TAV, democrazia, informazione: 6 articoli e riflessioni

1) Sbatti il no tav in prima pagina
2) Chi ha paura di un cretinetti?
3) Val Susa, l’abisso della democrazia
4) No Tav: resistenza e speranza
5) Mercalli: “L’opera è inutile, le violenze coprono questo fatto”
6) La politica e i No Tav: paura della democrazia

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1) Sbatti il no tav in prima pagina

Mariavittoria Orsolato
www.altrenortizie.org, 1 Marzo 2012

Alberto Perino, storico volto No Tav, l’aveva detto alla manifestazione di sabato: “Stiamo pronti, già da lunedì potrebbero cominciare l’occupazione e l’allargamento illegale del non-cantiere”. E così è stato. All’alba di lunedì mattina i blindati della polizia sono arrivati alla baita Clarea, terreno legittimamente acquistato da alcuni attivisti No Tav, occupandola e sgomberandola in modo illegittimo: l’ordinanza di sgombero non costituisce, infatti, l’inizio dell’attività espropriativa in quanto il Prefetto non ha autorizzato l’occupazione dei terreni privati.

Ciò nonostante, le forze dell’ordine hanno permesso la recinzione dei terreni privati e portato avanti lo sgombero in assenza di una specifica autorizzazione. Per questo e per tutti i motivi che tengono viva la resistenza dei valsusini,

Luca Abbà è salito su un traliccio dell’alta tensione: voleva provare a rallentare le operazioni di sgombero ma, incalzato da un rocciatore della polizia, ha sfiorato uno dei cavi elettrici ed è precipitato a terra da 10 metri. Salvo per miracolo, Luca ha dovuto comunque attendere 50 lunghissimi minuti prima che gli fossero prestati i dovuti soccorsi ed ora è al CTO di Torino in coma farmacologico, coma indotto per le gravissime lesioni e da cui dovrebbe svegliarsi tra sabato e domenica.

Un gesto eclatante quello di Luca, un gesto pericoloso e quasi incosciente, un gesto certamente eroico. Eroico come quel ragazzo cinese che si piazzò davanti al carro armato in piazza Tien An Men. Eroico come quei bonzi buddhisti che tutt’ora si danno fuoco nella lontana Asia. Eppure da noi in molti hanno visto la scalata di Luca come il gesto di un “cretinetti” (Libero), di uno che “se l’è meritato” (Il Giornale), di uno che se l’è andata a cercare. Nessuno che si sia chiesto come mai le forze dell’ordine non abbiano chiamato i vigili del fuoco – istituzione solitamente delegata al recupero di persone in situazione di pericolo come Luca – come mai sotto quel traliccio non ci fosse il materasso di sicurezza che solitamente si posiziona per evitare l’impatto col suolo, come mai nel video girato dalla PS manchi proprio la parte in cui Luca cade.

Le “migliori” firme del giornalismo italiano hanno preferito sindacare sul gesto, dimentichi dell’entusiasmo con cui hanno descritto le azioni dimostrative degli eroi sopraccitati. Perché è evidente che quando si parla del movimento No Tav esistono due pesi e due misure, e l’informazione italiana l’ha dimostrato appieno anche ieri. Ma andiamo per ordine.

A seguito dell’incidente di Luca e delle notizie di sgombero della baita Clarea si sono immediatamente creati presidi di solidarietà in tutte le maggiori città d’Italia mentre nella valle i valsusini sono corsi a bloccare l’A32, l’autostrada che collega Torino a Bardonecchia, il primo comune del nord Italia ad essere sciolto per mafia a causa dell’ingerenza della ‘Ndrangheta negli affari politici locali.

Una mafia che i No Tav hanno sempre combattuto strenuamente, denunciando le aziende compromesse con le ‘ndrine e documentando puntualmente gli interessi illeciti che ruotano attorno al progetto dell’Alta Velocità. Una mafia che pare essersi manifestata anche nella notte di martedì quando, a lato dei blocchi stradali tre auto di altrettanti attivisti No Tav hanno misteriosamente preso fuoco, così come un capannone pieno di legname e pellet situato proprio sulla rotonda dove iniziava il concentramento.

Eppure il dibattito pubblico di ieri sulla protesta No Tav si è concentrato sulla “pecorella” epiteto con cui uno dei ragazzi presenti al blocco dell’A32 si è rivolto ad un’agente antisommossa. Il monologo, ripreso dalle telecamere del Corriere della Sera, ha fatto il giro della rete e delle tv, scatenando l’inevitabile, sguaiatissima e manichea disputa sullo stare o meno dalla parte delle forze dell’ordine. Certo non bisognerà fare di tutta l’erba un fascio (sic!) ma è una dato di fatto che gli attivisti No Tav hanno assaggiato sulla loro pelle la durezza della militarizzazione della Valle.

