Periferie del mondo di A.Bifulco

Aldo Bifulco

Un Anonimo latinoamericano scrive:

“Il nostro primo compito nell’avvicinarci a un altro popolo, a un’altra cultura, a un’altra religione, è toglierci le scarpe, perché il luogo al quale ci stiamo avvicinando è sacro. Qualora non ci comportassimo così, correremmo il rischio di schiacciare il sogno altrui. Peggio ancora:correremmo il rischio di dimenticarci che Dio già stava lì, prima che noi arrivassimo”.

Con questo spirito…ma con le scarpe, anche per il benessere di tutti i presenti in sala…avrei voluto intervenire al dibattito di sabato sera, durante l’incontro della Scuola di Pace. Ma credo che si possa considerare non concluso nelle due intense ore trascorse insieme e che possa continuare anche con gli strumenti che la tecnologia mette a nostra disposizione.

Innanzitutto avrei chiesto ai nostri interlocutori di diversa nazionalità quali carte geografiche (in particolare il planisfero) sono abituati ad osservare, qui e nei loro paesi di origine. E’ probabile che mi avrebbero risposto: “le stesse che usate normalmente voi!”. Praticamente la carta modificata conforme di Mercatore, buona senz’altro per la navigazione, ma con la distorsione delle proporzioni alle diverse latitudini che presenta genera nell’immaginario popolare una concezione errata della “geografia della Terra”. Essendo impossibile proiettare fedelmente una superficie curva su un piano è evidente che le necessarie approssimazioni siano adattate agli usi specifici delle carte, ma c’è anche un uso più nascosto, quello culturale-politico relativo alla visione del mondo che si vuole propinare. La carta di Mercatore è modificata in modo da essere marcatamente eurocentrica.

E’ per questo che Arno Peters ha costruito una carta geografica equivalente, molto più rispettosa nella grafica dei rapporti reali tra le superfici dei paesi del Nord e del Sud del mondo. Allora ci si accorge che l’Europa è una piccola frazione dell’Africa, e questa ha una posizione molto più centrale all’interno del puzzle terrestre. Quando con i miei studenti ci siamo avvicinati al continente africano per contribuire alla costruzione del Centro per i diritti dell’infanzia “Gregorio Donato” a Quihà in Etiopia, la mia prima preoccupazione è stata quella di decostruire un immaginario che si è andato consolidando nel tempo. Da allora nel mio “vecchio liceo” campeggia sul muro della sala delle conferenze una grossa carta di Arno Peters che generò un po’ di sconcerto iniziale ma suscitò opportune riflessioni in modo da scongiurare un certo “colonialismo culturale” che aleggia anche quando ci si avvicina all’Africa con l’intento lodevole della solidarietà. E speriamo che anche gli studenti di oggi possano ricevere le stesse sollecitazioni.

Che l’Africa sia stata considerata “periferia del mondo” per secoli, luogo di conquista e colonizzazione, riserva di materie prime e anche di uomini da sfruttare e destinazione di armamenti e rifiuti tossici prodotti nelle cosiddette aree sviluppate del mondo è una indubbia verità storica. E in parte è ancora così. Ma questo non è un destino ineluttabile dell’Africa, come mi è sembrato di percepire nell’intervento stimolante e …”pacato”… di Paco, l’interlocutore del Senegal presente all’incontro di sabato.

Anche perché io guardo all’Africa non solo con simpatia, ma come luogo della speranza, da cui può nascere un sole su un orizzonte di valori diversi che possa irraggiare le altre parti del mondo. E sono i valori che lo stesso Paco ci ha fatto percepire durante il suo interessante intervento. Innanzitutto il “rispetto” degli altri e la cura degli anziani, la lentezza e la nonviolenza come approccio alla vita, la reciprocità e la fratellanza, il desiderio di contribuire al cambiamento dovunque ci si trovi, piuttosto che l’attesa passiva e l’incedere nelle lamentazioni, l’amore e la vicinanza alla terra.

Valori che ho visto incarnati in Nelson Mandela e Thomas Sankara, in Wangari Muta Maathai, premio nobel della pace del 2004, in tanti altri e altre, soprattutto “altre” e non è un caso che molti a livello nazionale si siano battuti per conferire il nobel al “movimento delle donne africane”.

L’Africa come “continente della speranza” è anche nei progetti (ahimè!) di sviluppo, nella logica capitalistica di molti paesi vecchi che soffrono di una stagnazione economica e paesi emergenti in vista di una loro ulteriore espansione. In un recente articolo di Pietro Veronese apparso su “la Repubblica “ del 5 gennaio di quest’anno si legge: “Tutti vogliono l’Africa. Non soltanto i cinesi che l’hanno invasa con i loro colossali investimenti e le loro merci a buon mercato, o gli altri implacabili cacciatori di materie prime; non soltanto Al Qaeda, che vi ha trovato residua manovalanza del terrore, o gli americani, che vi hanno piazzato tardivi avamposti militari; non soltanto gli indiani, i brasiliani, i turchi e insomma tutte le nuove potenze sempre più emergenti in cerca di un ruolo globale. La vuole anche il Papa , che la considera –il polmone spirituale del mondo-…E soprattutto la vogliono i mercati, sia quelli dell’industria e del consumo che quelli finanziari, ansiosi di cooptarla nel grande giro dell’economia mondiale, di cui l’Africa è stata, fino ad oggi, la cenerentola”.

