Dare a Dio quel che è di Cesare? di M.Campli

Mario Campli
Comunità cristiana di base di San Paolo – Roma

Introduzione al convegno “Dare a Dio quel che è di Cesare?” organizzato a Roma il 1° ottobre 2011 da:  Adista, Cdb San Paolo, Cipax, Confronti, Gruppo di controinformazione ecclesiale, Gruppo “La Tenda”, Koinonia, Liberamentenoi, Noi Siamo Chiesa -nodo romano


Oggi, questo convegno  –  con questo titolo “Dare a Dio quel che è di Cesare?” e con il  sottotitolo “Il progetto culturale della CEI nella crisi italiana”  – dovrebbe aiutarci a capire dove è approdata  la chiesa italiana e perché, quando – concluse le elezioni politiche del 1994 –  salutò con entusiasmo (cito testualmente) il  “ giovane ed efficace raggruppamento messo in campo da Berlusconi”; al quale subito, ancor prima di vederlo all’opera, attribuì questo grande merito: “ ha messo in prima linea l’importanza della famiglia e non ha taciuto la tradizione cristiana dell’Italia ”.

Il titolo, da noi scelto,  è – come è  noto –  solo una parte della medaglia; l’altra parte suonerebbe: dare a Cesare quel che è di Dio Siamo, insomma , nel contesto globale  di una  tragica confusione sia sul tipo di tributo, sia sul destinatario di esso.

Nell’aprile 1994, Avvenire, nel supplemento per la diocesi di Roma, di cui era vescovo -vicario  del papa-  Camillo Ruini, presidente della CEI, dava voce ad una precisa scelta di campo, titolando con enfasi: E’ tempo di guardare avanti.

Che anni erano quelli?  Vorrei  soltanto ricordare  un intervento  di Dossetti in occasione dell’ottavo anniversario della morte di Giuseppe Lazzati – perché cade negli stessi giorni dell’entusiasmo di Avvenire e del cardinale Ruini,  maggio 1994- in quella meditazione pubblica, Dossetti   si poneva  la domanda  annunciata da Isaia e su di essa invitava a riflettere: “Sentinella, quanto resta della notte”?…  Dunque: due mondi, due chiese, due Italie.

1994 (ieri) – 2014 (subito domani):  siamo nella dirittura di arrivo di un ventennio tormentato.

 Avvenire non lo farà, e invece dovrebbe  sentire il dovere morale e professionale ad  un nuovo  titolo:  E’ tempo   per tutti di guardare indietro. Prima di arrivare al compimento del ventennio è urgente  che  tutta la Comunità Ecclesiale Italiana, e in Essa il suo episcopato,  si  interroghi – di fronte all’intero paese –   sul  come e sul perché siano state fatte determinate scelte. Si interroghi sulle sue specifiche responsabilità. 

Noi oggi guidati dai nostri relatori, avvieremo il confronto e l’analisi. Su  tre versanti della riflessione: storica, teologica e sociologica; intrecciati insieme.  (Tra parentesi, aggiungo che gli eventi precipitati negli ultimi giorni danno a questa nostra riflessione un contenuto di ulteriore responsabilità). A noi pare, infatti, che sarebbero sbagliati sia atteggiamenti di sufficienza sia analisi affrettate e incomplete.

Non si è trattato di una svista. Questo è  il punto! 

Cancellare l’opzione politica e culturale – da ’94 in poi, con un tratto di penna o con un “bel” discorso  è una pretesa incauta ed impropria, che potrebbe sconfinare  nell’arroganza. No, non  si è trattato, secondo noi, di una svista. Riassumo, ora, soltanto alcune considerazioni che sono state alla base  del nostro impegno per costruire il programma di questa giornata.

Di cosa si è trattato?

1. Nella chiesa che è in Italia,  subito dopo quella prima scelta di campo, molti soggetti,  e spesso all’unisono  pastori e fedeli,  hanno approfondito quel primo abbaglio,  presentando nel 1997  un  progetto culturale orientato in senso cristiano.  Nel documento della CEI del giugno 2001, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia – orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000,  viene precisato che  Tutte le Chiese particolari e ciascuna delle nostre piccole o grandi comunità devono prestare attenzione a questa conversione culturale…”

A quel tempo ci chiedemmo increduli: conversione  culturale?..ma a cosa e verso Chi, i vescovi stanno chiamando la chiesa del Signore!?

La ‘conversione’ alla quale Gesù, nel discorso della montagna, sulle colline della Galilea, chiamò i suoi discepoli  è  una ‘conversione culturale ’?  Può la ecclesia trasformarsi in  ‘progetto culturale’? Cristo Risorto, il kerigma fondamentale dell’evangelo, è un progetto culturale?

Qualche giorno fa, l’attuale presidente della CEI ha usato questa nuova formula: “Sembra stagliarsi all’orizzonte la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione della politica che…sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni”.

Di cosa mai si tratterà? La stessa sostanza vestita di parole nuove?  Oppure: è ‘un punto e a capo’?  Un ‘macchina indietro tutta’?  Come dire: si è trattato di una svista…

Noi non lo crediamo affatto e  il “retto vivere” obbliga tutti – pastori e fedeli – a fare accurati e opportuni rendiconti. Altrimenti il passato non passa.

