Se la denuncia non basta più

«Chiediamo conto alla Chiesa dei suoi beni. La retorica è bandita, la denuncia è insufficiente, e sentirsi alternativi è un lusso che non ci si può più permettere. È con implacabile onestà che Antonietta Potente, religiosa domenicana da quasi vent’anni residente in Bolivia, nel terzo incontro del Cantiere di Pace 2011-2012 promosso il primo dicembre scorso dal Cipax e da altre associazioni su “I beni comuni, via alla pace giusta”, ha analizzato in una prospettiva etica il tema della difficile relazione tra il bene e i beni.

Antonietta Potente
Adista n. 98/2011

(…) Non intendo dare una risposta a grandi questioni a cui, secondo me, è possibile rispondere solo cercando una soluzione tutti insieme. Oggi, cioè, non credo ai messianismi, non credo alle grandi profezie: credo allo sforzo di tutti e di tutte per cominciare a rispondere concretamente alle questioni della nostra vita. Le mie sono, allora, semplicemente inquietudini espresse a voce alta e condivise in questo spazio, che considero uno spazio potenzialmente politico. (…).

Mentre riflettevo su questo tema difficile, inquietante, ma anche molto stimolante, della relazione tra il bene e i beni, mi rendevo conto che esiste il pericolo di cadere nella retorica: essendo la situazione economica, sociale e politica, italiana e mondiale, in uno stato che definirei di ibernazione, cioè di blocco, parlare del bene comune potrebbe finire per suonare retorico. In realtà, dipende da come se ne parla.

È necessario ammettere che, attorno al tema del bene comune, si creano disagi. Infatti la nostra vita, le nostre storie, hanno più del privato che del comune, soprattutto in un momento storico in cui ci sentiamo tutti sfidati dalla questione della sopravvivenza. Non inganniamoci: non è per il fatto che siamo sempre stati sensibili alla pace e alla giustizia che sappiamo che cosa sia il bene comune. Bisogna togliersi la maschera: anche le religioni sono più attaccate al proprio bene che impegnate a mettere in circolazione o a riconoscere il bene come il bene di tutti. Neanche noi facciamo eccezione.

Il mio primo invito è precisamente questo, un invito alla sincerità: non è facile parlare del bene comune, perché in questo contesto storico tutti siamo più preoccupati del bene privato. (…).

Direi che questo momento è caratterizzato da uno stile di vita che chiamerei di sopravvivenza. Mentre prima collegavamo tale questione della sopravvivenza alla realtà geografica del Sud, oggi questa preoccupazione ci tocca tutti, costringendoci a modificare le nostre coordinate politiche, esistenziali, spirituali. Il bene oggi appare sempre più privato e sempre meno comune: individui, associazioni, partiti, chiese, religioni, tutti sembriamo preoccupati per la nostra sopravvivenza, anche quando non lo ammettiamo.

La situazione economica mondiale ha alimentato certamente l’ansia per il proprio bene più che per il bene in generale. C’è chi ha una famiglia a cui provvedere, chi soffre la precarietà, chi è senza lavoro e senza casa. Può succedere allora che, mentre cammini per strada, si avvicini qualcuno per chiederti un aiuto e tu risponda: «Guarda, in questo momento sono anch’io in stato di bisogno». Poi ci ripensi, e cerchi nelle tue tasche, ma il primo istinto è stato quello di dire: «Anch’io ho il tuo stesso problema, magari in un modo diverso, in un altro contesto, ma anch’io ce l’ho».

D’altra parte, io credo che questa situazione sia legata al fatto, che non è certo di oggi, che il bene sia sempre più legato ai beni, alla loro quantità: un eccesso per alcuni, una necessità minima per altri. Gli individui, come pure le culture, si autodefiniscono ormai alla luce dei beni e questi diventano sempre più il centro dell’attenzione, delle discussioni pubbliche, delle preoccupazioni esistenziali. Quanti drammi provoca, in individui come in categorie intere, la mancanza di beni! (…). Quanti dolori psichici, quanti drammi sottili e nascosti, quante frustrazioni, quante perdite di autostima! (…). Il legame tra il bene e i beni è, quindi, qualcosa che ci accompagna sempre, che accompagna gli esseri umani, le categorie sociali, gli uomini, le donne, i bambini, gli anziani. (…).

UNITI DAI BISOGNI

Nelle ultime teorie sullo sviluppo, nelle grandi sintesi sullo sviluppo umano, nelle statistiche che leggiamo tutti gli anni, è molto chiara la consapevolezza che lo sviluppo sia, sì, legato ai beni, ma che questi beni siano in funzione del bene. Sono i bisogni fondamentali quelli che legano gli esseri umani tra di loro e li rendono tutti uguali. Sono i bisogni affettivi, il bisogno di mangiare e di bere, il bisogno di una terra, quelli che uniscono tutti noi.