Una militarizzazione che oltretutto sta a proteggere un cantiere che ancora non c’è, perché alla Maddalena – come hanno potuto constatare anche alcuni rappresentati del Parlamento Europeo – non c’è altro che una grossa e deserta zona recintata. Ma tant’è: l’agente si è beccato un encomio dall’Alto Comando dell’Arma e il ragazzo, durante le identificazioni di ieri, si è invece beccato una bella raffica di pugni dai colleghi della “pecorella”, come testimoniano le foto su Twitter.

Alla luce dei fatti, il giornalismo italiano pare aver dimenticato i fondamentali del mestiere, fondamentali che partono dalla parola e dal suo significato. A leggere i titoli e le argomentazioni delle cronache dei giorni scorsi ci ritrova di fronte a quello che potrebbe essere definito uno stupro della semantica, con titoli che danno dello stupido ad uno che si oppone in modo non violento alla polizia e del violento a uno che ha solamente parlato, peraltro a viso aperto, con uno che in Valsusa ha picchiato e sparato.

Magari non lui personalmente ma uno vestito e bardato come lui, con la sua stessa divisa. Ma purtroppo, dal momento che non è possibile identificare gli agenti, non ci è dato sapere. E il monologo dell’attivista No Tav era incentrato proprio su questo, sul fatto che finché le forze dell’ordine agiscono a volto coperto e senza segni di riconoscimento, e si coprono l’un l’altro con comportamenti omertosi – come riporta la sentenza definitiva sulle violenze durante lo sgombero del presidio No Tav di Venaus il 5 dicembre 2005 – è impossibile distinguerli.

Questa ed altre motivazioni sono quelle che le redazioni giornalistiche stanno deliberatamente decidendo di ignorare in questi concitati giorni di mobilitazione. E così facendo tradiscono la completezza dell’informazione e quella deontologia professionale che vuole il giornalista a servizio del cittadino. Perché è indubbio che si stia cercando di presentare il movimento No Tav sotto una luce che non gli appartiene e che non è veritiera.

Per gli attivisti No Tav non ci sono compagni buoni e compagni cattivi, come invece afferma insistentemente ogni intervento sia istituzionale che giornalistico, e se i colleghi che si occupano della Valsusa si fossero degnati di chiederlo a qualcuno lo avrebbero certamente scoperto. Ma a questo punto, sulla questione No Tav, è evidente che la stampa italiana ha solo smania di affermare.

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2) Chi ha paura di un cretinetti?

Luisa Martini*
www.megachipdue.info, 1 marzo 2012

Sono sconvolta da varie cose, leggendo le notizie che riguardano la protesta No Tav e le violenze che stanno accadendo. Una però mi sconvolge più delle altre: come viene raccontata dai giornali la vicenda di Luca Abbà. Non ho la televisione, mi limito ai giornali e ai video che girano in rete. Tutti dicono, in sostanza: “Peggio per lui se va a cacciarsi nei guai, quel che è successo è solo colpa sua”. Tutti però se la sbrigano abbastanza in fretta.

Analizziamo un attimo la situazione: è vero, in teoria su quel traliccio non avrebbe dovuto salire. Sia perché è pericoloso sia perché il traliccio si trovava oltre lo sbarramento di polizia che ostruiva il passaggio. Non entro nemmeno nel merito della legittimità
di un esproprio violento, prendo atto della situazione di quel mattino: cordone di polizia, traliccio, Luca svicola e passa, sale.
Fin qui ha fatto qualcosa che non doveva, ma non ha messo in pericolo nessuno, non ha usato la forza contro cose o contro persone, era lucido e tranquillo. Dall’audio della diretta radio che ormai tutti conosciamo dice: ‘Cerchiamo di fargliela trovare lunga in questa maniera qui’. Dunque ha in mente di rallentare le operazioni di esproprio. Non ha in mente di aggredire, danneggiare, offendere nessuno. La sua è una protesta pacifica. Niente di diverso da quelli che si incatenano ai cancelli, salgono sulla gru e ci restano, bevono la propria pipì in televisione. E’ vero, sono tutte cose che non si dovrebbero fare, sono scelte personali. Ok. Ma per tutti costoro, i gionrali hanno fatto un gran baccano e prima di spingerli alla morte sono state intavolate trattative. Con Luca no. E questo è già un primo punto che dovrebbe far riflettere.

Poi c’è la frase che Luca dice alla radio salendo sul traliccio: “Sono riuscito a fargliela sotto il naso anche questa volta”. E’ stata messa da tutti al centro dell’attenzione, come se riassumesse il significato della sua azione: una bravata. Uno sberleffo alla Polizia, un gesto da teppistello da strapazzo. Quando invece è solo il contorno della cronaca, come capisce chiunque analizzi il discorso nel contesto della situazione. Ma mi rendo conto di chiedere troppo a giornalisti che si presentano come professionisti dell’informazione quando invece si comportano piuttosto come contrabbandieri della frase ad effetto da sbattere in prima pagina.

