Brescia, la strage impunita

Fabrizio Casari
www.altrenotizie.org

Tutti assolti. In spregio alla verità e alla decenza, gli esecutori, i depistatori e gli ispiratori della strage fascista di Brescia del 28 Maggio 1974, costata otto morti e cento feriti, sono stati giudicati non colpevoli dalla Corte d’Assise di Brescia. Se sul piano strettamente processuale la mole di testimonianze, documenti e indizi forniti possono non essere risultati sufficienti a determinare una condanna degli imputati, non c’è alcun dubbio sulla luce storica che il dibattimento ha offerto.

E se inutili si sono rivelate il milione di pagine con cui l’accusa ha chiesto giustizia processuale, non così è stato sotto il profilo della ricostruzione del contesto storico e delle responsabilità dirette e indirette dei protagonisti. Quel milione di pagine, secondo il presidente dell’associazione familiari delle vittime Manlio Milani, «hanno avuto il merito di far luce sulle ragioni dell’impunità e sui meccanismi del depistaggio» che hanno insabbiato le indagini.
Trentotto anni dopo, la bomba esplosa in Piazza della Loggia nel corso di una manifestazione sindacale contro il fascismo, è dunque, per il momento, incasellata nella storia giudiziaria italica come un crimine senza responsabili. Quei morti e quei feriti, solo una parte del tributo di sangue che la sinistra e i sindacati hanno pagato alla strategia della tensione, vengono così anche vilipesi ogni oltre ignominia. I familiari delle vittime di Brescia, per il consueto cinismo peloso imperante, vengono addirittura condannati al pagamento delle spese processuali. La colpa di chiedere verità e giustizia è colpa grave, da risarcire prontamente al muro di gomma.

Mentre quindi le vittime restano orfane di giustizia, gli autori della strage e i depistatori che s’incaricarono di garantirgli le coperture necessarie e di metterli al riparo dalle indagini, hanno dunque incassato quanto gli venne promesso: l’impunità. Fu infatti questa la garanzia principale che venne fornita a quanti, nel loro furore ideologico anticomunista, fecero quello che gli veniva chiesto di fare: la manovalanza criminale con la quale riempire di sangue e di paura il Paese, per farlo atterrire e arretrare. Pur considerando il margine d’iniziativa diretta del terrorismo fascista che insanguinò il paese lungo tutti gli anni ’70, sarebbe infatti limitato assegnare ad un manipolo di nostalgici criminali un livello di minaccia sulla democrazia italiana, che non potevano avere né per spessore strategico né per autonomia operativa.

I fascisti autori della strage di Brescia e di altre come l’Italicus, Piazza Fontana e la strage di Bologna, furono solo gli esecutori materiali di un progetto che ben altro respiro aveva e che da ben altri attori veniva determinato. Lungo gli anni sessanta e settanta erano stati addestrati, finanziati, coperti e sostenuti dai servizi italiani deviati, da quelli spagnoli del regime franchista, da quello dei colonnelli greci e dal Portogallo salazarista con il consenso degli Stati Uniti.

Quelle stragi continue avevano infatti un duplice scopo: fermare la mobilitazione crescente di studenti e lavoratori che contestavano i regimi democristiani e, contemporaneamente, mandare segnali precisi al PCI e ai sindacati sulla disponibilità da parte del potere di ricorrere alle più estreme conseguenze di fronte alla minaccia di essere ridotto a minoranza nelle urne e nelle piazze.

La strategia della tensione che attraversò l’Italia dal 1969 alla metà degli anni ’70, è stata l’aspetto più terribile della vicenda politica italiana. Nata per impedire che le lotte studentesche e operaie potessero produrre una crescente presa di coscienza nel paese e portare alla vittoria elettorale il PCI, si è avvalsa del contributo attivo di neofascisti, servizi segreti deviati ed apparati dello Stato associati nella fedeltà atlantica.
Garantire che quanto uscito dagli accordi di Yalta fosse immutabile; che l’Italia, crocevia fondamentale della relazione tra Europa e mondo arabo, potesse determinare – in ragione della presenza del più grande partito comunista dell’Occidente, di un sindacato radicato nei posti di lavoro e di una sinistra di classe particolarmente presente nelle scuole e nelle università – uno scollamento politico e militare dell’Italia dalla Nato e dagli Usa.