Noi abbiamo mistificato quest’aspetto. La religione cristiana ha detto che ad unirci è la fratellanza universale che passa attraverso Cristo. Gli scienziati sostengono che a legarci è il fatto che tutti apparteniamo all’unica razza umana. Ma quello che ci lega davvero sono i bisogni. E in questo senso i beni ci richiamano ad una responsabilità grandissima.

Credo che il termine ‘bisogni’ ci aiuti a fare una radiografia della vita e dunque anche di questa difficile relazione tra i beni e il bene. I beni si inseriscono in questo tessuto di bisogni fondamentali: cose utili e cose meno utili, oggetti importanti e meno importanti si inseriscono nei nostri equilibri di pace e di mancanza di pace, di giustizia e di ingiustizia, e anche nei nostri equilibri di fede.

Questi artefatti occupano uno spazio molto grande nella nostra vita, perché oltretutto sono visibili, materiali, non sono nuvole, non sono fatti d’aria; sono le cose che abbiamo fabbricato noi, che abbiamo inventato noi. Questi artefatti si possono o accumulare o eliminare o condividere. Si tratta di tre possibili stili etici: accumulare, eliminare – nella storia abbiamo sempre assistito a tentativi di eliminazione dei beni – e condividere.

Questo per dire che i beni che provocano una riflessione sul bene non sono fantasmi: la loro consistenza è calcolabile e i loro effetti sono valutabili e non si possono nascondere. Nessuno oggi può ingannarsi su tale questione. In questo momento storico i beni ci giudicano e noi dobbiamo essere così umili da non scappare, da lasciarci provocare: i beni occupano un posto così grande da poter cambiare non solo la vita degli esseri umani, ma anche la vita dell’ecosistema.

UN BENE FRAGILE

Credo che l’essere umano abbia bisogno di fermarsi e riconsiderarsi nella sua precarietà. Una chiave di lettura per la nostra storia è proprio quella che ha influenzato in questi ultimi anni anche la fisica e altre discipline scientifiche: la precarietà, la vulnerabilità, l’imprecisione, la fragilità. Tanti o pochi, i beni ci ricordano il nostro limite e, se noi non prendiamo coscienza di questo limite, sarà molto difficile ricostruire una vita insieme. Tale ricostruzione e tale revisione di noi stessi, tale visione del limite, ci potrebbero aiutare a diventare uomini e donne capaci di fare spazio alla vita degli altri.

In questo senso, il limite, la precarietà, la vulnerabilità costituiscono la condizione umana che genera bisogni, soprattutto il bisogno dell’alterità, del confronto, del vivere insieme, del vivere insieme dell’umanità con il cosmo, con la natura, del vivere insieme culture differenti, del vivere insieme prospettive religiose differenti, del vivere insieme sapienze differenti.

In tutta questa trama difficile e complessa, credo sia necessario anche ricucire la vita così frammentata che abbiamo portato avanti soprattutto nell’Occidente cristiano: una vita in cui il privato e il pubblico, anziché vasi comunicanti, sono diventati due spazi separati, da dove si entra e si esce con tranquillità. Ed è qualcosa che dobbiamo re-imparare tutti, almeno all’interno della nostra visione occidentale del mondo e della nostra stessa vita. Da qui la nostra grande schizofrenia: parliamo del bene comune, ma intanto la nostra grande preoccupazione è il bene privato. Dove il privato, il mio bene, significa a volte anche i beni delle persone più care.

Se noi cerchiamo di ricucire l’interiorità con l’esteriorità, il dialogo tra il mio bene e il bene comune, tra la mia vita e la vita in generale in cui entrano gli altri, in cui entrano le vicende mondiali e le questioni pubbliche, ci rendiamo conto che i bisogni che abbiamo non sono così esteriori come si pensava. Mi colpisce il modo in cui abbiamo mistificato tutto ciò: il bisogno di mangiare, di bere, di vestirsi, il bisogno di affetto, di pace, di dialogo, sono stati considerati bisogni materiali, esteriori. Invece, essendo bisogni umani, della nudità più umana, riguardano la nostra interiorità. Il bisogno di mangiare è interiore, è quello che ci lega a tutti gli altri esseri umani, a tutti gli altri esseri viventi. Quindi, occuparsi dei beni non significa semplicemente essere sensibili alla questione sociale, significa essere sensibili a quello che davvero siamo, a quello che davvero ci unisce nella storia.

Se la situazione economica mondiale è quella che è, secondo me è proprio perché abbiamo diviso l’essere umano tra i suoi bisogni materiali e i suoi bisogni esistenziali, tra i beni materiali e il bene. Tutto oggi è rivolto a salvare il denaro, questo maledetto feticcio. Nessuno si preoccupa di salvare le categorie più deboli.

