Tra logica del pogrom e mito della verginità

Carla Galetto e Beppe Pavan
Comunità cristiana di base di Pinerolo

Così intitolava l’articolo di Michela Murgia pubblicato su La Repubblica del 12 dicembre scorso. Citiamo questo testo perchè siamo molto in sintonia con l’analisi che lei fa e che ora cerchiamo di condividere con voi.

La notizia del presunto stupro di una ragazzina italiana, ad opera di due rom, è stata la scintilla che ha “incendiato” un quartiere di Torino, provocando una violenta spedizione punitiva nei confronti della comunità rom ivi residente.

La notizia grossa è quella del pogrom verso la comunità rom, ennesimo frutto di una cultura dove si cresce imparando a temere il diverso e lo straniero a prescindere dal fatto che sia colpevole di qualcosa. Immagino che si troverà senza difficoltà qualcuno pronto a dire che, se non era vero stavolta, lo sarebbe stato comunque la prossima. Il fatto che questa cultura negli ultimi vent´anni abbia trovato sponda politica e sia riuscita a generare sindaci, assessori, presidenti di provincia e di regione, europarlamentari e persino ministri, ha aiutato molto a farla passare dal bancone del bar al sentire comune. È anche grazie a questo se oggi in Italia c´è chi ha smesso di vergognarsi di essere razzista”: è quanto scrive Michela Murgia; che continua con un secondo elemento a cui è stato dato molto poco rilievo nella cronaca, e cioè:

La notizia che invece appare come secondaria è che una ragazzina di sedici anni ha creduto che fosse meno pericoloso e grave per lei dire che era stata violentata da due “stranieri” piuttosto che ammettere di aver fatto l´amore volontariamente con un ragazzo del posto. Non voglio pensare che una ragazza dica una calunnia simile per gioco. È assai più credibile che lo abbia fatto perché avvertiva che se avesse detto la verità, cioè se avesse dichiarato di aver fatto l´amore perché voleva farlo, sarebbe stata percepita e trattata come “colpevole” di qualcosa e sarebbe andata incontro a qualche tipo di sanzione, sociale o familiare, morale o fisica”.

Ci chiediamo anche noi come sia possibile che nel 2011 ci sia ancora una ragazzina che ha più difficoltà a vivere la propria libertà e la propria sessualità, che non a farsi passare per vittima di uno stupro, ad opera di un colpevole credibile perchè appartenente a una etnia già marginalizzata e tartassata.

Sicuramente a lei non possiamo attribuire la colpa per quello che è successo dopo; sicuramente non poteva immaginare quali conseguenze avrebbero potuto causare le sue parole, facendo emergere la rabbia e il razzismo latenti in molti/e “rispettabili” cittadini/e.

Ma vediamo il legame tra questi due “fatti”, apparentemente indipendenti, nella stessa cultura proprietaria: “mia” figlia – la “nostra” donna. Da una parte genitori che pretendono di controllare e gestire il corpo della figlia, decidendo loro quando e come e con chi potrà vivere il proprio desiderio, la propria sessualità, sottoponendola ad un costante e umiliante rito di controllo medico della fertilità del suo corpo adolescente.

Dall’altra, come spesso succede, la paura e l’odio per chi è “diverso da noi” spinge il branco indigeno a respingere ogni rischio di contaminazione attraverso il corpo delle “nostre donne” e, contemporaneamente, a sfruttare ogni “occasione” per respingere, con la violenza, il fuoco, la strage, i diversi e i mostri lontano dai confini della “nostra proprietà”: la città e i corpi delle donne.

Se ne può uscire, secondo noi, solo con l’assunzione consapevole, da parte delle istituzioni, della scuola, di tutte le agenzie formative, del compito inderogabile della formazione alla cittadinanza conviviale, all’affettività e alla sessualità libera e generosa, non rapinatoria ma relazionale.

Stiamo faticosamente imparando l’alfabeto delle relazioni, ma le istituzioni sono troppo pericolosamente assorbite dalla centralità del denaro e di un’economia fuorviante, che è tutt’altro da quella capacità di stare nelle relazioni intime che il termine suggerisce (oikos-nomos = leggi che regolano la casa). Proprio perché la famiglia, luogo dell’apprendimento primario alle relazioni intime, è la famosa e citatissima “cellula della società”, dalla qualità delle nostre relazioni intime, a partire ciascuno e ciascuna da sé, dipende la qualità della vita relazionale dell’intera società.

E questa è una competenza che si impara, con l’apprendimento consapevole e quotidiano: l’istituzione che non vi si applica è responsabile di “omissione di atti d’ufficio”. A meno di continuare a illuderci che le istituzioni si devono dedicare solo al PIL, al TAV, all’urbanistica e ai lavori pubblici… Se la società umana continua imperterrita su questa strada, la responsabilità è di tutti e tutte, di ciascuno e ciascuna di noi.