Il futuro fra mercati e Stati-nazione

Zygmunt Bauman
la Repubblica, 8 giugno 2012

Se il dibattito sul modello di una società giusta ha perso gran parte del suo fervore e del suo slancio, è soprattutto per la mancanza di un soggetto credibile in grado di agire con la volontà e la capacità di portare avanti un tale progetto. Tutto nasce dal divorzio sempre più evidente tra il potere – la facoltà di porre in atto un progetto – e la politica – la capacità di decidere che cosa fare o non fare. In conseguenza della globalizzazione, queste due facoltà, congiunte per alcuni secoli nello Stato-nazione, hanno oggi due sedi diverse: per usare i termini di Manuel Castells, “lo spazio dei flussi” e quello “dei luoghi”. Il potere è trasmigrato in buona parte dallo Stato-nazione a uno spazio globale sopranazionale.

Mentre la politica è tuttora locale, relegata entro i confini della sovranità territoriale degli Stati. Siamo di fronte a due tipi di potere: da un lato il primo, libero e fluttuante, al di fuori di ogni guida o supervisione politica, e dall’altro quello degli organismi politici, limitati e legati al territorio, mortificati oltre tutto da un permanente deficit di potere. I primi, i “poteri forti”, hanno, come sospettiamo, le loro buone ragioni per non essere interessati né intenzionati riformare lo statu quo. Mentre i secondi sarebbero incapaci di intraprendere, e meno ancora di portare a buon fine una riforma, per quanto fortemente desiderata.

Nessuno degli organismi politici esistenti, ereditati dal passato e creati in origine al servizio di una società integrata a livello di Stato-nazione, avrebbe la capacità e le risorse necessarie per affrontare un compito di così grande portata e gravità. In molti Paesi, persino in quelli meglio attrezzati, i cittadini sono esposti giorno dopo giorno allo spettacolo poco edificante di governi che guardano ai mercati per ottenere il permesso di fare ciò che vorrebbero. Quando si tratta di negoziare sulla linea di confine tra ciò che è realistico e ciò che non lo è, oggi sono “i mercati” ad aver usurpato (non senza la connivenza, e magari il tacito o esplicito avallo e sostegno di governi inetti e sfortunati) il diritto alla prima e all’ultima parola. Ma il termine “mercati” sussume un coacervo di forze anonime, senza volto né indirizzo, che nessuno mai ha eletto né delegato a richiamarci all’ordine o a impedirci di combinare guai. E che nessuno è in grado di coartare, controllare e guidare.

A livello popolare si sta diffondendo l’impressione, peraltro ben fondata e sempre più condivisa dagli esperti, che oggi tanto i governi quanto i parlamenti eletti siano incapaci di far bene il loro lavoro. E neppure i partiti politici tradizionali sembrano all’altezza: è ben nota infatti la loro tendenza ad accantonare ogni poetica promessa elettorale nel momento stesso in cui i loro leader entrano in carica negli uffici ministeriali, e si trovano a confronto con la prosaica realtà delle forze evanescenti ma preponderanti del mercato e delle borse valori. Da qui la crisi di fiducia, che si approfondisce sempre più. L’era della fiducia nelle istituzioni degli Stati-nazione sta cedendo il passo a un’era di discredito di quelle stesse istituzioni, ormai prive di fiducia in se stesse, e di scetticismo dei cittadini, che non credono più nella capacità d’azione dei governi.

L’Onu, un’istituzione sorta come reazione alla guerra scatenata dall’aggressione di alcuni Stati-nazione sovrani contro la sovranità di altri Stati-nazione, è l’istituzione che più si avvicina all’idea di un organismo politico globale. L’impegno a difendere a oltranza, con le unghie e con i denti, i princìpi del Trattato di Westfalia da cui nacquero gli Stati-nazione è scritto nella Carta delle Nazioni Unite. Il tipo di politica “internazionale” (leggi: inter-statale, inter-governativa, inter-ministeriale) che è tenuta a portare avanti, la sola che l’Onu sia autorizzata e in grado di promuovere e praticare, non può farci fare alcun passo in avanti sulla via di un’autentica politica globale; ma al contrario, costituirebbe un grandissimo ostacolo se mai si decidesse di avanzare su questa strada.

