“Homo sapiens”

Antonio Guagliumi
Comunità cristiana di base di S.Paolo – Roma

Chi visita a Roma la mostra “Homo sapiens”, prorogata per il grande successo sino ad Aprile, ha l’opportunità di vivere da vicino l’evoluzione della nostra specie.

Fatti ben noti e acquisiti o nuove ipotesi avanzate di recente dalla scienza e dalla filosofia, qui si possono toccare con mano attraverso reperti, modelli, grafici, sintesi e cartine, così che tutti, giovani e adulti, se ne sentono coinvolti e stimolati a riflettere.

Viene tra l’altro spontaneo il desiderio di approfondire un tema di grande attualità teorica e pratica: il rapporto di questa nostra specie in evoluzione con ciò che ci circonda e sovrasta: il mondo terreno, l’universo stellato, le forze misteriose della natura, il “numinoso”, dio.

Paura e speranza devono essere stati i sentimenti che hanno dominato questi esseri da quando hanno cominciato a riflettere su se stessi. Il genere “Homo” sembra sia emerso circa 2.000.000 di anni fa; la specie “Homo sapiens” soltanto tra i 180.000 e i 200.000 anni or sono, ultimo ramo ancora verdeggiante di una pluralità di tentativi esauriti (un “disegno intelligente” che va per tentativi?!). A 40.000 anni fa risalgono le prime prove che i nostri antenati tentavano, con riti ed offerte, di placare, o addomesticare le forze naturali e si sentivano in qualche modo legati ai propri morti.

Queste preoccupazioni hanno accompagnato le donne e gli uomini dei primordi (purtroppo la mostra, per i motivi culturali che ben conosciamo, è intitolata solo “Homo sapiens”) nel loro relativamente rapido diffondersi su tutto il globo, sempre in movimento, sempre migranti. In questo cammino, spaziale e temporale, insieme alle conquiste tecnologiche e allo sterminio di interi gruppi per avverse cause naturali, si sono certamente manifestati anche i primi incontri e scontri fra tribù e fra “dei” diversi. Una storia che continua.

Ma oggi, a proposito del concetto di dio, che è poi strettamente connesso a quello di civiltà, a che punto siamo? Una bella sintesi, come molti già sanno, è contenuta nell’ultimo libro di Vito Mancuso. Il problema, pure nel mare di indifferenza che talvolta sembra sopraffarci, è sentito da un numero crescente di persone e questo libro, diffondendo il pensiero più avanzato dei biblisti, dei filosofi, dei teologi e (meno) delle teologhe d’avanguardia che di solito resta circoscritto nell’ambito accademico e dei piccoli gruppi del dissenso, aiuta molto la riflessione di tutti coloro che sono indifferenti o critici verso un “Magistero” ufficiale sempre più lontano dalla realtà.

L’idea di un dio che dal di fuori intervenga nelle cose del mondo, cioè nella storia, non regge più: troppi esempi in contrario e troppe contraddizioni logiche lo escludono o almeno lo rendono sommamente improbabile; se c’è un trascendente, è qualcosa che ci accompagna sin dalle origini del mondo; è in noi stessi/stesse e nell’altro/altra da noi (primo gradino di trascendenza); dobbiamo capirlo, ascoltarlo, assecondarlo se il suo impulso è verso il bene. Se questo orientamento fosse generalmente accettato e messo in pratica dall’ Homo sapiens, i conflitti fra tribù sarebbero superati, le differenze tra religioni diventerebbero specificità locali e la parola “chiesa” tornerebbe ad indicare un gruppo di persone, strutturate come a loro meglio conviene, riunite per discutere su come contribuire, nelle varie situazioni date, al bene della comunità locale nel contesto più generale della famiglia umana. Tutto ciò con gli occhi fissi a quella stella polare che chiamiamo “Bene” o “Amore” e che fatica ad emergere in questa evoluzione così contraddittoria ma che le menti profetiche hanno da tempo identificato con “Dio” . Un Bene che si sostanzia nella libertà, solidarietà, giustizia e salvaguardia del creato. L’atavica sete di conoscenza e di trascendente degli uomini e delle donne sarebbe quanto meno mitigata e nessuno potrebbe più strumentalizzarla ai suoi fini.

Ma questa nuova percezione di dio pone alle nostre comunità una sfida immane: adattare ad essa il nostro linguaggio quotidiano e cultuale. Cambiare le parole e le formule del culto e della preghiera senza perdere il cuore del discorso e la comprensione reciproca richiede tempi molto lunghi. Occorre infatti evitare compartimenti stagni di tipo “gnostico” tra chi dice “ho capito” (li chiamavano “pneumatici) e tutti gli altri, considerati ancora appartenenti uno stadio “inferiore” di evoluzione (li chiamavano “psichici”).

Tuttavia, si deve pur cominciare, e in questo graduale aggiornamento mi pare intanto importante cercare di capire sempre meglio cosa vogliamo dire di nuovo con le parole antiche.