La sfida ai saperi, la sfida dei saperi

Piero Bevilacqua
www.megachipdue.info

Sabato 31 marzo 2012, alle ore 10,30 nell’Aula I della Facoltà di Lettere dell’Università di Roma “La Sapienza”, si terranno gli Stati generali dell’Università, un’assemblea nazionale sui problemi dell’istruzione superiore e più in generale della formazione in Italia. Punto di partenza dell’iniziativa è l’appello l’Università che vogliamo, lanciato da Piero Bevilacqua e Angelo d’Orsi, pubblicato su “il manifesto” del 22 gennaio 2012 e su “Micromega online” e sottoscritto da oltre 750 docenti e personale incardinato, oltre a 150 non inquadrati. Ad essa prenderanno parte docenti delle varie Facoltà di tutta Italia, presidi, ricercatori, dottorandi, personale amministrativo, insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, istituzioni culturali, editori. In questa occasione intendiamo dar voce a chi, in tutti questi anni di riforme imposte dall’alto, non è mai stato ascoltato, a chi lavora nella scuola e nell’Università, a chi vive problemi crescenti è non ha né luoghi né occasioni per renderli oggetto di pubblico dibattito. Quella che segue è la relazione introduttiva ai lavori che terrà Piero Bevilacqua.

Crediamo che per comprendere quanto è accaduto e sta accadendo oggi all’Università e alla scuola, al mondo della formazione nel suo insieme, dobbiamo uscire fuori dalle aule e dai corridoi, dagli spazi ristretti delle istituzioni in cui ognuno di noi opera. Dobbiamo gettare uno sguardo, ma uno sguardo molto ampio, fuori dal nostro delimitato recinto. E la prima operazione da fare è prendere atto che, certo, ci occupiamo soprattutto dell’Italia, ma non possiamo restare confinati nella provincia italiana. Il problema è mondiale, riguarda tutte le società del nostro tempo. Lo ricordiamo con le parole dell’umanista americana Martha Nussbaum:

 

«Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale. Non mi riferisco alla crisi economica mondiale che è iniziata nel 2008.(…) Mi riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione.

 

Sono in corso radicali cambiamenti riguardo a ciò che le società democratiche insegnano ai loro giovani e su tali cambiamenti non si riflette abbastanza. Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze della altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo.»  (Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino 2011, pp.21-22)

 

Ora, noi crediamo che riusciremo ad afferrare le ragioni prime di questa crisi, a capire i problemi che investono i nostri ordinamenti e i nostri studi, solo affondando bene lo sguardo nelle tendenze profonde del capitalismo attuale. Sol comprendendo bene dove ci trascina il motore che guida la macchina delle società del nostro tempo. Senza tale capacità di analisi, non solo comprendiamo poco di quanto ci accade intorno, restiamo irretiti nell’angusta e moralistica cucina locale dei “colleghi che non capiscono” del “Rettore che sbaglia” et similia. Non solo questo. Rischiamo di trasformarci negli agenti inconsapevoli di un’opera senza precedenti di assoggettamento e di emarginazione dei saperi e delle nostre istituzioni formative.

 

Perché questa analisi? Perché è cambiato qualcosa di profondo nel meccanismo dell’accumulazione capitalistica e nel rapporto tra questa e la società circostante. Studi innumerevoli ci hanno mostrato come il capitalismo degli ultimi decenni ha fagocitato nei propri processi di valorizzazione quasi tutti gli ambiti prima ricadenti sotto il dominio pubblico: l’acqua, la terra, la biodiversità, il patrimonio genetico. Oggi appare alla luce del sole che esso ha gravemente indebolito e talora compromesso gli strumenti tradizionali della democrazia rappresentativa: i sindacati e i partiti. E ormai tiene in scacco non pochi stati sovrani. Non sarebbe considerato per lo meno bislacco chi pensasse che l’Università può restare indenne da tale assedio?