Ho  letto, in questi giorni, che De Gasperi nel 1946, alla fine di un altro ventennio, ebbe  a dire:  Chi guiderà l’Italia nel prossimo futuro sarà chiamato,  a fare un rendiconto della nazione italiana davanti al mondo, non a esaminare al microscopio delle nostre miserie e ansie,  la situazione presente, bensì il passato e l’avvenire del nostro paese visto al telescopio delle nostre  responsabilità.

Questi anni di progetto culturale orientato in senso cristiano ci consegnano una prassi di degenerazione del messaggio evangelico, nel tentativo erroneo di  incarnarlo in categorie culturali funzionali alla creazione di una identità cristiana chiusa e socialmente escludente (la cosiddetta non negoziabilità di questo e di quello!). E la  tendenziale  mutazione  della buona notizia in una  ideologia a sostegno di un progetto politico, di basso livello, volto a ricercare  spazi e potere agli apparati ecclesiastici e/o alle varie dottrine ( anche con finanziamenti pubblici e casi di commistione di interessi persino  tra singoli vescovi  e singoli ministri).

Abbiamo, dunque, urgente  bisogno di guardare ben in faccia la situazione nella sua complessità e nella sua gravità! Cominciando con il fare chiarezza e analizzando contesti e scelte fatte , anche per reagire subito (con fermezza, senza presunzione, con assoluta e non delegabile responsabilità) al tentativo, che è sotto i nostri occhi,  di chi  – dopo aver concepito, erroneamente,  la pretesa di farsi e offrirsi come progetto culturale –   ora ritiene  di non essere in nessun modo corresponsabile della deriva del sentimento pubblico e della vasta deprivazione delle coscienze: una cultura del nulla, è stato detto, ma sorvolando sulla circostanza che essa si prodotta negli stessi anni di vigenza del cosiddetto progetto culturale, dispiegatosi  con dovizia di risorse, di convegni ecclesiali e di ricca editoria; e mentre il laicato cattolico organizzato ha largamente taciuto, consenziente o meno, dismettendo le responsabilità proprie che il Concilio gli aveva pure affidato.

Lo stesso “soggetto” che si appresterebbe per il futuro a fare , nuovamente o in altre forme, quanto il titolo di questa giornata pone come interrogativo di fondo, cioè: Dare a Dio quel che di Cesare?

Noi sappiamo che un lavoro enorme attende uomini e donne della  comunità ecclesiale italiana teso alla  riassunzione della responsabilità piena e diretta dell’annuncio del vangelo  in questa  società secolarizzata e all’impegno  per la completa democratizzazione di questa specifica società contemporanea;  non certamente per la sua cristianizzazione.

Riavviando il processo conciliare, a suo tempo incapsulato, poi archiviato, poi tradito.

2. E abbiamo – tutto il paese ha –  urgente necessità di richiamare la politica dall’esilio, nella sua dignità  e con la sua autonomia: dando amore e fiducia a questa nostra Italia dispersa e attonita.

In questi anni, seppure senza una strategia d’insieme, abbiamo anche assistito – e vi abbiamo pure contribuito – a  molte pratiche di resistenza culturale e politica. E spesso al di fuori del perimetro del cattolicesimo ufficiale.

Nello stesso tempo, abbiamo constatato  una certa difficoltà a scandagliare le diverse forme della  crisi italiana, a considerarci parte di esse e a indagarle con questo specifico approccio. Per uscirne ovviamente, insieme ad altri e altre. Abbiamo anche visto forme di fuga  o di un mettersi da parte, a volte con sdegno a volte  con scoramento: le guardiamo, sia chiaro, con rispetto, essendone, peraltro, in qualche modo anche  parte. Questa condivisone,  non ci impedisce di valutare  tutta intera la problematicità dell’insieme e la debolezza delle singole opzioni, individuali o di gruppo, anche quando sono di alto livello morale.

Ecco perché abbiamo voluto collocare il cosiddetto progetto culturale  dell’episcopato  dentro la crisi italiana, della quale  esso è stata componente e concausa.

Le analisi post-elezioni (referendarie e amministrative) sono apparse  indulgere in  una visione liberatoria,  quasi  ad affermare speranze di svolta e di cambiamento già realizzate. Mentre, al contrario,  il cammino si presenta lungo, incerto  e faticoso.

E allora, eccoci oggi,  a riflettere e ad approfondire, per agire:

  • nella vita comunitaria dei credenti, contrastando il ripetersi di una antica forma di idolatria, quella di stampare l’immagine di Dio sulle forme o sui metodi di scambio e negoziato tra gli uomini;
  • nella società, tornando a dare  all’impegno politico – liberato e recuperato – la sua specifica ed autonoma possibilità.

Sul  mare di Galilea, agli emissari del potere – nella sua duplice configurazione religiosa e politica-  Egli, accettando la sfida disse: “mostratemi una moneta: di chi è l’immagine”?