Lo scontro politico tra i blocchi attraversava tutta Europa e, disposto a perdere quanto era inevitabile perdere – i regimi fascisti di Spagna, Portogallo e Grecia, del resto ormai inutili allo scopo e impresentabili politicamente – il Patto Atlantico decise di dimostrare con il fuoco come l’Italia, per il suo ruolo geopolitico di assoluto valore strategico, fosse il punto di non ritorno, il luogo nel quale ogni regola democratica era subordinata in fatto e in diritto al permanere del dominio atlantico. Se nel ’73 in Cile dovettero rimediare con il golpe alla vittoria di Unidad Popular di Salvador Allende, da noi decisero di agire preventivamente.

Per impedire un mutamento sostanziale di rotta dell’Italia e il contagio che in tutta Europa avrebbe prodotto, non sono stati lesinati sforzi, leciti e illeciti. Tentativi di colpi di Stato, finanziamenti enormi ed occulti da oltreoceano alle forze politiche che nascevano per dividere la sinistra (si pensi alla nascita del Psdi e a giornali, sindaca tini e fondazioni) e sostegno ai partiti della destra, bombe nelle piazze e nelle stazioni, omicidi politici e di giornalisti. Fu un patto politico criminale per tenere l’Italia lontano dalla sinistra e la sinistra lontano dal governo dell’Italia. Un giornalista come Ronchey coniò con il termine “Fattore K” il disegno politico e strategico che vedeva tutte le forze politiche italiane legate all’atlantismo impegnate ad impedire, con ogni mezzo, la vittoria della sinistra nelle urne. Ma il blocco politico del sistema andava ben oltre.

L’Italia ha subito quello che era previsto prima nella nascita di Gladio e poi anche nel cosiddetto “Piano di rinascita democratica” della P2 diretta formalmente da Licio Gelli. Un gigantesco piano di dominio politico, economico e militare, sostenuto da un gigantesco apparato di comunicazione, su un paese che non poteva aspirare a un’alternativa di regime e nemmeno ad una semplice alternanza del quadro politico.

Sull’altare dell’atlantismo indiscutibile, inoppugnabile, inevitabile, generazioni di italiani sono state così assediate dal clima di terrore, dalla paura di andare avanti nel processo di trasformazione del paese, dall’impossibilità di considerare le conquiste sociali come base per la successiva trasformazione politica del quadro istituzionale.

Alcuni dei commentatori parlano della sentenza sulla strage di Brescia come di un ennesimo scheletro nell’armadio della nostra democrazia, di un’ulteriore pedina del puzzle che compone la pagina nera dei misteri italiani. Ma a guardar bene di misterioso c’è poco: i dettagli operativi, la manovalanza e le coperture ai più alti livelli che la stagione dello stragismo ha imposto all’Italia hanno comunque matrice, scopi e responsabilità chiare.
Un’Opa criminale sulla democrazia italiana nota alla ricostruzione storico-politica, ma che avrebbe bisogno dell’apertura dei dossier secretati dallo Stato per poter essere ricondotta alla formulazione di responsabilità dirette, con sigle, nomi e cognomi.

Mentre vengono fuori al cinema strampalate ipotesi su Piazza Fontana, che altro non diventano se non l’ultimo capitolo dell’infinito libro sul depistaggio e la disinformazione sulla strategia della tensione, la verità storica continua quindi a battersi contro quella processuale. Il sistema assolve se stesso per quello che fu in previsione di ciò che potrebbe tornare ad essere. E non c’è bisogno di conferme togate: la notte della democrazia brilla di luce, a volerla vedere.

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Strage di Brescia, nessun colpevole. Ma la strategia della tensione è finita?

