A 50 dal concilio, che ne è della fede di R.LaValle

Raniero La Valle
Adista Documenti n° 3/2012 – www.adistaonline.it

A 50 anni dal Vaticano II, la domanda appropriata non è quale sia lo stato della Chiesa, ma quale sia lo stato della fede. Perché la Chiesa potrebbe anche essere fiorente, le chiese piene, i seminari gremiti, ma se la fede si fosse inaridita, e di conseguenza anche la carità, a nulla varrebbe.

Ma qui nasce un problema. L’evento da ricordare, il Vaticano II, regge una domanda sulla fede? Certamente regge una domanda sulla Chiesa: perché quello che ha voluto fare il Vaticano II è stato una riforma della Chiesa o, come diceva più soavemente papa Giovanni, un “aggiornamento” della Chiesa: e nella direzione di una manutenzione, di un arricchimento, di un adeguamento della Chiesa sono andati tutti i principali documenti conciliari, la Lumen Gentium, che appunto era chiamata, durante il suo iter conciliare, il De Ecclesia, il documento sulla liturgia, in quanto culto pubblico della Chiesa, la Dei Verbum, cioè la Bibbia in relazione alla tradizione della Chiesa, il decreto sulla missione, sull’apostolato dei laici, sui vescovi, sui preti, sui religiosi, fino ai documenti che risituavano la Chiesa nei suoi rapporti esterni: la Chiesa e il mondo, la Chiesa e le altre Chiese e comunità cristiane, le Chiese e le religioni non cristiane. Insomma, il Concilio ha avuto come programma e ha perseguito il fine di rispondere alla drammatica domanda di Paolo VI: «Chiesa di Cristo, che cosa dici di te stessa?». Perciò rifare ora questa domanda cinquant’anni dopo, sarebbe del tutto appropriato. Che ne è della Chiesa?

Meno pertinente sembrerebbe invece l’altra domanda: Chiesa di Cristo, a cinquant’anni dal Concilio, che ne è della fede? Sembrerebbe meno pertinente interrogare il Concilio su questo perché si dice che la fede non sarebbe stata l’oggetto proprio delle deliberazioni conciliari. Questa tesi della irrilevanza del Concilio per la formulazione della fede dipende dall’ermeneutica, cioè dall’interpretazione del Concilio, non solo quella che se ne dà oggi, ma quella che del Concilio si dava nel corso stesso del suo svolgimento: il Concilio non aveva un compito dottrinale, teologico, si diceva, non doveva rivisitare i contenuti della fede, ma doveva essere pastorale, doveva occuparsi solo dei modi della sua trasmissione, della sua comunicazione al mondo; magari bisognava cambiare il linguaggio, renderlo più consono alle forme proprie del pensiero moderno, ma il contenuto della fede non era all’ordine del giorno. Si sarebbe potuto fare una discussione se la fede e il linguaggio che la esprime non fossero in realtà una cosa sola. Ma questa discussione non si fece. Divenne luogo comune quello che per papa Giovanni era stato forse solo un enunciato un po’ astuto di carattere prudenziale: perché nessuno si spaventasse del Concilio, per il fatto che doveva occuparsi di cose di cui da cent’anni si occupava solo il papa, per di più sotto il sigillo dell’infallibilità, Giovanni XXIII assicurò che il Concilio non sarebbe stato dogmatico, ma pastorale, che non c’era da discutere la dottrina, ma del modo come la Chiesa dovesse farla conoscere al mondo intero.

E così fu stabilito; o meglio così fu creduto, o meglio così convenne credere; ma era una convenzione, uno svisamento, perché in realtà mettere mano a un rinnovamento così profondo della Chiesa come quello intrapreso dal Concilio non poteva non voler dire rivisitare anche i contenuti della fede, non certo nel suo nucleo fondamentale, cioè la morte e risurrezione di Gesù Figlio di Dio, ma nelle articolazioni, incrostazioni e sovrapposizioni di cui il messaggio si era accresciuto lungo i secoli.