 

Naturalmente qui non c’è spazio per una disamina di come opera tale meccanismo, in cui è diventato netto il dominio del capitale finanziario. Possiamo tuttavia privilegiare almeno un aspetto, che ci serve per cogliere le torsioni economicistiche che il mondo della formazione subisce giorno dopo giorno. Questo aspetto è il rapporto tra scuola, Università e mercato del lavoro. Ora, gli storici sanno bene che in età contemporanea – nell”800 come in gran parte del XX secolo – è sempre esistito un nesso fra mondo degli studi e mercato del lavoro. Alcune Facoltà sono sorte o si sono ampliate per rispondere alla domanda crescente di grandi tecnici provenienti dall’industria in pieno sviluppo. Facoltà come Ingegneria, Chimica, Agraria, Fisica, ecc. talora sono sorte proprio allora come componenti del processo di industrializzazione delle società occidentali. Ma a quel tempo le sfere del mondo produttivo e quelle della formazione e del sapere erano, e non solo formalmente, abbastanza autonome, anche se concorrenti a un medesimo fine. Come ha scritto Zygmunt Bauman «davano l’impressione di tenersi a reciproca distanza» (Modernità liquida, Laterza 2011, p. 54).

 

Vogliamo dire che la ricerca scientifica, anche quando immediatamente più vicina agli interessi materiali della produzione, conservava una sua autonomia, una sfera più o meno ampia di ricerca disinteressata della conoscenza e della scoperta. Allora le classi dirigenti europee e americane dell”800 e di buona parte del ‘900 non erano ossessionate dalla crescita economica. Non guardavano al mondo degli studi come a una leva immediata di accrescimento del PIL, il totem di una nuova epoca di superstizione di massa. Possedevano una visione più equilibrata dello sviluppo economico e non guardavano solo ad esso. Tanto è vero che hanno sostenuto studi umanistici fondamentali, quegli stessi che le classi dirigenti del nostro tempo tendono oggi a mettere nell’angolo, perché considerati vecchi, improduttivi, incapaci di dare alla gioventù sbocchi di lavoro. Sono state le borghesie di quel tempo a far vivere l’epigrafia latina e l’etruscologia, le lingue dell’Oriente antico o la filologia romanza, anche quando i corsi dei loro docenti non erano certo affollati.

 

Oggi sempre meno è così. Oggi, l’Università è chiamata a servire sempre più direttamente i bisogni del mercato del lavoro di un capitalismo dominato dalla cultura del breve termine. Una cultura affamata di ritorni rapidi degli investimenti, com’è nell’intima natura del capitale finanziario, che investe danaro per trasformarlo in altro denaro, senza passare per i tempi lunghi della produzione. La pressione si manifesta in più modi, non solo nell’evidente emarginazione degli studi umanistici considerati poco utili alla crescita. Si tende, ad esempio, ad accorciare i tempi della formazione di un ingegnere, che deve possedere meno cultura scientifica generale e più saperi immediatamente professionalizzanti, così da potere essere più prontamente utilizzabile dalle imprese. In questo modo si hanno più ingegneri, in meno tempo, con meno spesa per la loro formazione. Ma quegli ingegneri, formatisi sulle tecnologie di oggi, privi di una solida base scientifica generale, rischiano tra 10 anni di diventare obsoleti, di essere messi fuori gioco dall’innovazione incessante che investe il mondo produttivo e dei servizi.

 

Ma la pressione si manifesta anche in altro modo. Ad esempio, con la fioritura delle business school. Istituti da cui nascono i nuovi manager coi denti affilati, pronti alla guerra economica e finanziaria che si combatte nell’arena mondiale. Nel 2009 il numero di tali scuole, che nel mondo rilasciavano dei diplomi di business administration, erano stimate a ben 3.685 (G. Corm, Le nouveau gouvernement du monde, Editions La Découverte, 2010, p.132). Tutto questo a prescindere da quanto accade nelle vecchie Facoltà di Economia, dove dominano curricula incentrati su gestione d’impresa, matematica finanziaria, pubblicità e gestione, marketing, modellizzazione e previsione, economia aziendale, ecc. Tutti saperi strumentali finalizzati a scopi professionali immediati. Ma il processo di assoggettamento riguarda anche le Facoltà umanistiche. Rientrano in pieno in questa tendenza le riforme del cosiddetto Tre più Due e l’introduzione dei crediti quali criteri di valutazione della preparazione degli studenti. Altri colleghi si incaricheranno di entrare nel merito di questi singoli aspetti.