VASI COMUNICANTI

Pensare gli esseri umani in maniera più armonica, senza dividerli tra la materia e lo spirito, sarebbe probabilmente una chiave interessante per rileggere la vita. Ma noi spezzettiamo tutto e di conseguenza soffriamo le nostre gravi crisi esistenziali, economiche e sociali.

Credo che soddisfare questi bisogni – che sono interiori perché sono umani – cambierebbe le cose. E, probabilmente, metterebbe in moto anche una certa creatività. Il problema è che nel mondo sono poche persone a decidere come soddisfare i bisogni. Adesso, per esempio, ci fanno credere che senza l’attuale sistema finanziario mondiale non si possa più vivere: tutti siamo disperati, anche chi ha solo 500 euro in banca.

Allora la questione è come riappropriarci dei nostri veri bisogni, riscattando il dialogo tra i bisogni dell’umanità e quelli dell’ambiente. In certi popoli, in Bolivia e altrove, si è cercato – anche se finora non ci si è riusciti completamente – di rimettere in movimento il dialogo tra l’umanità e l’ecosistema. Non possono più permettere che siano altri a gestire i nostri bisogni elementari. Dovremmo decidere noi cosa mangiare e cosa non mangiare, quale acqua utilizzare e quale non utilizzare. Qui entrerebbero in gioco culture, sapienze, prospettive religiose.

Forse si tratta anche di riclassificare i nostri veri bisogni dando spazio alla parte della vita che soffia dal di dentro, che dà senso a tutte le cose. Non possiamo eliminare i bisogni da questa passione dello spirito che è vivificare la vita, che è dare senso, che è dare affetto e prendersi cura. Abbiamo confinato ogni cosa nel suo posto specifico – la vita affettiva non deve entrare nell’economia, la sensibilità umana non deve entrare nei processi sociali – e così ci siamo tutti frammentati. L’invito invece è quello di ripensarci in questi vasi costantemente comunicanti, in cui possiamo riuscire a riprenderci in mano dal di dentro.

Penso a testi come quello delle beatitudini, che noi abbiamo reso quasi un cantico di compassione per quelli che soffrono disgrazie. Invece questi testi hanno una forza molto grande, esprimendo il riconoscimento di qualcuno che nonostante tutto respira, che nonostante tutto riesce a far valere il suo diritto, che soffre la fame e riesce a dire questa sofferenza, che è perseguitato a causa delle ingiustizie e continua a far circolare la sua voce. Non sono testi di consolazione, ma testi in cui lo Spirito spinge dal di dentro senza mai dimenticare il diritto che abbiamo di mangiare, di bere, di avere una buona salute, di avere una buona vita affettiva, di avere un buon dialogo, di avere la possibilità di pensare… tutti quei diritti che noi abbiamo sistematizzato come diritti umani, e che molte religioni hanno tardato a riconoscere. Anche la religione cristiana, soprattutto noi cattolici. (…).

MA I BENI DELLA CHIESA?

Arrivando a noi, credo che, non potendoci più ingannare su queste cose, la denuncia non sia più sufficiente. (…). Al di là del ragionamento sul bene e sui beni, noi dobbiamo guardare la realtà, la nostra, quella che ci circonda. E oggi, mentre il mondo si agita sotto l’antico spettro di una crisi diventata quasi giornaliera – la cronaca quotidiana di una morte annunciata, quasi una situazione di psicosi comunitaria – noi denunciamo gli sprechi, denunciamo le ingiuste manovre economiche che ci vengono imposte dagli organismi internazionali, ma c’è qualcosa che a mio avviso non facciamo e che invece metterebbe in discussione i nostri impegni, le nostre più profonde appartenenze e anche le nostre più profonde scelte di vita e di fede.

Alcuni cattolici chiedono alla Chiesa, per esempio, di pronunciarsi sulla questione economica internazionale. E in qualche modo la Chiesa ufficiale si pronuncia, con i suoi comunicati neutralissimi che parlano a tutti e a nessuno e in cui ciascuno può dire all’altro: “si parla di te, non di me”. Eppure lo fa con solennità: in conferenza stampa, attraverso l’esperto incaricato dal Vaticano che dice cosa sta succedendo e che offre consigli. Consigli che oltretutto vengono dispensati con arroganza a tutti, credenti, non credenti e credenti di altre fedi. Credo che questo oggi risulti insopportabile. Ormai non li ascoltiamo più. Oppure, secondo la vecchia tradizione degli anni ’60, denunciamo, chiedendo che parlino di più, che si pronuncino su questo e su quest’altro.