E papa Giovanni certo lo sapeva per primo: perché, come disse nell’allocuzione inaugurale del Concilio, Gaudet Mater Ecclesia, occorreva «un balzo innanzi» proprio nella «penetrazione dottrinale»: certo, nella fedeltà all’autentica dottrina, «però studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno». Dunque era proprio la dottrina che era in questione, nei suoi contenuti non ancora manifesti, che dovevano essere penetrati, e nella sua formulazione, che doveva essere aggiornata, e ciò proprio in funzione di un magistero pastorale. La pastorale era dunque il fine, non il surrogato della penetrazione dottrinale.

Lo stesso papa Giovanni, nella enciclica Pacem in terris, che doveva giungere solo qualche mese dopo, nell’affermare la dottrina della libertà religiosa e della libertà di coscienza, di fronte all’obiezione dei censori, padre Ciappi e padre Jarlot, secondo cui quella dottrina rompeva la continuità con il Sillabo e con la tradizione del magistero romano, prendeva atto tranquillamente che proprio di un mutamento dottrinale si trattava.

Dunque è perfettamente legittimo domandarsi che cosa ha detto il Concilio sulla fede, e di conseguenza domandarsi, dopo cinquant’anni, se la fede del Concilio è la fede che oggi è fatta propria ed annunciata dalla Chiesa. Forse, se ci poniamo questa domanda, possiamo meglio analizzare e capire la crisi religiosa nella quale è caduta la società contemporanea, e possiamo anche capire perché il detto di Gesù: “Tra voi non sia così”, non si realizzi oggi per quanto riguarda il potere della Chiesa.

LA CRISI RELIGIOSA

Perché non c’è dubbio che c’è una crisi religiosa, che, ancor prima che una crisi della Chiesa, è una crisi della fede.

E la crisi è soprattutto nel passaggio tra la generazione dei nati prima del 1945 e la generazione dei nati dopo il 1981: tra le due generazioni non c’è solo una decrescita lineare nelle pratiche della fede dovuta alla secolarizzazione, ma un vero e proprio scarto generazionale, uno “scalino”, come lo chiama una indagine sullo stato della religione in Italia pubblicata nell’Annale della rivista Il Regno. Secondo questa indagine, effettuata nel 2009 su un campione significativo, sia per la frequenza alla Messa e ai sacramenti, sia per la preghiera personale, sia nel dichiararsi credente, c’è un divario generazionale imponente; nel confronto ad esempio tra le percentuali di quanti pregano, fra quelli che sono nati prima del 1945 e la generazione degli anni Ottanta c’è un divario di 24 punti su 100; tra quelli che vanno a Messa la domenica, lo scarto tra anziani e giovani è di 31 punti; altri parametri usati per misurare l’identità religiosa (come ad esempio la fiducia nella Chiesa) danno analoghi risultati. «Il calo più netto in tutti gli aspetti del rapporto con la religione – sottolinea l’inchiesta – riguarda proprio i giovanissimi. Sembra veramente di osservare un altro mondo» .

È la fine del modello dell’Italia cattolica: riguardo «a ogni aspetto dell’identità religiosa i giovani, in particolare quelli nati dopo il 1981, sono tra gli italiani quelli più estranei a un’esperienza religiosa. Vanno decisamente meno in chiesa, credono di meno in Dio, pregano di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno come cattolici e non ritengono che essere italiani equivalga a essere cattolici» . Né in questo, tra i giovani, a differenza che tra gli anziani, ci sono differenze sostanziali tra uomini e donne. Ragazzi e ragazze la pensano allo stesso modo. I nostri figli – sottolinea Il Regno – presentano un quadro di analfabetismo religioso molto alto . E aggiunge il rapporto: «Già si intravede la futura minoranza credente. È immaginabile che quando i figli della generazione degli anni Settanta saranno padri, daranno un ulteriore contributo alla secolarizzazione». Al contrario di tanti trionfalismi su un presunto “ritorno del sacro”, i dati esaminati nel rapporto, soprattutto riguardo alle enormi differenze generazionali, «potrebbero anticipare una drastica riduzione dei fedeli». Finito il modello cattolico, si starebbe profilando il modello di «un Paese genericamente cristiano» .

Questa crisi religiosa cattolica – non parliamo qui delle altre fedi – non è del resto solo dell’Italia. In un testo del teologo della liberazione José Comblin, che è stato ora pubblicato postumo da Adista (n. 68/11, ndt), si descrive una crisi che ha una portata universale. In America Latina i contadini poveri, che fino a ieri stavano con la Chiesa, ora vanno con gli evangelici; milioni di adolescenti stanno perdendo la fede; i giovani, compresi i nuovi sacerdoti, non sanno cosa fu il Concilio, che non riveste per loro alcun interesse.