 

Ma io vorrei qui almeno velocemente ricordare quale sia la modificazione profonda realizzata dalla diffusione dei crediti nei nostri studi. Non voglio neppure accennare allo squallido spettacolo cui abbiamo assistito in questi ultimi anni, dei nostri ragazzi ridotti a confusi questuanti, smarriti nei corridoi delle nostre Facoltà, alla ricerca dei punti che servivano e servono loro a comporre un percorso di formazione diventato sempre più difficoltoso ed astruso. Quello che è sfuggito e continua a sfuggire a tanti pur bravi e stimabili colleghi è la modificazione radicale che ha subito la cultura, la riflessione critica, la dimensione spirituale del sapere. È ancora lecito usare il termine spirituale? I ragazzi sono stati forzati a considerare i propri studi, le proprie letture, riflessioni, pensieri, come racchiudibili in quantità definite, soggette a misurazione. La cultura è stata ridotta in pezzi, in quantità calcolabili, simili alle merci che escono da un normale flusso produttivo delle nostre manifatture. In questo modo, depotenziata l’intelligenza critica, anche i portatori di culture umanistiche sono plasmati a un pronto uso di carattere aziendale, da inserire utilmente nel mondo dei servizi e dell’amministrazione. E sempre in questa stessa tendenza si iscrive lo sforzo, oggi in atto nelle Università italiane, di organizzare un sistema di valutazione per controllare la produttività scientifica dei docenti, in maniera non dissimile da quanto già avviene, ad esempio, nel Regno Unito. So di essere altamente impopolare su questo punto, su cui interverranno altri colleghi in maniera approfondita. Perciò, benché rapido, cerco di essere il più chiaro possibile.

 

Sono pienamente convinto che chi rivendica l’Università pubblica deve farsi anche carico della trasparenza della sua vita interna. Lo stipendio dei docenti è pagato anche con le tasse della fiscalità generale, cui contribuiscono gli operai, quegli stessi operai che in molti casi non possono neppure mandare i propri figli all’Università. È evidente, dunque, che tutti i docenti debbono dar conto della propria operosità. Ma occorre affidare tale trasparenza a dispositivi agili e molto mediati. Costruire un sistema di controllo affidato a criteri bibliometrici può condurre nel giro di pochi anni a uno scadimento grave della qualità culturale dei nostri studi, perché spingerà tutti ad essere formalmente in regola col numero di “prodotti”. Mentre le ricerche di lunga lena, che richiedono tempo, quelle che è difficile misurare, ma che producono le grandi conoscenze e le grandi svolte culturali, saranno abbandonate. Si rischia, al contrario, di costruire un complicato sistema panottico di controllo, che assorbirà energie e risorse alla ricerca e al rapporto con gli studenti. Come ha ricordato Derek Bok, vecchio docente di Harvard, cercare di adottare il modello aziendale, tentare di misurare il rendimento «è molto più difficile e pericoloso per le università di quanto sia per le imprese commerciali.» (Universities in the Marketplace. The Commercialization of Higher Education, Princeton University Press, 2003, p 30).