Vediamo ora la situazione dell’euro: l’assurdità di una moneta comune servita/sostenuta da diciassette ministri delle finanze, ciascuno dei quali è peraltro tenuto a rappresentare e difendere i diritti sovrani del proprio Paese. L’euro è condannato ad essere esposto alle vicende ondivaghe delle politiche locali, a loro volta soggette alle pressioni provenienti da due fonti distinte, del tutto eterogenee, non coordinate e quindi assai difficilmente conciliabili (l’elettorato entro i confini nazionali, e le istituzioni sopranazionali europee, troppo spesso condizionate ad agire in maniera contraddittoria): e questa è solo una delle molte manifestazioni di un duplice vincolo, paralizzante come una morsa: da un lato il fantasma del Trattato di Westfalia col suo principio di sovranità degli Stati, dall’altro la realtà della dipendenza a livello globale, o anche solo sopranazionale.

Per dirla in due parole: non abbiamo ancora l’equivalente, l’omologo globale delle istituzioni inventate, progettate e poste in essere dai nostri nonni e bisnonni a livello territoriale di Stato-nazione, per suggellare il matrimonio tra potere e politica: istituzioni nate per servire la coesione e il coordinamento di opinioni e interessi diffusi e garantire una loro adeguata rappresentanza, riflessa in una legislazione vincolante per tutti. Resta solo da chiedersi se questa sfida potrà essere raccolta, se questo compito potrà essere affrontato dalle istituzioni politiche esistenti, create dopo tutto per un livello assai diverso dell’integrazione umana – quello dello Stato nazione – al fine di proteggerlo da ogni possibile intrusione “dall’alto”. Tutto è iniziato – è il caso di ricordarlo – dai poteri monarchici dell’Europa cristiana, in lotta contro la pretesa dei Papi di controllare i loro territori…

Per alcuni secoli, l’assetto così ereditato era in relativa sintonia con le realtà di quel tempo: un tempo in cui potere e politica erano reciprocamente legati a livello degli Stati-nazione nascenti; il tempo della Nationalökonomie (economia nazionale) e della Ragione identificata con la raison d’état.

Oggi tutto questo è cambiato. La nostra interdipendenza è fin d’ora globale, mentre i nostri strumenti di espressione della volontà e di azione collettiva rimangono locali, e si oppongono caparbiamente a ogni estensione, limitazione o interferenza. Il divario tra la portata dell’interdipendenza e la sfera d’azione delle istituzioni responsabili è già un abisso, che si approfondisce e si allarga ogni giorno di più. A mio parere, il superamento di quest’abisso rappresenta la grande sfida, il meta-challenge del nostro tempo. Questa dovrebbe essere la prima preoccupazione per i cittadini del XXI secolo. Se questa sfida verrà raccolta adeguatamente, si potranno affrontare anche le problematiche minori ma ineludibili che ne derivano con la necessaria efficacia e serietà.

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L’irrilevanza europea

Danilo De Biasio
www.eilmensile.it

Comprereste un’auto usata da Dimitris Christofias? Per aiutarvi nella risposta si tratta del Presidente della Repubblica di Cipro. Volete saperne di più? Ok: dal 1° luglio sarà proprio l’isola “spaccata” tra turchi e greci a ricoprire l’incarico di presidente di turno dell’Ue. E anche se la carica è sostanzialmente poco più che convenzionale fa un certo effetto sapere che questo Vecchio Continente malandato sarà rappresentato per il prossimo semestre da una piccola nazione che sta per chiedere aiuto al cosiddetto Fondo Salva Stati Europeo: solo così può sperare di evitare il collasso, dopo il patatrac della seconda banca cipriota. Tutta colpa delle esposizioni della Cyprus Popolar Bank verso i titoli di stato ellenici.

In questo fotogramma c’è l’Europa di oggi, alla vigilia dell’ennesima riunione definita “epocale”. Certo l’Europa è molto altro ancora, non è solo conti in rosso e immobilismo politico, ma in una fase turbolenta come l’attuale questi problemi rischiano di condizionare l’intero continente, cioè una landa abitata da 500 milioni di persone. Che attrazione può scattare con i paesi vicini? Libertà, agiatezza, opportunità: sono ancora questi i messaggi che partono dall’Europa verso i Balcani o il Medio Oriente? E, ancora: ci sarebbe una reciproca convenienza fra Ue e nazioni confinanti? Una risposta definitiva non c’è, perché sono troppo veloci e interconnessi i cambiamenti provocati dalla crisi, ma è utile perlomeno abbozzarla.