Per José Comblin il fattore scatenante della crisi è stato il ‘68, a cui la Chiesa non ha saputo dare una risposta. Il ‘68 mise in questione le istituzioni stabilite, i sistemi di autorità, il sistema dottrinale delle Chiese, i codici morali; la rivoluzione femminile, la pillola, cambiarono completamente la concezione della sessualità, rimisero in questione la morale tradizionale senza che il modello di una morale nuova apparisse. Secondo Comblin, la Chiesa non seppe rispondere alla sfida del ‘68 perché il Vaticano II aveva risposto agli interrogativi e alle sfide della società occidentale del 1962, ma non aveva risposte per la grande domanda di senso, di etica, di politica, di religione che si sarebbe spalancata nel ‘68 .

IL CONCILIO AVEVA RISPOSTE?

Ma è proprio vero che il Concilio ha esaurito la sua spinta propulsiva già nel ‘68? Il vero problema che io vorrei porre è se il Concilio aveva delle risposte non solo per il mondo del suo tempo, ma anche per la crisi che si sarebbe aperta nel mondo che doveva venire, crisi che a cominciare dal ‘68, e attraverso la secolarizzazione e la globalizzazione, è giunta fino ad ora. E vorrei anche chiedermi se nel Concilio, a saperlo interrogare, ci sono anche le risposte per affrontare la crisi di fede, la drastica diminuzione del numero dei fedeli, l’analfabetismo religioso dei giovani d’oggi e il prossimo avvento di una generazione non solo non più cattolica, ma neanche genericamente cristiana. La domanda è se la Chiesa del Concilio avrebbe i mezzi per affrontare una crisi la cui radicalità a mio parere anche Benedetto XVI ha perfettamente recepito, fino al punto da immaginare un futuro di piccole comunità cristiane disseminate, in diaspora, nel mondo.

Il Concilio, a mio parere, avrebbe questa capacità di risposta; il problema è che il papa e la Chiesa di oggi non vi fanno ricorso.

Ma quali risposte potrebbe dare il Concilio? Io non credo che queste risposte potrebbero venire se noi continuiamo a chiedere al Concilio di fare quello che fino ad ora non è riuscito a fare, cioè la riforma della Curia, la riforma della Chiesa. Il processo di riforma fu infatti interrotto fin dal suo nascere, e difficilmente con la Chiesa di oggi potrebbe riprendere.

Però io non credo che i giovani stiano perdendo la fede, le donne raggiungano gli uomini nella loro lontananza dalla preghiera e dalla Chiesa, i poveri dell’America Latina passino agli evangelici, perché il Sinodo dei vescovi non funziona, il codice di diritto canonico è brutto e non sono state aggiornate come dovrebbero le altre strutture della Chiesa.

Io credo che la crisi c’è perché il messaggio di fede che oggi viene trasmesso non è più ascoltabile fuori della cerchia dei vecchi praticanti e non è più credibile per le giovani generazioni secolarizzate. E credo invece che il messaggio di fede della Chiesa del Concilio sarebbe ascoltabile e sarebbe credibile se fosse scoperto; sicché non è una domanda retorica il chiedersi se non c’è un Concilio che è rimasto nascosto, un Concilio ancora da scoprire e magari proprio nelle cose più importanti. Se dalla superficie si passa a un livello più profondo, si scopre che forse proprio di questo si tratta. Si tratta di ciò che il Concilio ancora non ha detto alle Chiese o che ancora non è stato ascoltato. Si tratta di un tesoro che lo Spirito ci ha messo dentro e di cui poco ci siamo accorti, e forse proprio perché non era affatto un tesoro nascosto, non stava tra le pieghe delle cose che più erano state combattute, scritte e riscritte, ma stava nelle parti per così dire narrative del Concilio, non controverse, non contestate da nessuno.