 

Va in questa stessa direzione, in Italia, l’introduzione della figura del ricercatore a tempo determinato sulla base dell’art. 24. della cosiddetta riforma Gelmini. Quella norma non solo inserisce la precarietà del lavoro anche nelle istituzioni dell’alta formazione, ma costituisce, con ogni evidenza, la premessa per una nuova pagina di conformismo scientifico, destinata a degradare gravemente la qualità dei nostri studi nel prossimo avvenire. I nuovi ricercatori, infatti, hanno tre anni di tempo per essere riconfermati per un altro biennio, prima di poter partecipare a un concorso. Ma in quel triennio, e nel successivo biennio, quali studi e ricerche intraprenderanno se non quelli che il docente anziano di turno deve convalidare? E quindi chi correrà i rischi di percorsi originali e innovativi? È chiaro, inoltre, che i ricercatori avranno fretta di mostrare la propria “produttività”, di dare ai propri studi una immediata visibilità. E, in una condizione di così evidente precarietà e ricattabilità personale, quali grandi progetti di ricerca di lunga durata avranno mai la forza di intraprendere? Si deve pensare a forme premiali o sanzionatorie per evitare parassitismi insostenibili. Ma bandendo la precarietà di partenza. Non è una questione di poco conto, ma uno snodo drammaticamente rilevante. Facciamo osservare che questa modalità di reclutamento costituisce il meccanismo di avvio alla carriera universitaria, il modo fondativo in cui le figure intellettuali si riprodurranno in Italia nei prossimi anni. Qui – dovrebbe essere ben evidente a tutti – è apertamente previsto e progettato il declino culturale del nostro Paese.

 

Com’è noto, almeno una parte di queste novità che traducono le esigenze del capitalismo in aggiustamenti delle istituzioni formative – provengono dal cosiddetto “processo di Bologna”, avviato nel 1999. Ora, voglio subito dichiarare che anche chi critica radicalmente gli indirizzi di quel processo – come chi scrive – deve riconoscere che esso conteneva un progetto dotato di una sua dignità e di una sua logica. Quel programma, nel momento in cui si formava l’Unione Europea, doveva costituire un asse fondamentale di tutto il disegno: fare della formazione scolastica e universitaria la leva per dare all’economia sociale di mercato dell’Europa una superiore forza competitiva, soprattutto rispetto agli USA. Non a caso, la cosiddetta strategia di Lisbona, varata nel 2000, prevedeva che ciascuno stato dell’Unione impiegasse il 3% del proprio PIL alla ricerca per lo sviluppo. Le intenzioni erano lodevoli, ma avevano in sé tutte le contraddizioni e le premesse fondamentali per fallire. Non solo perché gli investimenti previsti non ci sono stati, e in Italia, come è noto, sono stati meno che altrove. Non solo per i mezzi impiegati, che tendevano e tendono – come nel caso dei crediti e del Tre più Due – a subordinare gli ordinamenti degli studi a imperativi culturali di breve termine, tipici del capitalismo con cui si voleva competere. Ma soprattutto per ragioni più sostanziali, che hanno a che fare ancora una volta con i caratteri del capitalismo del nostro tempo e con la specifica situazione storica che ci troviamo a vivere.

 

Ricordo che negli anni ’90 l’analisi sociale, tanto in Europa che negli USA, è stata abbagliata, in certi casi accecata, da un formidabile miraggio: la nascita di una nuova società, la “società della conoscenza”. Internet e i progressi continui dell’informatica avevano fatto pensare a una nuova era dello sviluppo, nella quale addirittura sarebbero scomparsi i cicli economici e che soprattutto avrebbero offerto milioni di nuovi posti di lavoro di elevata qualità culturale. Era con questa magnifica costruzione ideologica che l’Europa doveva misurarsi, per essere almeno alla pari con le terre dove l’Eldorado era stato scoperto. Com’è noto, quella luminosa prospettiva è naufragata rovinosamente. Dopo gli anni ’90 il motore economico si è imballato del tutto e poi è venuto il tracollo in cui a tutt’oggi annaspiamo.

