Il vero spread è tra debito e democrazia

Guido Rossi
Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2012

Il rapporto tra il debito degli Stati e le sovranità popolari rimane incerto e inquietante. Incerto perché non sono ancora né chiare né risolutive le soluzioni che vengono offerte per il debito pubblico, sia quella che si affidi a una rigorosa disciplina di tipo costituzionale sulla parità dei bilanci statali, accompagnata a forme di salvataggio e ristrutturazione del debito, sia quella che si voglia invece affidare alle forze dei mercati, ondeggiando pericolosamente sulle loro irrazionali tenute. Nell’un caso, come nell’altro, il debito degli Stati porta ad affrontare il complicato rapporto con la democrazia.

Due sono le difficoltà che rendono inquietante il rapporto. La prima riguarda un problema di equità fra generazioni. Ogni decisione governativa che prenda impegni finanziari vincolanti per le politiche economiche future è certamente incauta se non irresponsabile, perché impegna inesorabilmente le nuove generazioni. Tuttavia, permettere al futuro di esercitare un veto sulle decisioni relative alle attuali imposizioni fiscali e spese pubbliche è altrettanto pericoloso.

Tutto ciò va detto, in verità, perché questa incredibile tensione tra democrazia e debito rimane inquietante anche laddove le maggioranze democratiche siano costrette, per ragioni esterne, ad affrontare serie politiche di austerity, come sta succedendo attualmente nei Paesi dell’Unione Europea.

Il rapporto “debito pubblico democrazia” ha una lunga storia, ben illustrata da una recente ampia letteratura. Ne è esempio l’autorevole Yale Law Journal il cui ultimo numero contiene ben due articoli su “democrazia e debito”.

Il rapporto conflittuale emergeva negli Stati Uniti già nella prima metà dell’800, quando nove Stati erano ridotti all’insolvenza, impossibilitati a pagare i loro debiti alla scadenza; ma la più eclatante emersione avvenne nel periodo della Grande Depressione, quando più di tremila municipalità si trovavano in stato di default.

È pur vero che già il grande filosofo David Hume aveva avvertito che il debito pubblico cede i poteri a una classe di finanzieri subordinando il benessere dei cittadini a quello dei creditori, e così mette in discussione l’indipendenza dello Stato. La verità è che Stati come quelli europei, che non controllano la loro politica monetaria, sono in preda a una disciplina diversa rispetto a quella degli Stati completamente sovrani, che hanno tutti i loro strumenti di politica finanziaria e monetaria sotto il loro controllo e a loro disposizione. E non corre dubbio che, tuttavia, anche per quegli Stati a piena sovranità, i limiti costituzionali agli investimenti pubblici e a ogni tipo di politica fiscale e di restrizione dei requisiti di bilancio, costituiscono un ostacolo al retto processo rappresentativo politico, condizionando i rappresentanti dei cittadini a svolgere pratiche di governo che sovente sono contrarie al bene comune che dovrebbero perseguire.

A evitare che con lo stato di eccezione il problema si trasformi da questione teorica in disciplina legislativa, sorda a ogni esigenza di eguaglianza sociale e vittima dell’imposto salvataggio delle strutture della speculazione finanziaria, è indispensabile che le priorità e il baricentro delle politiche dei governi europei si spostino. Anziché badare esclusivamente alla difesa del sistema finanziario, che invece necessita di una rigorosissima nuova regolamentazione, occorre che le politiche economiche e sociali si orientino all’eliminazione delle disuguaglianze, per assicurare ai cittadini la priorità dei diritti che Norberto Bobbio usava chiamare di prima e di seconda generazione, piuttosto che soddisfare l’interesse dei creditori, da pagare col sacrificio dei contribuenti.