In questo momento storico, se noi sappiamo che c’è un’ingiustizia e sappiamo che questa ingiustizia fa parte dello squilibrio totale dell’economia, non basta denunciare. C’è davvero bisogno di parlare seriamente dei beni che le religioni possiedono. I beni della Chiesa cattolica costituiscono una proprietà privata impressionante. E io non so perché a nessuno venga in mente di confrontarsi con questa istituzione per chiederle di uscire allo scoperto.

Mi dicevano che la Chiesa ortodossa in Grecia ha intenzione di tassarsi, riconoscendo di essere in debito con la società. Io mi chiedo come mai nessuno di noi chieda al Vaticano di cominciare a far circolare i suoi beni. In realtà, se non lo facciamo, è anche perché non riusciamo ad entrare in possesso dei dati, e questo è già uno scandalo. Il Vaticano è l’unico Stato al mondo che può permettersi di non denunciare le proprie manovre economiche, tant’è che quando altre entità finanziarie hanno dei problemi vanno subito lì. Mi chiedo allora con che faccia noi credenti, convinti della necessità di rimettere in circolazione il bene anche attraverso i beni, non diciamo niente su tale argomento. Potremmo trovare una data strategica per sollevare la questione, per esempio l’11 febbraio, l’anniversario della firma dei Patti Lateranensi.

Non possiamo più limitarci a fare gli alternativi, perché il mondo oggi non va avanti sulle alternative dei gruppetti. Oggi dobbiamo essere politici, cioè comunitari, cittadini che, di fronte a qualcosa che non va, prendono l’iniziativa e agiscono. Conosciamo bene quanta forza può assumere un popolo quando impiega tutti i mezzi a sua disposizione. (…). Sappiamo che è possibile cambiare la storia. E tanto più dovremmo saperlo noi credenti, con la nostra idea di una storia in continua trasformazione, in un processo di resurrezione, cioè di rottura delle catene di morte.

Mi colpisce moltissimo questo silenzio sulla questione dei beni della Chiesa. Non dico che, se il Vaticano cambiasse la sua politica economica, cambierebbe la situazione mondiale, ma si potrebbe rimettere in circolazione un altro tipo di economia. È davvero scandaloso come questa istituzione non dica assolutamente niente al riguardo, limitandosi a messaggini moralisti in caso di disgrazia (“siamo vicini a questi”, “siamo vicini a questi altri”), quando in realtà non ha fatto altro che creare organismi finanziari dappertutto.

Io credo che parlare dei beni significhi riprendere in mano il nostro bene che è la partecipazione, che è la capacità di pensare insieme alle altre persone, di rinunciare ad ogni ambiguità, di non accontentarci di essere alternativi, ma di essere cittadini a tutti gli effetti. Un cittadino non è alternativo, ha dei diritti e dei doveri. Questa storia dell’alternativo ci ha spiazzato: l’economia alternativa, il cibo alternativo, i vestiti alternativi, l’arte alternativa… E ciascuno crea il suo paradiso. Ma noi siamo cittadini, persone a tutti gli effetti chiamate a partecipare. (…).

La grande questione oggi è quella della responsabilità che abbiamo noi e che hanno tutte le religioni, a cominciare dalla nostra confessione cristiana. E capisco perché stiamo perdendo autorità, autorità in senso positivo, nel senso dell’autorità della sapienza. Noi ci accontentiamo della falsa autorità, di quel vecchio potere spirituale che ci siamo presi da secoli perché siamo stati furbi, perché avere potere sullo spirito di una persona significa anche avere potere economico e dunque potere storico.

La maggioranza di noi si pensava alternativa e alternativa non lo può più essere. Essere alternativi ora è un lusso, è come andare nel deserto per 15 giorni anziché viverci. (…). Oggi probabilmente noi siamo ancora troppo alternativi, perché non è totalmente vero che stiamo totalmente male. Chi sta davvero male in questo momento è reale, non è alternativo.

(…) Mi sembra che a volte l’alternativo ci lasci le mani troppo pulite. Io continuo a insistere, come dice il titolo del mio ultimo libro, che il bene è fragile, molto fragile. Se il bene è fragile, in alcuni momenti portarlo avanti significa anche sporcarsi, sbagliarsi.

Noi siamo ambigui anche nel bene. E questo non è un dramma, è solo quel famoso limite della precarietà e vulnerabilità umana che ci renderà capaci di unirci ad altre persone e diventare un po’ più mendicanti di sapienza, di creatività, di fede. Probabilmente noi abbiamo fedi troppo sicure. Forse la nostra fede deve essere più mendicante, chiedere all’altro non solo “chi è il tuo Dio”, ma “come ti fa vivere il tuo Dio? Sarà che il tuo Dio fa vivere anche me, fa vivere anche il mio popolo, in un altro modo?”. Ma per fare questo c’è bisogno di provare la precarietà e di riconoscere questa precarietà esistenziale che abbiamo tutti.