 

Credo che, pur nella brevità di queste note, sia importante cercare di capire il perché di un tale fallimento. Innanzi tutto occorre dire che c’erano molte premesse infondate nel mito della società della conoscenza. Essa non poteva certo sostituire le manifatture. È vero che oggi i cittadini del mondo consumano molti più servizi, saperi, informazioni, cultura, intrattenimento di un tempo. Ma essi continuano a mangiare, a usare attrezzi, comprare oggetti, a viaggiare, a vestirsi. Essi cioè hanno bisogno di una industria manifatturiera. Industria che peraltro ha visto diminuire i propri addetti, sia per le varie ondate di ristrutturazioni, che per le delocalizzazioni sempre più ampie dell’apparato produttivo americano e in generale del “Primo mondo”. Com’è stato osservato da molti analisti, la crescita dell’occupazione in USA, nei “magnifici anni Novanta” è stata prevalentemente femminile ed ha riguardato i servizi non qualificati: imprese di pulizia, ristorazione, trasporti. È nato effettivamente un nuovo strato di figure lavorative ad alta qualificazione, grazie soprattutto all’informatica, alla biotecnologia e alla finanza. Si tratta di uno strato certo significativo, ma ristretto che si è formato accanto ai lavori tradizionali.

 

Il modello di sviluppo americano fondato sull’alta tecnologia era un paravento ideologico. Il processo di accumulazione in realtà si è fondato e continua a fondarsi, per un verso, certo, sulla ricerca e invenzione di nuovi prodotti d’avanguardia, ma soprattutto su una condizione storica di straordinario vantaggio politico del capitalismo sulla classe operaia. Questo vantaggio è costituito dall’immenso serbatoio di forza lavoro a buon mercato che si è venuto formando in Cina, Vietnam, India, Messico, ecc. Oltre, naturalmente, alla possibilità di esercitare un decisivo potere di ricatto sugli operai del Paese d’origine. Il capitalismo americano investe certamente ingenti somme nella ricerca e nell’innovazione, ma fonda il suo processo di accumulazione sui salari da fame e la mancanza di tutela dei lavoratori del Sud e dell’Est del mondo, e al tempo stesso sui bassi salari e l’intensità di lavoro degli operai americani. Vi ricordo che la produzione dell’iPad, il gioiello della Apple, il simbolo più smagliante della società dell’informazione, è costruito oggi negli stabilimenti della Foxcom Technology, a Shenzen, in Cina. Qui dal 2010 18 giovani si sono uccisi per l’insostenibilità dei ritmi di lavoro, oltre che per i miseri salari (si veda il servizio del Manifesto del 14 Marzo 2012). Dunque è con questo modello di accumulazione che il capitalismo europeo doveva competere. Un modello nel quale lo standard più basso di remunerazione del lavoro trascina verso il basso l’intera competizione intercapitalistica mondiale. Un modello, lo stesso che sta adottato gran parte dell’Europa, che ha riportato la durata del lavoro operaio in USA a livelli ottocenteschi, ha intensificato i ritmi lavorativi, ha tenuto bassi i salari, ha emarginato e impoverito la middle class, spingendo le famiglie a indebitarsi e a gonfiare la gigantesca bolla immobiliare da cui è nata la crisi del 2008.

 

Non vi appaia, questa rapida riflessione sul capitalismo americano, una divagazione. Serve a mostrare un passaggio storico evidente. Perfino il Paese che più ha investito in cultura, ricerca e formazione, ma che ha perseguito un modello di accumulazione affidato alla libertà dei mercati, ha fallito. Quel modello ha creato una società devastata dalla disuguaglianza, dove le nuove generazioni non hanno più la speranza di avere una qualità di vita pari a quella dei genitori, e ha generato la più grave crisi mondiale degli ultimi 80 anni. Nel frattempo, migliaia di giovani che avevano “investito” nella propria formazione sono oberati di debiti con le banche.

 

Tale presa d’atto ci spinge a porci la domanda: è questo il modello che dobbiamo seguire? Le nostre Università devono piegarsi alle esigenze del mercato del lavoro così come le forze produttive dominanti lo vengono modellando ? Il mondo della formazione e degli studi deve essere al traino di queste tendenze? Non si dica che l’ Europa ha intrapreso una strada diversa dagli USA. Se mai l’aveva intrapresa, essa è scomparsa ormai alla vista. Non ha affermato il presidente della BCE, Mario Draghi, che il welfare europeo è ormai «superato»? (Corriere della Sera Economia del 23.2.2012). Non ha dichiarato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che occorre «che si lavori di più, in più e più a lungo»? (La Stampa, del 7.3.2012). Noi aspettiamo con ansia che venga ripristinato il lavoro notturno delle donne e dei fanciulli, così che il nostro avanzare “verso il futuro”, come dicono i riformatori, vale a dire verso l”800 della prima rivoluzione industriale, sia completo.