Maria Mantello
www.micromega.net

A Brescia in piazza della Loggia il 28 maggio 1974 si svolgeva una manifestazione sindacale antifascista. Per sostenere il processo di emancipazione del Paese che la Strategia della tensione con le sue bombe cercava di bloccare.

C’era stata Piazza Fontana il 12 dicembre del 1969, a Milano, nella sede della Banca dell’Agricoltura, per far credere che fosse la sinistra a colpire il capitale anche nella piccola imprenditoria che a quella banca si rivolgeva. Sedici morti e 88 feriti. A seguire la morte di Pinelli in questura quattro giorni dopo e l’arresto di Valpreda…

C’era stato il 22 luglio 1970 di Gioia Tauro col deragliamento della Freccia del Sud. Ancora una bomba seminava terrore colpendo un treno di lavoratori: 6 morti e oltre 60 feriti. Pochi giorni prima era iniziata a Reggio Calabria la rivolta campanilista dove in inquietanti intrecci tra mafia e fascismo si cavalcava il disagio meridionale al grido di “Boia chi molla”.

Il messaggio era chiaro: state lontani da qui perché è “cosa nostra”. Ma si preferì accreditare il deragliamento per incidente, anche dopo una illuminante perizia del 23 giugno 1973, che chiarisce come «la deformazione della piastra prelevata in corrispondenza della rotaia con suola danneggiata è da attribuirsi sicuramente all’azione dell’esplosione e non all’urto del materiale rotabile».
Se per piazza Fontana si era individuato negli anarchici Pinelli e Valpreda (innocenti) il facile bersaglio, per Gioia Tauro sono i ferrovieri, più evocativi di “rossi pericolosi” per l’immaginario perbenista. E quattro ferrovieri innocenti vengono incriminati…

Intanto però, anche la pista nera qualcuno cominciava coraggiosamente a batterla. Gli strateghi si sentono in pericolo, e mandano il loro segnale di morte ai brigadieri che indagano. Ed è la strage di Peteano: il 31 maggio 1972 tre carabinieri sono fatti saltare in aria da un’altra bomba opportunamente posta nel bagagliaio di un’automobile che avrebbero dovuto perquisire. Un avviso chiaro, come dichiarerà il pentito neofascista Vinciguerra: lasciate stare i neri! Le indagini della Magistratura confermeranno, visto che nel 1987 due alti ufficiali dei carabinieri sono condannati a dieci anni e mezzo di reclusione per deviazione e depistaggio su questa strage. Dietro di loro un altro generale, Giovambattista Palumbo, che però non potrà testimoniare, perché deceduto. “Stragi di Stato”?

L’Italia civile e democratica sa e vuole giustizia. Le manifestazioni antifasciste e in difesa della Costituzione repubblicana si susseguono: per la libertà, per i diritti, per la democrazia.
A Brescia in quel piovoso martedì del 28 maggio 1974 sono i sindacati a chiamare a raccolta nella splendida Piazza della Loggia. Ma le mani assassine della Strategia della tensione stanno in agguato. Un’altra bomba, questa volta nascosta dentro un cestino di rifiuti lascia a terra 104 feriti e 8 morti: Livia Bottardi (32 anni) – Giulietta Banzi Basoli (34 anni) – Clementina Calzari (31 anni) – Alberto Trebeschi (37 anni) – Luigi Pinto (25 anni) – Euplo Natali (69 anni) – Bartolomeo Talenti (56 anni) – Vittorio Zambarda (60 anni).

Stranamente i pompieri azionano le loro pompe. Così oltre al sangue che potrebbe impressionare i passanti (questa è una delle dichiarazioni di getto della polizia a chi chiedeva di far chiudere gli idranti), anche i resti dell’ordigno sono spazzati via.
Altra stranezza: ci sono pochissimi carabinieri in piazza. Il loro capitano, Francesco Delfino, è in Sardegna, e quasi tutto il suo reparto è stato inviato a un corso di formazione.
Delfino ha nostalgie fasciste e le mani in pasta con i servizi segreti. Il suo nome che ricorre in molte inchiesta sulle stragi, oltre a quella di Brescia, è rimbalzato anche sulle pagine di cronaca nera in occasione del rapimento di Giuseppe Soffiantini (1997). Delfino è ormai generale (ha fatto carriera) e viene accusato di aver estorto alla famiglia del sequestrato, per favorirne il rilascio, quasi un miliardo di lire. Per questo reato nel 2001 è stato condannato definitivamente in Cassazione a 3 anni e 4 mesi di carcere.

