L’Iran entra nelle elezioni Usa

Fabrizio Casari
www.altrenotizie.org, 15 Novembre 2011

La campagna elettorale negli Stati Uniti, come tradizione, cerca una nuova guerra con la quale far salire le quotazioni del Presidente in carica. Dopo Irak e Afghanistan, non si è ancora sopita l’eco delle bombe sulla Libia, che già si profila all’orizzonte una nuova guerra per una nuova presidenza. Stavolta l’obiettivo è l’Iran. Su Teheran, peraltro, oltre alle necessità propagandistiche della Casa Bianca, s’inserisce il bisogno di Israele di uscire dall’isolamento internazionale nel quale si trova: un attacco militare contro l’Iran sembra essere il modo migliore per rinsaldare l’unità d’intenti con l’Occidente e, nel contempo, lanciare un’ipoteca violenta e decisiva sul controllo militare del Medio Oriente e del Golfo Persico.

La pubblicazione del rapporto AIEA, infatti, vorrebbe legittimare gli Stati Uniti e Israele a sostenere come il tema della neutralizzazione degli impianti iraniani non sia solo questione suggerita dalle rispettive intelligence, ma abbia motivi oggettivi di riscontro nell’Ente internazionale deputato, cioè la stessa AIEA. Dunque le diplomazie internazionali (questa la convinzione israelo-americana) dovrebbero superare la precedente lettura diffidente nei confronti dei report della Cia e del Mossad proprio a partire dalla pubblicazione delle stesse informazioni rese però da una fonte “neutra” quanto deputata al controllo internazionale degli impianti.

Ora, sebbene da parte di numerosi esponenti della comunità scientifica vengano evidenziate alcune incongruenze presenti nel rapporto AIEA, e si consolidino ulteriormente i dubbi circa la correttezza e neutralità del suo Direttore Generale, il giapponese Amano, non c’è dubbio però che la sua pubblicazione è servita a chiamare alle armi la diplomazia internazionale.

La giostra è così partita: Obama ha annunciato che nelle prossime settimane si consulterà con Pechino e Mosca circa il da farsi. L’intenzione del Presidente Usa sarebbe quella d’inasprire ulteriormente le sanzioni contro Ahmadinejiad senza tuttavia escludere anche l’opzione militare. Ma da Mosca e Pechino non arrivano disponibilità in questo senso. Mosca, in particolare, crede che vi sia “una campagna orchestrata” contro il programma nucleare iraniano per “alimentare le tensioni e imporre nuove sanzioni”: la via però, a giudizio del Ministro degli Esteri, Lavrov, “è esaurita” e sarebbe invece giusto continuare e percorrere quella delle pressioni diplomatiche.

Quanto agli alleati europei degli Usa, se da Londra arriva la scontata adesione all’ipotesi dell’attacco, a Parigi e a Berlino l’accoglienza ai piani di guerra sembra piuttosto tiepida, per non dire nettamente contraria. Il Ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, ha respinto ogni discussione su possibili raid militari contro l’Iran: “Sanzioni più rigorose saranno inevitabili se Teheran rifiuterà di collaborare con l’AIEA, ma non partecipiamo alla discussione su un intervento militare che respingiamo in quanto controproducenti”. In sintonia con il collega tedesco c’é Alain Juppè, Ministro degli Esteri francese, che definisce anche solo l’ipotesi di un’azione militare “un rimedio peggiore del male”.

Il Consiglio affari esteri dell’Ue, condanna “la continua espansione del programma di arricchimento” dell’uranio ed esprime “particolare preoccupazione” per i contenuti del rapporto dell’Aiea, che confermano la natura militare del suo programma nucleare. Esprime le sue “crescenti preoccupazioni per il programma nucleare iraniano e per la mancanza di progressi negli sforzi diplomatici” e conferma di essere pronta a nuove sanzioni contro Teheran.

Il documento UE, come si vede, accenna solo ad eventuali, ulteriori sanzioni, ma non si pronuncia sull’eventualità di azioni militari, richieste da Londra ma rifiutate da Berlino e Parigi. Contro l’Iran sono già state adottate quattro serie di sanzioni in sede Onu, tutte di natura politica e finanziaria. Margini per ulteriori sanzioni, però, visto il “No” di Russia e Cina, non sembrano esserci. Bruxelles potrebbe quindi decidere di attivare provvedimenti contro le esportazioni di petrolio e contro la Banca Centrale iraniana, ma tali misure avrebbero comunque un effetto diretto sulla già disastrata economia europea.

Ma le pressioni israeliane su Washington sono fortissime. Tel Aviv appare ancora sotto shock a seguito delle rivolte arabe e, nell’incertezza del quadro geopolitico (cui ha contribuito non poco la rottura con la Turchia) tenta la carta del primo colpo per ristabilire distanze e timori contro le organizzazioni islamiche che, dall’Egitto alla Libia (e anche alla Siria) sembrano aver avuto il sopravvento su regimi che, pur nemici storici di Israele (Irak, Libia e Siria) erano comunque gestibili attraverso un assetto sperimentato e internazionalmente garantito.

Oggi, in un quadro complessivo mutato, con la rottura intervenuta nelle relazioni con Ankara e con una crisi di governance regionale evidente, Israele tenta di affondare il colpo contro l’unico nemico nell’area in grado di metterne in discussione il predominio e capace di esercitare una presa importante su tutto l’Islam dallo stretto dei Dardanelli fino a quello di Gibilterra.

Ritiene di doverlo fare e di doverlo fare in fretta, approfittando della congiuntura politica relativa alla campagna elettorale in Usa. I quali Usa, da parte loro, irritati con l’Europa e preoccupati degli sviluppi in Medio Oriente, nonché ansiosi di vedere il petrolio iraniano (dopo quello libico) alla mercè delle monarchie saudite e dei sultanati amici, approfitta della crisi con Teheran per ribadire alla comunità internazionale ed all’elettorato interno l’irrevocabilità dell’alleanza storica con Israele.

Per questo il Premio Nobel per la Pace Shimon Peres e il Premio Nobel per la Pace Barak Obama invocano sanzioni e guerra all’Iran. Proveranno in tutti i modi a mobilitare la comunità internazionale per sferrare un attacco militare che però, è chiaro, serve soprattutto a riparare Obama e Netanyahu dagli scontri politici interni.