 

Ora, al di là della cronaca avvilente degli ultimi tempi, è evidente che il capitalismo attuale e le classi dirigenti europee, in forme diverse – forme che dipendono anche dalle tradizioni e dalla capacità di resistenza delle istituzioni formative nei diversi Paesi – hanno lanciato una sfida all’Università e alla scuola. Vogliono modellare queste istituzioni ai bisogni bulimici della crescita. Non lasciamoci ingannare dalle apparenze. Le scelte che sono state fatte in Italia sono univoche. Guardiamo alla scuola pubblica. Ricordiamo che essa è il luogo dove si attenuano le laceranti divisioni di classe presenti nella società, dove si creano le pari opportunità dei nostri giovani. Come si fa a parlare di merito all’Università, se i ragazzi che vi accedono sono già selezionati da una scuola classista, se le possibilità della gara sono compromesse ex ante dalle gravi disparità di partenza?

 

Ebbene, l’ultimo governo Berlusconi, come è noto, ha inferto al nostro sistema formativo colpi micidiali. Le nostre scuole mancano spesso delle risorse minime per la gestione quotidiana. E noi non vediamo alcun segno di inversione di rotta da parte dell’attuale Governo. Il ministro Profumo va alla ricerca di visibilità con le sue trovate pubblicitarie. Deve smetterla di inventare diversivi: deve innanzi tutto ridare alla scuola pubblica le risorse che le sono state sottratte dal più indegno governo dell’Italia repubblicana.

 

Non lasciamoci ingannare. Si fa un gran parlare di eccellenza nella ricerca e negli studi, di mettere al primo posto ricerca di alta qualità. Occorre andare a vedere che cosa c’è dietro alle parole. In Italia abbondiamo di migliaia di giovani “eccellenti” in tutte le discipline. Hanno conseguito dottorati, master, Ph.d, effettuato stage, ma non trovano lavoro, vagano tra un’occupazione precaria e l’altra. O se ne vanno all’estero. In realtà, il richiamo retorico all’eccellenza nasconde una ideologia ben precisa, sempre la stessa e anche una mutata condizione storica. Essa serve a svalutare i normali studi universitari e a promettere lavoro qualificato solo a pochi, a coloro i quali più direttamente potranno contribuire alla crescita, vale a dire al processo di valorizzazione del capitale.

 

Siamo di fronte a una vera e propria “eugenetica” intellettuale: si vogliono pochi quadri di elevata capacità “produttiva”. Per il resto non c’è posto. Il resto è massa damnata, forza lavoro intellettuale in formazione parcheggiata nelle Università per mascherare una insostenibile disoccupazione di massa. Perché la grande verità taciuta è la seguente: questo modello di accumulazione capitalistica non riesce a utilizzare che una minima parte della grande massa di personale intellettuale che esso stesso genera incessantemente. Offro un dato alla vostra riflessione. Riguarda gli USA, che come al solito anticipano l’avvenire. L’Ufficio statistico del Lavoro di quel Paese, che esamina le richieste del mercato del lavoro da qui al 2018, prevede in ordine di importanza, tra i posti più richiesti dal mercato, quello di cassiere, commesso, cameriere, consulente di clientela, infermiere, preparatore alimentare, impiegato d’ufficio. Nei prossimi anni, in quel Paese, solo un impiego su quattro richiederà la laurea .(J.Marsh, La scuola non basta, Le Monde Diplomatique, gennaio 2012).