I dati economici. Eurostat dice che il nostro prodotto interno lordo è il 50 percento più alto di quello dei Paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina). Ma sono numeri del 2010, con la crisi già in atto ma non a questi livelli. Per il 2012 la Banca Centrale Europea prevede un range che va da un calo dello 0,5 percento ad un rialzo dello 0,3 percento. Un po’ meglio le previsioni per il 2013: da zero a + 2 percento. Senza mai dimenticare cosa diceva il vecchio e saggio Trilussa sulle medie statistiche possiamo sbizzarirci con i confronti: fortunati i lussemburghesi che guidano la classifica del Pil procapite, due volte e mezzo la media dell’Europa a 27. L’Italia è a metà classifica con 30.500 dollari a testa, poco meno di un “gigante” come la Gran Bretagna (34.800), distanziando di 10mila dollari la già citata isola di Cipro. Giustamente il Pil è considerato dagli economisti più accorti un indice non “intelligente” per descrivere le condizioni di vita degli abitanti di una nazione (vedi Martha C. Nussbaum – Creare capacità – il Mulino 2012), ma resta il punto di raffronto più comune: il Pil procapite della Turchia è inferiore a quello della piccola Cipro (12.300 dollari contro 21.000) ma resta quasi il doppio dell’Egitto, una delle nazioni protagoniste delle rivolte arabe.

Non risulta un leader egiziano che abbia preso in esame l’idea di chiedere l’ingresso in Europa; in compenso fra Turchia ed Europa è in corso un percorso stop & go davvero stucchevole, una trattativa che mescola donne velate e affari, emigrazione e diritti delle minoranze, vecchie ruggini e nuovi business. Qualcuno ci dovrebbe spiegare vista la paura del contagio islamico provocato dall’ingresso della Turchia in Europa, perché Istanbul è stata scelta nel 2010 come Capitale Europea della Cultura? Secondo Asaf Savas Akat, economista alla Bilgi University di Istanbul, “l’Unione Europea ha tratto beneficio dall’alto deficit commerciale e dalla crescita turca. Un’economia che cresce, di solito, aiuta anche le altre economie, soprattutto se questa crescita è spinta non da un incremento di esportazioni ma da una forte crescita della domanda interna. E la crescita turca, appunto, si basa su una forte domanda interna”. In sostanza il professor Asaf Savas sostiene che la Turchia ha mitigato la crisi europea. Ma non tutti a Bruxelles sono disposti a dare il benvenuto a 78 milioni di turchi, quasi un terzo dei quali ha meno di 14 anni.

Recentemente Standard & Poor’s ha abbassato la valutazione dell’economia turca scatenando la reazione di Ankara che ha promesso di creare una propria agenzia di rating, come già fatto dalla Cina. Quanti altri governi possono permettersi un tale gesto di fronte all’arbitrio di un pugno di persone che stabilisce il futuro di una nazione? Eppure è un tema essenziale, perché richiama la cessione di sovranità, lo strapotere della finanza sulla politica, la trasparenza dei poteri, il ruolo delle elites pubbliche. Marina Calloni insegna filosofia all’Università Milano-Bicocca e ultimamente si sta interrogando su tecnocrazia e populismo. “Le crisi create dalla globalizzazione sono più difficili da gestire: superano i confini nazionali e richiedono tempi rapidi di reazione, perché la finanza si muove più veloce delle decisioni politiche. Si sta allargando la distanza fra le richieste che vengono dalla società civile e le capacità delle elites politiche di rispondere o di ripensare alla politica, tanto più con le difficoltà vissute dai partiti tradizionali”.