Ma dalla strage di Brescia, grazie alla recente sentenza del 14 aprile 2012 della Corte d’Appello d’Assise, Delfino esce assolto. E con lui gli altri imputati che la trama nera lega in quegli anni e i cui nomi, come quello di Delfino, ricorrono nelle indagini della Magistratura e negli atti delle Commissioni Parlamentari d’inchiesta.
Carlo Maria Maggi della cellula veneta di Ordine Nuovo.
Delfo Zorzi, anch’egli ordinovista e che oggi fa tranquillamente l’imprenditore a Tokyo. Il suo nome nuovo è Hagen Roi, ha preso la cittadinanza giapponese, che lo ha protetto dal pericolo di estradizione per presentarsi ai processi in Italia.
Maurizio Tramonte, neofascista e strutturale collaboratore dei Servizi segreti.
Col Generale Delfino, tutti assolti! Per insufficienza di prove!

Già le prove… ma gli stragisti fanno le cose “pulite”, anche per la rete di connivenze e complicità di quegli apparati dello Stato, che si continua ipocritamente a chiamare deviati, come se le persone ai vertici non fossero gli stessi inquietanti personaggi opportunamente selezionati per occupare quei gangli vitali nella pericolosa partita del gioco delle parti tra “Gladiatori” e paraventi di “Stato deviato”.
Tutto noto! Lo sapevamo. Lo sappiamo, come urlava Pasolini nel suo terribile “Io so”.
È Storia, che tutti possono studiare.

Allora è indecente che le stragi continuino a restare una verità nascosta, per gli omissis mai fino in fondo sottratti alla coltre di filo spinato del “segreto di stato”.
Così continuano a restare impuniti gli assassini che sia come manovalanza che come ideologi e funzionari, sono stati i protagonisti di quella Strategia della tensione (continuata negli anni Ottanta e forse oltre ancora) che cercava di bloccare il processo di emancipazione dell’Italia nella svolta progressista laica e libertaria di quei formidabili anni Settanta. Una svolta progressista che si chiama parità, uguaglianza, diritti per le donne, i giovani, i lavoratori.

Una rivoluzione copernicana per la democrazia, che ancora oggi qualcuno ha interesse a demonizzare sferrando un mortale attacco proprio ai diritti conquistati in quegli anni di azione collettiva. E nella resa dei conti chiama a paravento questa volta la crisi. Una crisi che non hanno certo prodotto i cittadini, ma governanti e imprenditori presi dalla sindrome del liberismo selvaggio, e che oggi di fronte al default del neocapitalismo non vogliono affrontare il problema dell’equità sociale per continuare a star seduti sul velluto.

La Strategia della tensione di oggi è allora la bomba ad orologeria del lavoro precario e senza tutele, proposto paradossalmente come panacea per superare la crisi. È lo spauracchio della precarietà, che nella perdita di diritti e dignità, fa accettare ogni condizione di precarietà. La sostanza non cambia, c’è anche chi la chiama ipocritamente “flessibilità”.

Oggi, in nome della crisi, un padronato sempre più arrogante sembra voler far credere con il collaborazionismo di una classe di governo che ne è l’espressione, che gli anni Settanta sono roba vecchia, e che tutto sommato chi faceva saltare in aria i lavoratori che allora si chiamavano compagni come in quel 28 maggio del 1974 a Piazza della Loggia è roba passata. Roba da dimenticare.

E c’è da aspettarsi che prima o poi, come per le stragi nazifasciste, qualcuno dica dei vari Delfino, Zorzi, Maggi… che in fondo sono poveri vecchi da lasciare in pace.