Poi cosa succede? Luca alla radio dice che si avvicinano al traliccio i rocciatori della Polizia. Dichiara: “Sono pronto e disponibile ad appendermi ai fili della corrente se non la smettete”. Nessun giornalista ha sottolineato questa affermazione, che è invece
il nodo della questione. Cosa significa? Prima di tutto significa che non ha raggiunto il traliccio per caso. Non ha improvvisato una fuga, quello era l’obiettivo prestabilito della sua incursione attraverso lo sbarramento di Polizia. E ha scelto il traliccio proprio perché c’era l’alta tensione: perché era abbastanza pericoloso da mettere a rischio la vita, come sporgersi dal cornicione di un grattacielo, o dalla ringhiera di un ponte, minacciando di buttarsi giù. Ha scelto il traliccio dell’alta tensione perché era luogo adatto per una protesta clamorosa. Nessuno ha scritto la cosa più importante: Luca è salito per un’azione dimostrativa disposto a rischiare la vita per quello in cui crede. Consapevole del rischio. Così convinto della sua lotta da giocarsi tutto. Forse oggi il degrado morale è giunto a tal punto qualcuno disposto a rischiare la vita per le proprie convinzioni non è nemmeno concepibile, per cui ai giornalisti questo non viene neanche in mente. O forse a qualcuno fa più comodo sviare l’attenzione, per nascondere la gravità dell’accaduto.

E allora ecco i titoli: “E’ solo un cretinetti”. Hanno scritto che per scappare dalla polizia ha cercato rifugio su un palo. Come un cartone animato ridicolo. Come un deficiente che non sa dove va, preso alla sprovvista dalle conseguenze della propria insensatezza, undecerebrato che non sa cosa sono i fili dell’alta tensione e li tocca per sbaglio (‘inavvertitatmente’ ha scritto la Repubblica). Cercano di farlo passare per un povero stupido che quel giorno avrebbe fatto meglio a lavorare. I siti on line sono pieni di commenti di gente che lo sbeffeggia e lo offende, mentre Luca nemmeno può dire la sua perché è in coma. Questo mi fa veramente orrore come essere umano, prima ancora come cittadina: a che punto siamo arrivati se anche chi protesta pacificamente per i propri diritti viene schiacciato così dall’opinione pubblica?

L’ultima cosa che Luca dice alla radio è: “Adesso devo chiudere perché stanno salendo e devo attrezzarmi per difendermi”. Ora: a me risulta che quando le forze dell’ordine sono sul luogo dove una persona minaccia di togliersi la vita, la prassi non è quella di indurlo a commettere suicidio, ma piuttosto di fare il possibile per scongiurarlo. Ovvero agire e muoversi cautamente, cercare di calmare e persuadere la persona, recuperarla con prudenza. Io non ho visto il video integrale dell’episodio. Mi dicono che è stato trasmesso da La 7 e si vede il rocciatore che insegue Luca sul traliccio, fino ai cavi.
Ma bastano le parole di Luca alla radio: “Devo attrezzarmi per difendermi”: non si ha certo l’impressione di un avvicinamento cauto,
e di sicuro non c’è stato fino a quel momento alcun tentativo di dialogo da parte della Polizia, perché nell’audio non si sente. Io mi
chiedo se questa procedura è regolare. Pare che un agente sul posto abbia ammesso, subito dopo il fatto, che il recupero sul traliccio è stato gestito male. Mi chiedo se non ci sia proprio nulla su cui fare chiarezza in questa vicenda. Certo, di sicuro sarebbe molto più comodo farlo passare per un incidente fortuito, un contatto ‘involontario’ con i fili. Questo risolverebbe molte cose. Ma è la verità? Luca chi è?

I giornali hanno scritto pochissimo di Luca, ma in quel poco era ben in evidenza la parola ‘pregiudicato’ per incidenti al G8 di Genova. Già, il G8 di Genova. Sappiamo, a distanza di anni e di processi, quanto onore si è fatta la Polizia in quell’occasione, pur non essendo fatta da ‘pregiudicati’. Forse i ruoli si stanno invertendo, chissà, o forse sta semplicemente diventando difficile continuare a dividere il mondo in buoni e cattivi, come i giornali cercano di fare in questa vicenda. Io credo che Luca, come chiunque di noi, possa essere descritto solo da chi lo conosce di persona, per esempio da Bruno: “Mi spiega, ogni volta che l’incontro, che è contento perchè in Valsusa la lotta al tav sta facendo crescere una nuova coscienza generale. Si stanno sperimentando altri comportamenti e stili di vita, non di ecologisti e attivisti, ma di mamme, casalinghe, operai e pensionati; si prende coscienza che la vita non può essere solo dettata dall’economia forte delle finanze mondiali e dalle banche, né tantomeno dalla velocità. Non solo di un treno, ma proprio della vita, dove non si sa più cogliere tanti piccoli gesti e scelte quotidiane che nel PIL non vengono conteggiate, ma che per il sentimento umano, non soltanto sono importanti, ma necessarie”. Non sono discorsi da delinquente, e nemmeno da ‘cretinetti’.