E secondo Marina Calloni “il populismo e la tecnocrazia sono risposte delle elites, un modo per rinegoziare il proprio ruolo con le masse. Il populismo da intendersi come imposizione dall’alto verso il basso, basata sull’uso di quelle retoriche comunicative mistificatrici che abbiamo conosciuto con il governo Berlusconi, utilizzate per tenere i cittadini in una sorta di bolla. E’ interessante il caso italiano” – continua Marina Calloni – “perché siamo passati dal populismo ad una forma particolare di tecnocrazia. Monti non è un tecnico, non solo perché è stato nominato senatore a vita, ma anche perché è stato Commissario europeo per ben due mandati”. Resta da capire se la soluzione “alla Monti” sia un’eccezione o possa diventare la norma, di fronte alla crisi. “L’Europa politica è in crisi” – risponde la professoressa Calloni – “abbiamo l’unione monetaria, merci e cittadini possono circolare liberamente, abbiamo una Carta dei diritti fondamentali ma di fatto è aumentata la distanza fra le elites al potere e i cittadini.

Emblematico il comportamento di Angela Merkel la quale non capisce che il pareggio di bilancio non risponde alle esigenze vere degli europei. Due grandi osservatori della contemporaneità, Jurgen Habermans e Amartya Sen, sono uniti nel criticare questa Europa. Habermans ha scritto recentemente che i cittadini europei sono apatici perché non più coinvolti nel processo democratico: non più a livello delle singole nazioni, non ancora a livello europeo. Sen sostiene che l’Europa è sempre più carente di public reasoning, di quel dibattito che potrebbe dare finalmente legittimità al processo di coesione: peccato, perché l’Europa è potenzialmente il più straordinario dei processi sovranazionali degli ultimi decenni”, conclude Marina Calloni. Lapidario il commento di Roberto Santaniello, “prestato” da pochi mesi al Comune di Milano, ma da sempre uomo delle istituzioni europee: “spiace dirlo ma l’Europa è sempre indietro di 20 anni nelle decisioni da prendere”. Parole pronunciate proprio nella sede della rappresentanza del Parlamento Europeo a Milano.

L’Europa come esperimento non riuscito, interrotto. O forse come processo in cui spinte opposte si scontrano: quella delle banche e del profitto contro quella dei diritti e delle opportunità. Sta vincendo la prima e anche i nostri “vicini” se ne stanno accorgendo. Torniamo all’esempio turco: il governo Erdogan non sembra particolarmente turbato dalla lentezza con cui procedono i negoziati per l’ingresso nell’Unione Europea. Anzi si può permettere di ricordare ai tanti che – ragionevolmente – dubitano degli standard democratici turchi che è nella vicina Grecia che i neonazisti di Alba dorata sono entrati in Parlamento con quasi il 7 percento di consensi. Nessuno dei leader delle rivolte arabe ha messo l’ingresso in Europa al primo punto della propria agenda, anche se il sogno (o l’illusione?) di un futuro roseo sull’altra sponda del Mediterraneo muove ancora migliaia di persone.

C’è solo una nazione che sembra sentire il richiamo europeo: Israele. L’Università Ben Gurion nel giugno 2011 ha realizzato un sondaggio su un migliaio di cittadini israeliani e l’81 percento di loro (il 12 percento in più del 2009) ha risposto che vorrebbe entrare nell’Ue. Il professor Avishai Margalit, uno dei fondatori di Peace Now (anche lui intervistato a Istanbul, durante il workshop sulle rivolte arabe organizzate dalla rivista Reset) non è stupito: “non conosco la ricerca ma credo si spieghi con il fatto che non abbiamo un futuro in Medio Oriente. Molti israeliani, anche di sinistra – che però lo dicono a mezza bocca – la pensano così. Certo, ci sono persone che sostengono che noi siamo parte del Medio Oriente, che ci piaccia o no questo è il nostro destino; ma con il crescere della tensione, molti sostengono che l’unica alternativa è l’Europa.

Attenzione” – chiosa il filosofo israeliano – “la maggior parte degli israeliani non sa nulla dell’Unione Europea. E forse se conoscessero la situazione economica il sondaggio darebbe risultati differenti: più che una posizione politica mi sembra che quel sondaggio esprima un sentimento. Semplicemente molti credono che l’Europa sia un buon club e che sarebbe un’offesa venir rifiutati”. Chissà se ad Avishai Margalit, quando paragonava l’Europa a un club, gli è tornato alla mente uno dei più memorabili aforismi di Groucho Marx: “non vorrei far parte di un club che mi accettasse come socio”.