Saprà resistere l’Africa e gli africani alle tentazioni di questa piovra mercantile e finanziaria senza scrupoli che sta devastando il mondo intero?

Anche nei confronti delle tematiche ecologiche e, in particolare, riguardo al rispetto della terra, in Africa, si gioca una partita importante. La contesa è tra chi prospetta opere di forestazione e la creazione di mille orti, per arginare l’espansione delle monocolture e salvaguardare la biodiversità locale, anche per contrastare il deserto che avanza e la fame che cresce e tra chi, come le multinazionali, che cercano di accaparrarsi le terre fertili dei paesi poveri (il land grabbing), magari per creare enormi coltivazioni di piante da cui ricavare biocombustibili.

Questa dovrebbe diventare una battaglia comune tra le fette di popolo africano che non vogliono cedere alle illusioni dei paesi ricchi e le schiere di cittadini occidentali che hanno capito che non è più sostenibile uno stile di vita così energivoro e dissipativo, che sottende un sistema di valori lineare, basato sull’accumulo, la velocità, la quantità, la crescita.

Mi vengono in mente le parole di uno dei rappresentanti dei “ 7 piccoli della Terra”, quando a Napoli organizzammo, nel 1994, il controvertice mentre veniva celebrato il G 7 : “Tenetevi le vostre ricchezze. Lasciate che ci confrontiamo e che ci affrontiamo sui e coi nostri valori. Lasciateci trovare la nostra strada indigena di autosviluppo”. Oggi mi sentirei di chiedere a loro di aiutarci a trovare una strada comune che determini la salvaguardia del creato e la sopravvivenza della specie.

Intanto tra pochi giorni ci saranno le elezioni nel Senegal, il paese di Paco, che ha avuto come presidente, dal 1960 al 1980, il grande poeta africano Léopold Sédar Senghor, e tra i candidati c’è il musicista Youssou N’Dour che ha affermato:”Salute, lotta alla povertà, educazione, diritti umani sono i temi delle mie canzoni e lo saranno anche del mio impegno politico”. Avrei voluto chiedere a Paco se Youssou è credibile e se lui lo avrebbe votato.

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Senegal nel caos

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Da alcuni giorni, una serie di violenti scontri sta segnando la vigilia delle elezioni presidenziali in Senegal, previste per domenica 26 febbraio. Le manifestazioni di piazza sono state organizzate dalle opposizioni ufficiali e da alcuni gruppi della società civile per protestare contro la candidatura dell’anziano presidente in carica, Abdoulaye Wade, il quale nonostante i limiti imposti dalla costituzione si appresta a correre per un terzo mandato alla guida del paese africano.

L’85enne presidente senegalese, al potere dal 2000, già lo scorso settembre aveva annunciato l’intenzione di correre per un terzo incarico, anche se nel 2007 aveva promesso pubblicamente che avrebbe dato l’addio alla politica attiva nel 2012.

Il suo ritiro dalle scene avrebbe permesso di evitare una disputa attorno al dettato costituzionale che regola il numero di mandati del presidente. Secondo Wade, infatti, il limite di due mandati previsto dalla costituzione non si applica al suo caso, poiché è stato introdotto dopo l’inizio della sua presidenza, nel 2000.

A stabilire che il limite dei due mandati non è retroattivo è stata infine la Corte Costituzionale del Senegal che lo scorso 27 gennaio ha dato così il via libera alla candidatura di Wade. Lo stesso tribunale, composto in maggioranza da fedelissimi del presidente, a gennaio aveva anche escluso dalle presidenziali il cantante di fama internazionale Youssou N’Dour, sostenendo che decine di migliaia di firme raccolte per la sua candidatura risultavano illeggibili.

La sentenza favorevole a Wade ha suscitato le immediate proteste delle opposizioni ma gli scontri di piazza con la polizia hanno iniziato ad assumere proporzioni preoccupanti solo la scorsa settimana. Il centro della capitale, Dakar, è stato occupato da migliaia di manifestanti, accolti dalle forze di sicurezza che hanno cercato in tutti i modi di impedire lo svolgimento di marce di protesta contro il presidente.

Anche i tre principali sfidanti di Wade – l’ex ministro degli Esteri, Ibrahim Fall, il deputato del Fronte per il Socialismo e la Democrazia, Cheikh Abiboulaye “Bamba” Dièye, e l’ex primo ministro nonché già protetto del presidente, Idrissa Seck – sono stati tra le vittime dei maltrattamenti riservati dalla polizia ai dimostranti.

Scontri di una certa intensità sono stati segnalati anche in altre località del paese, in particolare nella città di Kaolack, a sud-est di Dakar, dove un giovane manifestante ha perso la vita. Complessivamente, fino ad ora in tutto il Senegal si contano almeno sei morti tra gli oppositori di Wade.