Perché c’è una “narrazione” fatta dal Concilio. Di lì a poco la crisi del Novecento avrebbe rimesso in discussione tutte le vecchie narrazioni (quella marxista, liberale, scientista ecc.); ed ecco che il Concilio anticipava i tempi, e del cristianesimo offriva una narrazione nuova. Essa si trovava non nelle parti dispositive dei grandi documenti conciliari, ma nelle loro introduzioni, nei proemi, dove si narrava la storia della salvezza, e su cui non si era accesa nessuna discussione nel Concilio, proprio perché c’era l’idea che la narrazione fosse sempre quella. E invece la narrazione era profondamente cambiata, e il fatto che passasse senza discutere, significava che quella nuova narrazione era ormai pacifica nella vita di fede delle singole Chiese.

Se ne possono trovare molte prove nei testi del Concilio; ma se ne può trovare una prova anche in una cosa che nel Concilio non c’è. La Curia, durante la preparazione del Concilio, voleva che esso, dirimendo una questione non ancora formalmente definita, confermasse come dottrina di fede quella secondo la quale i bambini morti senza battesimo non sono salvi, e non vanno in paradiso. Ma la Commissione preparatoria del Concilio non lo mise nemmeno all’ordine del giorno perché – come poi spiegò la Commissione Teologica Internazionale nel 2007 – i vescovi che venivano al Concilio testimoniavano che la fede delle loro Chiese non era affatto che i bambini morti senza battesimo non fossero accolti nell’abbraccio di Dio, come sosteneva una dottrina costante ripetuta da S. Agostino a Pio XII.

IL PIANO DI DIO

Dunque c’è una narrazione nuova, che poi altro non è che una ricostruzione della storia della salvezza come facevano gli antichi Padri. I grandi documenti del Concilio cominciano raccontando il piano di Dio, il disegno del Padre presente nella creazione, nella storia, e nella croce di Gesù.

Ebbene, da questo disegno emerge un Dio inaudito, diverso da quello che prima del Concilio imparavamo dai nostri catechismi. Non era certo un Dio nuovo, era sempre il vero Dio che generazioni di cristiani avevano amato e adorato lungo i secoli, e a cui molti avevano consacrato la loro vita in donazioni totali. Però era come se uscisse da un velame che l’aveva reso opaco, e si fosse meglio svelato attraverso quella crescita nella comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, che il Concilio stesso accreditava alla Chiesa nel suo cammino storico.

In effetti, nella presentazione che allora se ne faceva, Dio era un nume offeso che doveva essere placato dai nostri sacrifici, così come aveva voluto essere placato dal sacrificio del Figlio che a questo scopo avrebbe mandato a morire sulla croce; la nostra cattiveria era data per scontata e attendeva solo di essere perdonata; il giogo del peccato ci teneva sotto il peso della vecchia servitù, perfino la morte era per colpa nostra, altrimenti saremmo stati immortali, il mondo era una valle di lacrime, noi dovevamo disprezzare le cose terrene e le prosperità del mondo, e cercare solo quelle celesti. Le nostre afflizioni erano del tutto meritate, come dicevano le preghiere della Messa: «Dio che vedi come per le nostre perversità siamo afflitti»; «Noi che giustamente siamo afflitti a causa dei nostri peccati»; «Noi che siamo afflitti a causa del nostro operare»; «Noi incessantemente siamo afflitti a causa dei nostri eccessi», e così via, di colpa in colpa. Così si pregava nell’Ordinario latino della Messa prima della riforma liturgica del Concilio; e allora possiamo capire il salto che c’è stato.

All’origine di quella comprensione della fede c’era un’antropologia pessimistica che era diventata cultura comune e che ancora oggi possiamo rintracciare alla base di molte istituzioni dell’Occidente, a cominciare dallo Stato. Esso fu concepito infatti come antidoto alla congenita cattiveria umana che di per sé porterebbe alla violenza generalizzata, alla lotta di tutti contro tutti, sicché anche la politica è stata teorizzata come uno scontro tra Amico e Nemico. Il nostro acerrimo sistema bipolare, forse, come mi auguro, finito l’altro ieri, è ancora il figlio di questa dottrina.

Secondo questa antropologia, l’uomo si era infortunato appena creato; a causa del peccato era rimasto sfigurato, la sua natura decaduta, ferita; il paradiso terrestre c’era stato davvero, ma ne eravamo stati cacciati. La libertà dei moderni era considerata un delirio. L’eguaglianza tra uomo e donna un’eresia e anzi, secondo Pio XII, una tentazione diabolica, la lusinga di «una voce serpentina». Il desiderio sessuale, i parti con dolore, il lavoro col sudore della fronte erano pena del peccato; l’amore sponsale non inteso alla procreazione era, come si leggerà in un documento preparatorio del Concilio, «un fetido onanismo coniugale».

