nostra Chiesa, anche dalla parte più tradizionalista e “moderata”, da subito e senza mettere in discussione il Concordato e l’ottopermille. Bisogna evitare che il diffuso rifiuto della casta politica si estenda alla casta ecclesiastica e renda  più difficile l’annuncio dell’Evangelo.