 

E allora, come rispondiamo a tale sfida? Io credo che in Italia, come altrove, abbiamo ancora la possibilità di invertire la rotta, di lanciare noi la sfida dei saperi all’attuale modello fallimentare di accumulazione capitalistica. Vi ricordo innanzi tutto alcune ragioni fondamentali di questa sfida: il paradosso colossale su cui stiamo seduti. Viviamo nelle società più ricche che mai siano apparse nella storia umana e queste sono dominate da un’unica ossessione: diventare sempre più ricche. Come sapete, è questa la “crescita” che quotidianamente ci chiedono di adorare. Anche se essa asservisce il lavoro, distrugge le relazioni sociali, produce competizione cannibalistica tra le persone, crea disuguaglianze e crescente infelicità sociale. Anche a dispetto del fatto che questa ricchezza – fatta di iperproduzione e iperconsumo – è ormai direttamente proporzionale alla distruzione su larga scala delle sorgenti stesse di ogni ricchezza, presente e futura: le risorse della Terra. Ebbene, di fronte a questa corsa verso il nulla delle attuali classi dominanti, il mondo della scuola e dell’Università ha per lo meno il dovere di tentare di indicare un’altra strada.

 

Il mondo della formazione può costituire un asse strategico di un nuovo progetto di società. E non si tratta di inventare utopie. È solo necessario dare ai saperi che già esistono e che si possono potenziare una nuova curvatura, nuove finalità. Pensiamo per un momento al mondo della produzione industriale. Ma chi si ricorda che l’attuale paradigma produttivo, fondato sulla planned obsolescence, sull’obsolescenza programmata dei prodotti – sul fatto cioè che le merci si devono trasformare rapidamente in rifiuti – ha poco più di un cinquantennio di vita? Qui si apre uno scenario straordinario per il futuro del mondo industriale: una nuova ingegnerizzazione dei processi produttivi che renda riparabili i beni. Ma l’intera sfera delle attività produttive può essere ripensata – e del resto in alcuni casi ciò già avviene – secondo un progetto di riconversione ecologica, che usi i materiali destinati alla produzione in maniera sostenibile e riproduttiva. Un progetto fondato su un nuovo paradigma energetico, che si metta alle spalle quello della rivoluzione industriale, fondato sulle risorse fossili. Quale grande contributo possono dare le nostre discipline scientifiche a tale progetto, se esse vengono pensate come componenti di un modello di società solidale e sostenibile?

 

Quale nuovo slancio possono dare agli studi della nostra gioventù se questi vengono rappresentati come un grande progetto di emancipazione generale, una svolta storica nel nostro rapporto con la natura.?

 

Vi ricordo che già sono all’opera forme avanzate di cooperazione tra le scienze. L’IPCC, il panel intergovernativo che per conto dell’ONU studia il clima è una forma senza precedenti di cooperazione interdisciplinare. Al suo interno sono all’opera chimici, biologi, fisici, climatologi, ecc Si tratta di una esperienza inedita che riflette il grande mutamento di paradigma in atto nelle scienze oggi. Appare sempre più evidente che la natura non è una cava da cui ricavare materiali. Essa ormai ci appare come una rete complessa di relazioni e di equilibri. Le singole discipline, nate per smembrarla e dominarla, appaiono oggi limitate al compito nuovo cui sono chiamate: comprenderla profondamente come “sistema” per proteggerla, per assicurare la sua rigenerazione. Per questo l’ecologia, la scienza delle relazioni fra gli esseri viventi e il loro ambiente, si presenta come il grande collante che fa dialogare le discipline e fornisce alla ricerca nuove e più avanzate finalità.