Rievocando quei tempi, nel 1979, a quindici anni dalla chiusura del Concilio, il teologo Karl Rahner dirà che la Chiesa era tributaria di un cattivo agostinismo per il quale la storia del mondo era ed è «la storia di una massa dannata nella quale solo a pochi è dato salvarsi per una grazia di elezione raramente concessa»; quei pochi stavano nella Chiesa cattolica, fuori della quale non c’era salvezza; quanto agli altri cristiani erano considerati come «una massa di eretici da indurre con le buone o con le cattive alla conversione all’unica vera Chiesa». È evidente che qui non c’era una questione di disciplina, di riformismo ecclesiastico, ma una questione di fede.

E benché oggi molti si ostinino a dire che il Concilio non ha cambiato niente, la Chiesa e il suo annuncio di fede ne sono usciti trasformati; come dice Rahner, lo stesso annuncio di Cristo è diventato un annuncio nuovo; «sia nell’annunciatore che nell’annuncio è avvenuto qualcosa di nuovo, di irreversibile, di permanente».

Queste cose non le abbiamo scoperte subito, ma nel tempo, e per molti cristiani sono ancora da scoprire.

Ma certamente il Dio testimoniato dal Concilio non è un Dio vendicatore che debba essere risarcito e placato con l’olocausto del Figlio; l’età dei sacrifici è conclusa, e con essa qualunque legittimazione religiosa delle pratiche vittimarie, delle vendette del sangue, delle rappresaglie, della violenza e della guerra. La parola placatio, da “placare”, non c’è mai nei testi del Concilio né nella liturgia dopo il Concilio. Il Signore è stato crocefisso non a causa di Dio e per far piacere a lui, ma a causa degli uomini, a cui egli ha pagato fino alla fine il prezzo del suo amore per loro.

Il Dio del Concilio non è il Dio bifronte, “tremendum et fascinans”, di cui parlava Rudolf Otto all’inizio del Novecento, ma è un Dio solo fascinans, solamente buono. È un Dio che non ha cacciato nessuno dal giardino dell’Eden dopo il peccato; nella narrazione della storia della salvezza fatta dal Concilio questa cacciata non c’è; la buona notizia è che questa notizia non c’è, e anzi, dice il Concilio, gli uomini, caduti in Adamo, Dio non li abbandonò, non dereliquit eos, ma a causa di Cristo sempre prestò loro gli aiuti necessari per salvarsi e senza posa, sine intermissione, si prese cura del genere umano.

Di conseguenza, l’essere umano non è un fuscello sbattuto nel tempo («un roseau pensant», come dice Pascal), ma ce la può fare a prendere in mano la storia, ad aggiustarla (ius, il diritto, viene da iustari, che vuol dire aggiustare). Il Figlio di Dio si è unito in qualche modo ad ogni uomo, afferma il Concilio, perciò la salvezza è per tutti, e tutti possono cooperare a realizzarla, perché, dice con la Bibbia il Vaticano II, «Dio ha messo l’uomo in mano al suo consiglio», e nella misura in cui vengano «suscitati uomini più saggi» è possibile far fronte a una situazione in cui, come dichiara la Costituzione pastorale, «è in pericolo il futuro del mondo». E, quanto alla libertà, essa è la dignitas humana, la dignità stessa dell’uomo, e in nessun modo la si può coartare, nemmeno col pretesto di non dare libertà all’errore. La riconciliazione della Chiesa col mondo, celebrata dal Concilio, è stata in realtà una riconciliazione con l’uomo, con gli uomini e le donne quali noi siamo; e da questo non si può tornare indietro.

LA FEDE DELLA CHIESA DEL CONCILIO

La mia idea è che, se la fede annunciata oggi dalla Chiesa non fosse dominata dal peccato, dalla punizione, dall’afflizione e dalla morte come giusta pena per la nostra natura decaduta e corrotta, e fosse invece la lieta fede annunciata dal Concilio, la novità della fede del Concilio, i giovani, le donne, i contadini poveri, il mondo, sarebbero molto più propensi ad accoglierla.