Le tensioni sono poi salite alle stelle venerdì scorso, quando la polizia ha lanciato dei gas lacrimogeni all’interno di una moschea di Dakar nel tentativo di fare uscire un gruppo di manifestanti che vi avevano trovato rifugio. Questa mossa ha provocato una rivolta tra i fedeli che si stavano preparando alla preghiera, i quali hanno a loro volta deciso di scendere nelle strade in segno di protesta.

Alcuni leader dell’opposizione lunedì hanno chiesto alla comunità internazionale di intervenire per fare pressioni su Wade e fermare la repressione. Per il presidente, al contrario, i suoi avversari politici avrebbero reclutato mercenari per destabilizzare il paese. L’Unione Africana, attualmente presieduta dal presidente del Benin, Yayi Boni, ha fatto appello a entrambe le parti a porre fine alle violenze.

La stessa Unione Africana, in concerto con la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), ha inoltre inviato in Senegal una delegazione guidata dall’ex presidente nigeriano, Olusegun Obasanjo, per tentare una mediazione. Le opposizioni – formate dai partiti ufficiali e dalle organizzazioni Movimento 23 Giugno (M23) e Y’en a marre (“Ne abbiamo abbastanza”), un movimento di protesta fondato da alcuni rapper senegalesi – non sembrano però intenzionate a fare passi indietro, tanto che hanno già annunciato nuove manifestazioni prima del voto di domenica prossima.

A lungo all’opposizione, Abdoulaye Wade era stato eletto per la prima volta alla presidenza del Senegal nel 2000 dopo quattro sconfitte a partire dal 1978. Una volta al potere, Wade ha presieduto a svariate modifiche costituzionali, spesso caotiche. Nel febbraio del 2007 ha conquistato un secondo mandato in un voto, secondo le opposizioni, macchiato da diffuse irregolarità.

Per protesta, gli stessi partiti dell’opposizione decisero di boicottare le elezioni parlamentari del giugno successivo, permettendo così a Wade e al suo Partito Democratico del Senegal (PDS) di ottenere il controllo pressoché assoluto della legislatura e di nominare a piacimento i giudici della Corte Costituzionale.

Nel giugno del 2011, Wade ha tentato un nuovo colpo di mano, cercando di abolire il secondo turno delle elezioni presidenziali nel caso un candidato avesse raggiunto il 25% dei consensi, invece del 50%. La mossa, fallita a causa delle proteste di piazza che seguirono, era dettata da un evidente calo dei consensi nei confronti del presidente che vedeva il rischio concreto di essere battuto da un eventuale candidato unitario dell’opposizione.

Wade, in ogni caso, è rimasto fermo nel suo intento di cercare un terzo mandato anche di fronte alle pressioni esercitate dai due principali sponsor del Senegal, gli Stati Uniti e la Francia, i cui governi hanno chiesto apertamente al presidente di farsi da parte nel timore di un diffondersi incontrollato delle proteste di piazza.

Come già avvenuto in occasione della primavera araba in Tunisia, Egitto e Yemen, gli USA e l’Occidente hanno cercato di scaricare un leader dalle tendenze autoritarie che ha però servito diligentemente i loro interessi per anni. Seguendo un percorso già battuto da autocrati come Ben Ali, Mubarak o Saleh, nell’ultimo decennio anche Wade in Senegal ha portato avanti parallelamente il consolidamento del suo potere e l’apertura del paese al capitale straniero.

Proprio le conseguenze delle “riforme” in senso liberista perseguite da Wade sono la causa principale dell’esplosione delle proteste popolari esplose in Senegal.

Tuttavia, come ha evidenziato il ricercatore canadese esperto in questioni africane, Toby Leon Moorsom, in un articolo apparso lunedì sul sito web di Al Jazeera, i partiti dell’opposizione e le organizzazioni della società civile che hanno promosso le proteste di questi giorni non sembrano intenzionati a introdurre le questioni economiche nel dibattito politico senegalese.

Un simile atteggiamento mostra perciò tutti i limiti di questi movimenti, sia per quanto riguarda la loro capacità di rimuovere Wade dal potere sia per offrire una reale prospettiva di cambiamento alla maggioranza della popolazione senegalese.

Per Moorsom, se pure le manifestazioni hanno sorprendentemente raccolto un seguito significativo in molte città, l’opposizione nel suo complesso risulta lontana dai bisogni e dalle aspirazioni delle classi più disagiate del paese.

Pur essendo l’unico paese dell’Africa occidentale a non aver conosciuto un colpo di stato militare dopo l’indipendenza, ottenuta dalla Francia nel 1960, il Senegal si distingue come i suoi vicini per le precarie condizioni in cui è costretta a vivere buona parte dei suoi abitanti. Il livello di disoccupazione sfiora il 50%, mentre a fronte di una ristretta élite che ha beneficiato delle “riforme” economiche implementate in questi anni, rimangono enormi sacche di povertà, del tutto escluse da qualsiasi prospettiva di miglioramento.