Todi (e il mito di Todi) di G.Codrignani

Giancarla Codrignani
www.viandanti.org, 29 giugno

Dite pure che sono parziale, ma l’immagine è suggestiva: avete in mente la foto di Benedetto XVI a Milano per il Family Day con a fianco il Sindaco Pisapia che, con gesto spontaneo e non protocollare, gli accomoda la mantellina svolazzante? A me è parsa simbolica di rapporti laici corretti: autorità religiosa e autorità civile fianco a fianco, senza democristianerie (un dc storico, per compiere lo stesso gesto di cortesia, si sarebbe quanto meno alzato in piedi), semplicemente “la società civile”.

In questi mesi si è aggravata non solo la crisi economico-finanziaria, ma la stabilità delle istituzioni rappresentative italiane. Abbiamo ancora bisogno di giocare a guelfi e ghibellini, quando la società, bisognosa di coesione, si frammenta nel populismo? Davvero risentiamo la voglia identitaria per aggravare lacrisi della democrazia? Sempre condizionati da qualche Fioroni che, scandalizzato per il riconoscimento delle unioni di fatto, inventa la scalata alla leadership del PD e proclama la priorità dei diritti di bilancio rispetto ai diritti civili?

Aspettando Todi 2

Tuttavia, si continua a ragionare di Todi 1 aspettando Todi 2. Allora, vediamo di valutare un po’ meno schematicamente la situazione. Ronzano voci: sul Corriere della Sera, ormai specializzato sul “partito dei cattolici” (da sempre pulpito della Confindustria e non del Vangelo) Dario Antiseri, un filosofo che, ospite di Ballarò, ha mostrato la sua indignazione contro “chi promette cose che non può mantenere” (ma non pensava al PdL o a Beppe Grillo) e contro i politici (ovviamente tutti) che “dovrebbero essere i nostri medici e invece ci fanno del male”, auspica un “partito di centro-destra che attiri i voti dei cattolici”. Può essere: il prezzo del ventennio di diseducazione alla legalità lo pagheremo ancora a lungo, ma c’è bisogno che i moderati abbiano una destra decente, che, per convenzione democratica, ci sbarazzi insieme della corruzione e degli antichi “geni”. Passera, Ornaghi e Bonanni possono aprire un partito non “dei cattolici”, ma di un centro-destra concorrenziale – o anche consociato – ad un’eventuale scesa in campo di Montezemolo. In nome non più di coperture ideologico-religiose, ma di solidi, terreni interessi.

Quale credibilità?

Non è neppure troppo chiaro come e se un eventuale partito cattolico potrebbe giovarsi di benedizioni ecclesiastiche. Il Vaticano e lo Ior non sono nelle condizioni di garantire credibilità a se stessi ed è dubbio che possano sostenere quella di candidati “laici” che li rappresentino. Tanto più che sono stati pubblicati troppi libri sui limiti delle religioni nelle società tecnologiche secolarizzate. Forse nei sacri palazzi la rivalutazione di Lefevre e dei tradizionalisti devoti (anche atei) si verifica proprio perché, pur interpreti quantomeno strani della fedeltà evangelica, garantiscono la difesa di dogmi, gerarchie e interessi.

Intanto Alberto Melloni (Chiesa madre, chiesa matrigna, Einaudi) sottolinea che la perdita della ricerca di verità ha reso il mondo cattolico non tanto plurale, quanto “tribale”. E Marco Marzano (Quel che resta dei cattolici, Feltrinelli) segnala la cecità ecclesiastica di non seguire i giovani nel loro desiderio di autenticità nei sacramenti che segnano la vita. Anche Aldo Maria Valli (Piccolo mondo vaticano, Laterza) elenca lo “schema di potere… fatto di giochi e giochini fondati sull’opportunità se non sull’opportunismo” di una “macchina curiale che… produce sporcizia”. Perfino Domenico Rosati, vecchio senatore Dc e dirigente aclista, commentando il catalogo del “manifesto per Todi 2″, ha puntato il dito sul “distacco dalla storia… e il connesso deficit d’analisi che, purtroppo, è proprio dell’elaborazione cattolica attuale” (Unità, 29 maggio).