Già, la teoria del ‘cretinetti’: perché nessun giornale scarta di un millimetro da questa prospettiva? Questa è un’altra questione curiosa: raramente mi è capitato di vedere i giornali così concordi nell’interpretare un fatto. Forse per l’11 settembre, ma non vorrei
fare paragoni che a qualcuno possono sembrare esagerati. Più semplicemente, perché nessuno ha fatto il ragionamento che ho fatto io? Non è un ragionamento complicato, nemmeno campato per aria. Possibile che nessuno si sia fermato un attimo a pensare? Ho quasi paura della risposta: se nessuno ci ha pensato, stiamo perdendo la capacità di ragionare con la nostra testa e di farci un’opinione indipendente. Se qualcuno ci ha pensato ma ha preferito lasciar perdere, evidentemente quel che sta perdendo è il coraggio di dire ciò che pensa, oppure – al contrario – sta guadagnando qualcosa. Tutte queste ipotetiche risposte sono ugualmente drammatiche. Come è drammatico quel che sta accadendo in Val di Susa.

*Alternativa Piemonte – Torino

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3) Val Susa, l’abisso della democrazia

Marco Revelli
il manifesto, 28 febbraio 2012

La verità su quanto sta accadendo in Val di Susa, e sul suo significato generale, sta tutta in una quarantina di ore. Nel breve spazio che va dal sabato pomeriggio al lunedì mattina. Sabato, una valle intera – un popolo – molte decine di migliaia di persone, anziani, giovani, donne, bambini, contadini, operai, piccoli imprenditori, commercianti, “popolazione”, riempiono le strade, i campi circostanti, le rotatorie e i borghi, per dire no al Tav. Pacificamente, con volti sorridenti e idee chiare in testa.

Lunedì mattina – come se niente fosse – una colonna di uomini armati marcia, secondo programma, sull’area-simbolo di Clarea, sui terreni di proprietà comune risparmiati dal primo blitz del 27 giugno 2011 e diventati il simbolo della resistenza, per occuparli. Indifferenti a tutto, muovono per spianare la Baita che ha ospitato in questi mesi l’anima della valle, come se con le ruspe potessero cancellare le ragioni di tutti. In mezzo, un uomo che cade da un traliccio, folgorato, e solo per miracolo non perde la vita.

Non servono molti discorsi per cogliere l’intreccio di arroganza, di stupidità, di sordità burocratica e di sostanziale disinteresse per i fondamenti della democrazia che muove un potere insensibile a qualunque argomentazione razionale e a ogni criterio di prudenza. Persino a ogni calcolo di costi e benefici. Incapace di leggere i numeri (anche se composto da fior di professori di economia) come di ascoltare le voci dei territori (anche se sensibilissimo ai sussurri dei mercati globali). Chiuso in un’assolutistica fedeltà ai soli interessi dei forti e ai progetti (insensati) degli apparati tecnocratici, a tal punto da non soprassedere neppure una settimana, neppure un giorno, nell’esecuzione di una decisione con tutta evidenza improvvida.

Ho sempre cercato di resistere alla seduzione delle teorie “catastrofiche” che annunciano l’ “azzeramento della democrazia” di fronte all’onnipotenza delle tecnocrazie trans-nazionali e all’impersonalità dei mercati. Mi sembravano una diagnosi paralizzante. E tuttavia è difficile non cogliere l’evidenza empirica della forbice sempre più larga – un abisso – che si va creando tra le pratiche autoreferenziali e burocraticamente formali delle istituzioni nazionali e continentali (di quella che con drammatica ironia si chiama “politica”) e le domande sempre più esasperate di partecipazione (o anche solo di ascolto) che salgono dai territori. Tra la “democrazia dell’indifferenza” che domina in alto, e la “democrazia della partecipazione” che abita in basso.

Non si tratta solo della pressione repressiva, che d’altra parte in Val di Susa si è fatta soffocante, ai limiti della tollerabilità costituzionale e anche oltre. Si tratta di una cosa più complessa che riguarda il delicato rapporto tra rappresentanti e rappresentati, giunto davvero – per lo meno sul piano nazionale – al punto di rottura, forse irreversibile. Si tratta di quell’organo essenziale in ogni democrazia (e che manca in ogni dittatura) che è l’udito: la capacità di ascoltare le voci della società, dei suoi diversi “pezzi”, e di dar loro il giusto peso, come condizione per mantenere “coeso” un Paese, ed evitare l’esodo delle sue parti vitali.