Questo insistere sulla novità non dovrebbe ferire nessun orecchio cristiano. Novità di vita, nuova creazione, nova et vetera, nuova nascita, nuova alleanza, l’essere “capaci della santa novità”, come si prega a Pasqua, sono parole familiari al lessico cristiano. E così, contro quelli che negano i cambiamenti del Concilio, noi possiamo dire novità del Concilio, novità nella fede.

È evidente che non cambia il kerigma, che è quello del Signore morto e risorto, e resta ferma la gloriosa fede di Calcedonia, che non è affatto superata come qualche teologo moderno vorrebbe. Ma senza una nuova intelligenza della fede molte delle cose che il Concilio ha detto non sarebbero state nemmeno pensabili.

Come sarebbe stato possibile l’ecumenismo, cioè il riconoscere le altre Chiese come vere Chiese, se il Concilio non avesse introdotto la distinzione tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica romana, attraverso la formula secondo la quale la Chiesa di Cristo subsistit in, sussiste nella Chiesa cattolica romana senza tuttavia esaurirsi in essa? Questa è una cosa che riguarda la fede, non i sacri canoni.

Come sarebbe stato possibile aprire il dialogo con le religioni non cristiane, e con lo stesso ebraismo, se non fosse stata abbandonata la formula secondo cui Extra Ecclesiam nulla salus? Lo stare o il cadere, secondo la fede, di questo presupposto di esclusività è gravido di enormi conseguenze per tutto il rapporto della grazia con la storia, i popoli, il mondo.

Come sarebbe stato possibile fondare la libertà religiosa senza quella fede che ha permesso di articolare in modo nuovo l’antropologia del Concilio? La libertà come dignitas humana poggia sulla identificazione dell’uomo come imago Dei, ed è per questo che non si può mettere in subordinazione gerarchica, come si faceva prima del Concilio, la libertà rispetto alla verità. La verità è la dignità e la libertà stessa dell’uomo: nella Pacem in terris di Giovanni XXIII, uno dei quattro “pilastri” della pace, insieme alla libertà, era la verità, ma la verità consisteva nel fatto che dai rapporti fra le comunità politiche venisse eliminata ogni traccia di razzismo, e venisse «riconosciuto il principio che tutte le comunità politiche sono uguali per dignità di natura; per cui ognuna di esse ha il diritto all’esistenza, al proprio sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo, ad essere la prima responsabile nell’attuazione del medesimo; e ha pure il diritto alla buona reputazione e ai dovuti onori».

E d’altra parte come avere tanta fiducia nell’uomo da riconoscergli una libertà radicale, e come lasciare libero l’uomo di credere o non credere, se l’uomo è rimasto sfigurato nella sua natura dal peccato, pur se redento da Cristo?

E come sarebbe stato possibile il nuovo rapporto della Chiesa col mondo, se non grazie a un passaggio, nella fede, dalla visione apocalittica alla visione evangelica del Regno presente già qui sulla terra?

IL POTERE DELLA CHIESA E NELLA CHIESA

Infine c’è la questione del potere nella Chiesa. Nella fede come era percepita e professata prima del Concilio molto difficilmente avrebbe potuto realizzarsi, riguardo al potere della Chiesa e nella Chiesa, il detto di Gesù: «Tra voi non sia così». E infatti, soprattutto nel secondo millennio, non era stato possibile, e non sarebbe possibile neanche oggi, finché il messaggio della fede non venga a sostituire il “progetto culturale”, che non può disgiungersi dal potere e non garantisce che la Chiesa non voglia signoreggiare sulla società e sullo Stato.

Sull’antropologia pessimista dell’uomo peccatore, accanto a molte altre cose, si è fondato in effetti anche il potere temporale della Chiesa. Nella storia, la rivendicazione del potere della Chiesa sui regni e gli imperi era giustificata ratione peccati; e il mistico Bernardo di Chiaravalle nel XII secolo scriveva al suo discepolo, papa Eugenio III, spiegandogli che il fondamento del suo potere non stava “in possessionibus”, ma “in criminibus”.

Nella fede del Concilio la Chiesa può davvero, non solo in visione, ma nella sua vita reale, rovesciare il potere in servizio.