 

Non rubo tempo alla vostra attenzione soffermandomi sui compiti vecchi e nuovi che possono venire dai saperi umanistici e dalle scienze sociali. Ricordo soltanto che nell’ultimo mezzo secolo noi abbiamo assistito alla più vasta migrazione di popoli della storia umana. Circa 1 miliardo di persone hanno abbandonato i luoghi di nascita e si sono trasferiti altrove. Abbiamo di fronte, dunque, un rimescolamento senza precedenti di etnie, culture, religioni, lingue, psicologie, costumi. Come affrontiamo questa grande sfida? Cosa possono fare le nostre scuole e le nostre Università per fare dell’Occidente un nuovo polo del cosmopolitismo della nostra epoca? Come facciamo dialogare la nostra letteratura, la nostra arte, la nostra musica con con quella dei popoli che ormai vivono con noi? E che cosa può fare l’Italia, terra di mezzo, terra piantata nel Mediterraneo? Risolveremo i problemi con i Centri di identificazione e di espulsione?

 

Io credo che il nostro Paese, non solo per la sua collocazione, ma soprattutto per la sua storia e la sua cultura possa rappresentare il modello mondiale di una svolta degli studi che la faccia finita col misero utilitarismo dominante negli ultimi anni. Il nuovo cosmopolitismo da creare non comporta affatto l’abbandono delle nostre straordinarie tradizioni. Al contrario, dobbiamo al tempo stesso approfondirle e valorizzarle più ampiamente, per metterle in dialogo. Io credo che soprattutto la scuola debba giocare un ruolo fondamentale. Dovremmo tutti porci la domanda: com’è possibile che in un Paese come il nostro si studi così poco o per nulla la storia dell’arte, la musica, il paesaggio, la particolarità dei territori, spesso opere d’arte a cielo aperto? Perché, noi che senza alcun merito ereditiamo dal passato un patrimonio inestimabile, non poniamo alcuna cura nel preparare le nuove generazioni a comprenderlo, amarlo, difenderlo?

 

Addirittura in Italia, alcuni anni fa, è stata lanciata la modernissima parola d’ordine delle tre “I”, Internet, inglese, impresa. Vi ricordate? E che cosa testimonia tale trovata se non uno spaccato di miseria senza precedenti della nostri classi dirigenti? Ebbene, noi potremmo prendere esempio dai vicini francesi, le cui tre I corrispondono a interdisciplinarietà, internazionalità e interistituzionalità. Dove per interistituzionalità si deve intendere il rapporto tra le istituzioni, ma non solo quelle universitarie. C’è un ampio campo di collaborazione da mettere in movimento ed è quello tra Università e scuola. Una collaborazione che per la verità in Italia è attiva da tempo, ne costituisce un aspetto di notevole originalità, ma affidata alle iniziative dei singoli .Penso all’ormai decennale esperienza del Progetto Gutenberg, a Catanzaro, animata dal preside Armando Vitale o alla recente Agorà progettata da Giuseppe Laterza. Ma occorrerebbe rendere più sistematico tale rapporto, che darebbe nuovi compiti alle Università e arricchirebbe costantemente la scuola.

 

Ecco, abbiamo concluso le nostre riflessioni. Ma in finale vogliamo rispondere a una delle critiche che sono state mosse al nostro Appello: quella di voler restaurare la vecchia Università. Potremmo rispondere dicendo che quella Vecchia università, pur con tante pecche e acciacchi, sul piano della qualità e della severità degli studi, era molto più avanzata di oggi. Ma vogliamo invece mettere l’accento sulla novità sostanziale che proponiamo. Noi desideriamo che gli studi scolastici e universitari non rispondano semplicemente a un’idea molto ristretta di utilità: l’utilità economica, quella che ossessiona la mente dei pensatori unici. Non disprezziamo certo l’economia, viviamo grazie a essa. Ma i nostri sistemi formativi devono rispondere a più varie e ampie utilità. Utilità che rispondano ai bisogni molteplici e non indotti, non immediatamente strumentali, del nostro tempo. Crediamo che essi debbano contribuire in maniera fondamentale a costruire una società meno lacerata da disuguaglianze e più solidale, debbano fornire agli uomini un nuovo sguardo sulla natura, devono arricchire di umanità e di interiorità la nostra vita. In una parola devono promuovere, rielaborare e aggiornare la nostra civiltà.

 

*Membro del Comitato scientifico di Alternativa..