In assenza di quel canale uditivo, un Paese si “slega”. Se ignorata troppo a lungo nelle sue ragioni vitali, una popolazione esce dal patto civile che determina il grado e la forma della legittimazione. L’immagine della Grecia è esemplare: un popolo, una nazione, una società condannata alla morte civile in nome di dogmi fideistici coltivati e celebrati nel cuore istituzionale d’Europa, sulla base di ricette rivelatesi mortali agli occhi di tutti, tranne che a quelli dei decisori istituzionali. Come esemplare è l’immagine di quei poliziotti-scalatori che alla baita di Clarea, armati di corde scalano, implacabili, il traliccio indifferenti al rischio e alle parole di Luca Abbà, finché la tragedia non si compie.

Se non riempiremo quell’abisso di senso e di silenzio, se non sapremo riportare a terra il luogo della decisione sul destino dei beni di tutti ora evaporata nell’alto dei cieli finanziari e tecnocratici – ricominciando in primo luogo ad “ascoltare” – quelle di Atene e di Chiomonte non saranno le sole tragedie a cui assisteremo.

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4) No Tav: resistenza e speranza

Mariavittoria Orsolato
www.altrenotizie.org, 27 febbraio

Per potersi chiamare No Tav non è necessario essere valsusini e il corteo che sabato ha sfilato da Bussoleno a Susa lo ha dimostrato a pieno. Una manifestazione imponente, forse la più grande mai vista tra quelle meravigliose montagne. Quasi centomila persone strette in un abbraccio simbolico e caldissimo ai 26 arrestati dal mese scorso, caduti sotto la scure del teorema Caselli che vuole dividere il movimento No Tav in buoni e cattivi.

Ci hanno provato anche sabato sera alla stazione di Torino Porta Nuova, dove un gruppo di manifestanti venuto da Milano ha trovato ad aspettarli al binario una delegazione del questore Spartaco Mortola – uno dei protagonisti della macelleria messicana Diaz – in tenuta antisommossa.

In chiaro atteggiamento intimidatorio, gli uomini della questura torinese volevano identificare uno ad uno i partecipanti alla manifestazione (pur non avendone alcun motivo) e, al costituzionale rifiuto dei ragazzi, sono partiti a caricare a freddo arrivando addirittura a lanciare fumogeni dentro i vagoni del treno.

Non è quindi possibile interpretare quanto successo sabato sera a Porta Nuova se non come l’ennesimo assist – gentilmente offerto dalla polizia – per deviare l’attenzione sulle ragioni e la partecipazione della resistenza che da oltre vent’anni contrappone la Val Susa al progetto dell’Alta Velocità e in generale alla negazione dei diritti di cittadinanza.

Perché, è sempre bene ricordarlo, il movimento No Tav è una lotta contro la devastazione del patrimonio naturale, contro lo svilimento della democrazia, contro lo sperpero di soldi pubblici e contro quelle stesse infiltrazioni mafiose che il procuratore Caselli si vanta di combattere da una vita. Ma evidentemente, per le forze dell’ordine e per certa stampa con la bava alla bocca, una manifestazione No Tav senza spargimento di sangue non ha ragione d’essere.

Perciò parliamo d’altro. Parliamo di come questo 25 febbraio abbia rappresentato per tutti soprattutto un momento di speranza, la riprova che, se uniti, esiste una chance contro il baratro incipiente in cui questo paese si sta ficcando. Percorrendo l’interminabile serpentone che ha attraversato il cuore della valle la prima parola che ti saltava alla mente era “solidarietà”. Quella per gli attivisti ingiustamente incarcerati ma anche quella umana, quella che in un presente di privazioni può rappresentare sia un appiglio che uno scudo. Nel partecipatissimo corteo di sabato l’orizzontalità era palpabile, a volte addirittura straniante, se si pensa che c’erano i comitati cattolici e subito dietro gli anarchici del FAI, che c’erano gli autonomi a sostenere gli amministratori delle comunità valligiane e montane.

Perché non è una questione di distinguo politici, fascismo escluso ovviamente. Chi si occupa della TAV sa perfettamente che la lotta valsusina è diventata un simbolo ed un esempio per molti territori e molte realtà antagoniste in giro per l’Italia, dalle mamme antidiscarica agli attivisti anticemento, dagli studenti alla disperata ricerca di un futuro ai moltissimi che vedono nel nuovo corso targato BCE un depauperamento generalizzato e privo di logica. Senza ombra di dubbio quella contro l’Alta Velocità è stata ed è la prima grande battaglia che ha messo a nudo l’assurdità della “crescita” ad ogni costo e i costi sociali ad essa legati.