Lo stesso caso Lusi – che ha posto fine definitiva alla “Margherita”, ambiguo residuato democristiano – ha prodotto chiarezza su eventuali sussidi di mediazione da parte di forze che raccolgano i voti di chi ha paura degli schieramenti e viene rassicurato da centrismi di facciata, forse finiti con i ricatti dell’ Udeur e con il “cattolico” Clemente Mastella eletto per otto volte in Parlamento con siffatte garanzie.

Non è più tempo per un partito di cattolici

La realtà è che, anche all’interno del governo Monti, certamente laico, un Andrea Riccardi autorevolmente dissente dall’illusione di chi sogna la crescita di gente che abbia voglia di testimonianza pubblica di fede: “non è più tempo per un partito dei cattolici, ma per il rinnovamento dei partiti e della politica”. Come dire che i cattolici dovrebbero sentire la responsabilità di dare il loro contributo al recupero dei valori di tutti. Da cittadini italiani ed europei.

Qui è il nocciolo della questione: non abbiamo sfide da cercare per aprirci ad un futuro che non accetta il richiamo delle sfide confessionali antiche, ma si riconosce nella continuità democratica, oggi periclitante per le tante trappole e insidie che intrigano un popolo ancora insicuro di sé e che dell’antica “obbedienza” cattolica conserva la tentazione di “affidarsi”. In Emilia si potranno verificare tempestivamente anche le promesse del “Movimento Cinque Stelle” e la capacità amministrativa della giunta “grillina” di Parma che a metà giugno non era ancora stata formata e che dovrà recuperare i milioni del buco ereditato da Vignali senza smettere di gestire i bisogni di una città esigente. A prescindere dai pregiudizi, tutti ci dobbiamo rendere conto che le buone intenzioni o la lapidazione delle istituzioni non bastano per amministrare Comuni e Regioni e tanto meno lo Stato, soprattutto in una situazione internazionale assolutamente critica. Il senso di responsabilità che dovrebbe contraddistinguere i cristiani comporta in primo luogo la comprensione politica degli scenari che si profilano e la solidarietà sociale per scelte e proposte orientate esclusivamente al bene comune.

Non ci sono alternative, perciò, alla ragionevolezza che suggerisce di non tirare da tutte le parti una coperta già abbastanza logora. Proprio perché abituati alle diaspore e agli esodi, c’è da sperare che, per quanti in termini di fede rispondono al Vangelo e su quella base cercano di fare quanto possono anche per salvaguardare il bisogno e il senso di Chiesa che li abita, il dare a Cesare significhi essere laici e responsabili di un bene che non è tale se non è comune.

Da laici senza etichette

Mons. Luigi Bettazzi, Vescovo e Presidente del Centro Studi Economico-Sociali per la Pace, ci ricorda (Mosaico di Pace, giugno 2012) che la Chiesa, fino al Concilio Vaticano II, privilegiava sì i poveri, ma mantenendoli nella tradizionale posizione di oggetto della carità, e il Sud del mondo pur negandogli autorità nell’elaborazione dottrinale e nelle strutture operative. Mentre “uno degli argomenti sollecitati da tutti i vescovi partecipanti al Concilio era quello della Chiesa dei poveri perché, come aveva detto Papa Giovanni XXIII , “la Chiesa è, sì, la Chiesa di tutti, ma soprattutto la Chiesa dei poveri”. Gli interventi conciliari dietro al mistero di Cristo che da ricco che era si fece povero (2Cor 8,9), riconobbero che “i più” erano oltraggiati dalle immense ricchezze di una minoranza e auspicarono un nuovo stile di vita, che doveva incominciare dalla “casta”, diremmo oggi, dei vescovi. Nello “Schema 14” per tredici capoversi si snodarono impegni a rinunciare a privilegi e vanità, a trasformare le opere di beneficenza in opere sociali di giustizia, ad affidare la gestione finanziaria a laici coscienti della responsabilità che non a caso viene detta apostolica.

Bettazzi insegna, dunque, alla maggioranza dei nati dopo il Vaticano II – che poco sanno della rivoluzione pastorale prodotta dal Concilio nella fede dei cristiani e nella politica dei comportamenti virtuosi, da quando la grande paura di dover cambiare stile di vita ha indotto il ritorno a Trento della gerarchia – che tocca ai laici dare coerenza non solo al Concilio, ma al Vangelo. Anche in politica. Da laici senza etichette.