Fino a qualche anno fa, si trattava di un “noi contro di voi”, i montanari contro la Polizia, anzi contro chi la manda. In seguito è arrivato qualcuno “da fuori”, ed è stato facile dipingerlo come il black block che va in valle a far casino. Oggi, è ormai impossibile far passare decine di migliaia di persone come un esodo di anarcoinsurrezionalisti in gita di piacere. E questo, se da un lato spaventa i nostri governanti, dall’altro ha l’incredibile forza evocativa necessaria a elaborare soluzioni diverse per l’uscita dalla crisi che ci sta stritolando.

Sabato il movimento No Tav ha deciso di contarsi e, dopo aver praticato nei mesi scorsi il conflitto e l’azione diretta, tastare il polso dei suoi sostenitori. E ha prodotto la più grande manifestazione che la valle ricordi, ma anche la più grande mobilitazione politica che questo paese abbia visto in questi anni recenti. Pablo Neruda, in uno dei suoi scritti, affermava: “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle”.

E i No Tav sono riusciti a fare di questo aforisma una splendida realtà, mobilitando un’intera comunità umana, non solo una comunità territoriale. Hanno saputo soprattutto difendere tutti gli arrestati, rivendicando ogni azione e non cedendo al binomio manicheo violenza/nonviolenza.

Perché è pacifico che nel nostro Paese – e la recente sentenza Mills lo dimostra a dovere – troppo spesso la legalità non coincide con la giustizia e i No Tav lo sanno benissimo. Tutti gli arrestati o inquisiti sono parte integrante di questa comunità allargata e tutta la comunità ha gridato che lo scorso 3 di luglio a tagliare le reti e difendersi dai lacrimogeni CS non c’erano solo quei 26 ora in carcere ma le mani di tutti. E sabato erano quasi centomila.

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5) Tav, Mercalli: “L’opera è inutile, le violenze coprono questo fatto”

www.eilmensile.it, 1 marzo 2012

“La linea tra Torino e Lione c’è già, trasporta il 20 percento delle merci, dunque non va apieno carico, e oltretutto il traffico è in calo”. Luca Mercalli, climatologo, presidente della Società metereologica italiana, difende le ragioni dei No Tav e si schiera apertamente contro la nuova tratta tra Italia e Francia. La situazione in Val di Susa, per lui, nasce da “vent’anni di non ascolto, e il governo, tutti i governi in questi anni, non intendono ascoltare le ragioni scientifiche che portano a dire no al Tav. Anzi, adesso si cerca l’escalation per coprire l’inutilità dell’opera, che è pari a quella del ponte di Messina”.

Oggi l’attenzione è rivolta ai blocchi, alle proteste, alle cariche e agli scontri: “E’ solo schiuma -afferma convinto Mercalli -, il punto vero è che autorità e istituzioni centrali non vogliono dialogare ma fanno finta di farlo. Cancellieri dice che il dialogo c’è stato? Non è vero, loro hanno fatto parlare ma non hanno ascoltato affatto”.

“Eravamo in 75.000 a marciare – prosegue il climatologo -, io ero lì in giacca e papillon insieme ai miei colleghi universitari, non andavamo certo in giro con le pietre in tasca. Poi, in una vicenda come questa trovi sempre il facinoroso e il cretino: e servono solo per sviare l’attenzione dal problema vero: l’opera è inutile e si fa solo per motivi economici. Ma buttare venti miliardi ora è da pazzi”.

Come se ne esce? Mercalli sostiene che esista un solo modo “decente: fermare i giochi e convocare gli scienziati a palazzo Chigi. Monti ascolti le ragioni delle due parti, basate su dati non su emozioni o dogmi, e decisa solo dopo. Tanto la montagna è lì, non si muove: che fretta c’è?”.

Mercalli ne ha per tutti, anche sul fatto che in Francia non si sono registrate proteste No Tav: “Anche qui menzogne – spiega -, i francesi non hanno costruito niente finora: solo tre cunicoli esplorativi, ora tappati. E poi andate ad osservare i giornali francesi: non dicono una parola sulle proteste, se ci fossero davvero interessati e preoccupati gli articoli sarebbero decine. Se invece la Francia sentisse di subire un danno dallo stop ai lavori in Italia manderebbe la portaerei De Gaulle a bombardarci”.

Le ragioni scientifiche che dicono no al Treno Alta Velocità “sono state recentemente scritte in una lettera firmata da 360 tra scienziati e ricercatori, tra cui chi parla, e inviata a Monti. Poi, se si dimostra che la linea Tav è davvero utile e il gioco vale la candela, e non invece solo una nuova piramide di Cheope, io sarò il primo a riconoscerlo. E andrò anche all’inaugurazione”.

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(27 febbraio)

“Da 21 anni, le autorità si rifiutano di affrontare il problema fondamentale, ovvero l’effettiva valutazione della necessità dell’opera data per strategica a priori, e questo non fa che esacerbare il conflitto. Ma non c’è solo la protesta di piazza, comunità montana e sindaci della Valsusa le hanno provate tutte e, di fronte al muro di gomma, c’è molta frustrazione”

Io sono uno ricercatore e non mi piacciono le prese di posizione ideologiche. Se mi dimostrassero che la Tav Torino-Lione serve, con dati oggettivi, la accetterei. Facciamo l’esempio di un acquedotto: bisogna scavare per portare acqua alla gente, e allora ben venga. Infatti è in costruzione l’acquedotto di valle da Bardonecchia a Torino, e nessuno ha fatto opposizione. Ma qui una ferrovia internazionale c’è già, il Tgv che ti porta da Torino a Parigi in 5 ore e mezza c’è già, le merci possono viaggiare sulla ferrovia esistente. Il modello che ti propongono è completamente immaginario, basato sull’idea che da qui al 2035 un’enorme quantità di merci viaggerà su quella direttrice e ciò in un’epoca di contrazione piuttosto che di espansione economica. Inoltre sul piano energetico e ambientale quel progetto non sta in piedi, consuma più energia costruirlo di quanta promette di farne risparmiare in esercizio.

Imporlo senza discutere è una violazione della democrazia, è come se qualcuno mi entrasse in casa e mi dicesse che deve tirarmi giù un muro. Perché? Perché è stato deciso, punto. Ma io gli dimostro che quel muro non serve abbatterlo, perchè c’è già un’altra porta. Fa niente, è stato deciso e basta.

Adesso c’è una nuova petizione firmata da centinaia di docenti di atenei italiani e inoltrata al governo Monti. Muro di gomma, rifiutano il confronto. L’atteggiamento è: “Siete liberi di protestare, ma noi andiamo avanti”.

C’è poi un altro problema: io, come cittadino di un comune della Valsusa, non posso tollerare di essere presentato come abitante di una valle definita “habitat neoterrorista” semplicemente perché qui si vuole ridiscutere di questo problema, che è poi una questione nazionale, sull’uso del pubblico denaro e sulla visione di futuro. Esiste già un osservatorio sulla Tav, ma si occupa di come fare la Tav, non discute “se” farla. E quindi siamo da capo.

Ci vuole un arbitro imparziale. A Che tempo che fa, ho già proposto che questa figura super partes fosse il procuratore Caselli.

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6) La politica e i No Tav: paura della democrazia

Angelo d’Orsi
www.micromega.net

Il silenzio della politica, la politica ha taciuto, il disinteresse della politica… e via seguitando: è tutto un coro uniforme, nella stampa mainstream (ossia quasi tutta), a proposito della Val Susa, e degli ultimissimi eventi, tra la gigantesca, pacifica e per così dire sorridente manifestazione di sabato 25 nella Valle, gli scontri susseguenti alla stazione ferroviaria di Porta Nuova a Torino (a occhio mi è parsa una sorta di imboscata), e il tragico incidente che ha portato quasi in fin di vita Luca Abbà. Ma anche, vorrei ricordare, le stupide contestazioni – da parte di alcune frange del movimento No Tav – a Gian Carlo Caselli, e i tentativi di impedire la presentazione di un suo libro. Proprio da lui vorrei cominciare (rispetto alla cui decisione di emettere mandati di cattura ai danni di alcuni militanti ho già espresso qui le mie perplessità, pur sottolineando i suoi meriti incancellabili di difensore della indipendenza della Magistratura e della dignità della Giustizia), da un suo commento alla notizia dell’incidente al traliccio: nessuna causa, ha detto Caselli, vale una vita umana. Ne è proprio sicuro?

Non parliamo degli articoli indecenti apparsi su fogli al di sotto di ogni sospetto quali Il Giornale e Libero, che irridono al militante Luca, ovviamente, i quali neppure possono giungere a concepire che esistano delle cause per le quali si può arrivare a mettere in gioco la propria libertà e addirittura la vita; parliamo invece del senso comune per cui “non vale la pena”, non vale mai la pena. Non vale la pena di battersi per “cause perse” – come è stato scritto, dando per scontato che quel nuovo treno attraverserà, ossia distruggerà la Valle –, non vale la pena di lottare contro decisioni assunte dal Parlamento (e perché mai, non si dovrebbe?), o peggio “ratificate” da trattati internazionali. Il Patto d’Acciaio tra Hitler e Mussolini non era forse un trattato internazionale? Era giusto? Ha portato bene al nostro Paese?

Se si segue la logica delle decisioni prese a livello istituzionale si accetta l’idea che ai popoli non resti che subire: piegare la testa sotto il peso di uno Stato che dovrebbe esercitare “un dominio fermo” su di essi, per citare il solito Botero, nella sua Ragion di Stato: ma eravamo nel 1589! Due secoli dopo ci fu la Rivoluzione della Bastiglia. Ed entrammo nella modernità. In mezzo quanta acqua, e quanto sangue, sono scorsi sotto i ponti non solo della Senna, ma anche della Neva, del Po e così via. Si sono combattute lotte secolari per restituire ai popoli una sovranità non solo apparente e formale, che non si limiti alla compilazione di una scheda elettorale. Sono decenni che parliamo di “partecipazione”, di “potere dal basso”, di “democrazia autentica”, eccetera. La battaglia contro il Treno ad Alta capacità (più che alta velocità, ma bisognerebbe parlare sempre piuttosto di “alta voracità” di gruppi finanziari e imprenditoriali, nonché delle cosche malavitose interessate) si inserisce precisamente in questo ambito.

Si tratta di una battaglia per restituire ai cittadini un ruolo pieno e attivo. La politica è partecipazione alle decisioni comuni, e questo non può avvenire soltanto in quei due minuti in cui tracciamo una croce su un simbolo o su un nome nel segreto dell’urna. La politica è presenza in tutti i luoghi di aggregazione, è dire la propria idea, anche quando appare contraria a quelle maggioritarie, o che tali i media vogliono presentare, bombardandoci con messaggi menzogneri o inesatti. La politica non può essere confinata nelle aule parlamentari, né nelle istituzioni locali; la politica è bisogno, diritto e, vorrei dire, dovere, di prendere parte alla vita della città, contribuendo alle scelte più utili alla collettività.

E la scelta del Tav non è utile, anzi è dannosa, come dimostrano tutti gli studi seri di esperti indipendenti, è dannosa sul piano economico, ambientale e paesaggistico: dannosa per tutti, tranne che per quei pochi che vi lucreranno. Un ritornello, ripetuto ossessivamente, e che nelle ultime 72 ore è diventato un coro (non per la numerosità di chi lo canta, ma per la sua rumorosità mediatica) che si sia “ormai” deciso – “decisione irreversibile” ripetono i Fassino e i Cota, “opera strategica”, rincalzano i Passera e via cantando… – , viene usato come una prova della bontà dell’opera, della sua necessità, della sua utilità. Ma quando si invitano i pro-Tav a discutere con gli esperti, si sottraggono, affermando abbassando gli occhi: “Abbiamo discusso abbastanza”. Vedi le dichiarazioni in questo senso, reiterate, di alcuni dirigenti del Pd a livello locale e nazionale.

Discutere, ho detto, e ripeto. E non si discute con i bastoni. Ma neppure usando i manganelli, troppo spesso a sproposito. Anzi, l’aggressività delle forze dell’ordine (viene voglia di mettere qualche punto interrogativo) verso gli oppositori del Tav, pare inusitata e piuttosto inquietante. Come si spiega? Forse, direi, col dato politico: il Pd è favorevole all’opera, e considera, non diversamente dallo schieramento di centrodestra, chi è contrario un soggetto residuale, patetico, da metter in condizione di non nuocere. E davanti all’unanimismo (o quasi) delle forze politiche in Parlamento, si può tranquillamente passare alle maniere forti. Ma, allora, perché non si interroga la cittadinanza? Lasciando che tutti spieghino le proprie ragioni? Perché si ha paura della democrazia?

E la si smetta per favore di dire che la parola “deve tornare alla politica”: anche il movimento No Tav, vastissimo e variegato, fa politica. Anche coloro che scendono in piazza, che marciano sulle strade, che salgono sui tetti o sui tralicci, coloro che cercano, in ogni modo, mettendosi in gioco personalmente, di fare controinformazione rispetto alla propaganda dei media addomesticati o comprati, fanno politica. E vanno rispettati. Occorre dar loro la possibilità di farsi ascoltare, capire, e magari far vedere che al di là dei voti di parlamenti screditati e corrotti, essi sono i più autentici rappresentanti della “volontà popolare”. E la loro battaglia – ripeto un concetto che ho espresso più volte – non è localistica, o particolaristica: essi stanno difendendo alcuni primari “beni comuni” e hanno diritto alla solidarietà attiva di quanti (credo fermamente si tratti della maggioranza del Paese) abbia a cuore quei beni.

Perciò, sperando Luca sopravviva e possa riprendere il suo ruolo nella lotta, questa è una buona causa per la quale combattere. E Luca e i tanti suoi compagni e compagne, di ogni ceto ed età, che gli sono accanto, con alto rischio personale, come si è potuto, purtroppo, constatare, stanno lottando anche per quegli italiani e quelle italiane che i cortei e le lotte li seguono alla tv e magari cambiano canale infastiditi