Islam: dove sono i laici? di M.Lanfranco

Monica Lanfranco
www.mareaonline.it

Le uniche voci fuori dal coro sono quelle di Irshad Manji, autrice dell’intenso ³Quando abbiamo smesso di pensare?² e di Maryam Namazie, attivista iraniana che da Londra è sempre la prima a denunciare, a nome di ³One law for all², i rischi del fondamentalismo islamico. Il resto è un coro bipartisan nel quale si condanna la satira e chi la pubblica, definendola incitamento all’odio, e poi si deplorano le violenze dei fanatici islamisti.

Si chiudono le scuole, si blindano i quartieri, i toni e gli scenari sono quelli bellici ai quali siamo stati abituati leggendo libri di fantapolitica o vedendo al cinema i thriller a loro ispirati. Si dice, a proposito dei fanatici che hanno già ucciso e provocato feriti e macerie, che siano una minoranza, rispetto alla maggioranza moderata del mondo musulmano, e allora la domanda è: dove sono? Perchè non parlano? Per quale motivo si dà così poco spazio a questa maggioranza moderna e laica che non approva il fanatismo religioso islamico, che invece sembra tenere in scacco ormai quasi dovunque i movimenti della primavera araba?

Vorrei raccontare un episodio recente che mi ha messa di fronte ad uno degli errori a mio parere più gravi che in Italia continuiamo a fare, per ignoranza e malinteso senso di accoglienza, rispetto alla questione islam: in una iniziativa politica alla quale sono stata invitata doveva partecipare anche una rappresentante di un paese a maggioranza musulmana, una attivista laica, non velata, giovane. All’ultimo minuto, come può capitare, l’ospite ha avuto un problema, e ha comunicato che non avrebbe potuto partecipare.

Invece di verificare se era possibile avere presente un’altra attivista della stessa area (o rinunciare) si è scelto di invitare una donna, sempre dello stesso paese, ma di tutt’altra appartenenza: velata e religiosa. Chiaramente la piega che ha preso il dibattito è stata molto diversa da quella originale: l’intervento della giovane islamica è stato decisamente sotto l’egida delle parole del Corano, una vera e propria lezione confessionale.

Quello che credo sia davvero pericoloso è confondere i piani: si può provenire da un paese musulmano ma non necessariamente si è fedeli religiosi dell’islam, così come lo si può essere e, nel caso si sia donna, si può non portare il velo. C’è differenza tra invitare ad un dibattito don Gallo piuttosto che un porporato fedele all’attuale pontefice, così come ci sono rabbini progressisti e rabbini tradizionalisti, così come c’è differenza tra scegliere una voce valdese o una buddista.

Tra Lorella Zanardo e l’ex ministra Carfagna c’è un abisso, e invitare l’una o l’altra determina il taglio che vogliamo dare ad una iniziativa e significa dare voce ad una o un’altra visione delle donne e delle relazione tra i generi. Voglio dire che scegliere di dare voce e visibilità alle donne (e agli uomini) che lottano, in occidente come nei paesi d’origine, per la laicità, per la separazione tra stato e religione, per il primato della sfera pubblica priva di connotazioni confessionali (dalla scuola alla giustizia, scongiurando i rischi, già reali in Inghilterra e in Canada, paesi nei quali già sono in opera i tribunali islamici della shaaria per le dispute familiari nelle comunità islamiche, fortemente voluti dagli iman fondamentalisti) significa affermare che non c’è un solo islam, un solo oriente, un solo monolitico mondo arabo e musulmano, così come nel esiste solo un occidente o un cattolicesimo, o un solo modo di essere credenti.

C’è, poi, la grande questione della libertà di espressione, di stampa e di critica. Ho visto alcuni spezzoni dell’ultimo film che ha scatenato la furia omicida dei fondamentalisti, e ho intuito che era un brutto prodotto. Non sempre, anche in Italia, la satira, sia essa televisiva, scritta o a fumetti è intelligente, anzi è difficile che percentualmente lo sia, e più di tutto è estremamente difficile che non sia misogina, persino violenta, solitamente contro le donne o gli omosessuali.

Ma, a parte cori censori che invocano misure restrittive, e sacrosante stigmatizzazioni e reazioni indignate e ragionate, non si assaltano scuole, giornali e sedi politiche, e se questo accade (non dimentichiamoci che il regista Theo van Gogh è stato ucciso nel 2004 per ³Submission², film invece non volgare o grottesco, incentrato sulla violenza dell’islamismo contro il corpo femminile) non si smette di esercitare un diritto che viene sospeso solo (e non a caso) nelle dittature di ogni colore.

Tacere su quello che sta accadendo nel mondo arabo e musulmano, giustificare la violenza contro la (pur brutta) satira significa creare una breccia pericolosa nel diritto alla libertà di stampa, di critica e di satira, che non può avere limitazioni di fronte a nessuna espressione di fede. Se si ammette questo, siamo già in mano al fondamentalismo.

———————————————————————————-

< strong>Sulla libertà di espressione

Marco Alloni
Corriere del Ticino, 27 settembre

Probabilmente l’atteggiamento che meglio si concilia con la vicenda del film e delle vignette anti-islamiche di questo periodo è quello del cinismo. In gioco è infatti un concetto che solo attraverso il cinismo può trovare una chiara – anche se disarmante – chiave di lettura. Mi riferisco al concetto di “libertà di espressione”, che da una parte e dall’altra si invoca – pro e contra – come grimaldello per giustificare le posizioni in campo.

L’impasse deriva direttamente dall’impossibilità di codificare che cosa sia – rispettivamente che cosa non possa essere – “libertà di espressione”. Un’impossibilità che a ben vedere coincide con l’impossibilità stessa di trovare un concreto terreno dialogico fra Occidente e mondo islamico. Dove comincia e dove finisce infatti la “libertà di espressione”? E soprattutto, è mai concepibile che una qualche ipotetica Carta internazionale sancisca per tutti una definizione univoca del termine?
Cinicamente non si può rispondere che in modo negativo. Una simile Carta – cioè un simile accordo sul significato univoco da conferire al concetto di “libertà di espressione” – non esiste e non può esistere. Come non esiste e non può esistere una Carta e una definizione univoca del concetto di “offesa delle religioni”.

Vediamo però più da vicino come questa impasse si produca. Stando alla prospettiva di quell’islamismo ipersensibile che, a fronte del film e delle vignette, ha deciso di scendere per strada e dichiarare guerra al demonio occidentale, una “invalicabile linea rossa” deve – insindacabilmente deve – separare la cosiddetta “libertà di espressione” dalla satira, dall’ingiuria e dalla messa in ridicolo del Profeta. Stando alla prospettiva di quell’ultralibertario occidentalismo che vorrebbe invece considerare una simile “linea rossa” nient’altro che una forma abusiva di censura contro l’illimitatezza della satira e in generale contro la “libertà di espressione”, nessun limite può e deve essere posto. E proprio in quanto illimite la libertà di critica e dileggio trova la sua legittimazione sostanziale.

Poste le cose in questi termini è del tutto evidente che qui non ci troviamo di fronte soltanto a due punti di vista contrapposti, ma a una radicale inconciliabilità tra punti di vista. Da cui – cinicamente – la conclusione che le violenze in corso non possono che essere una naturale conseguenza di tale irriducibilità.

Considerato che porre la questione in questi termini (di puro cinismo) avalla però di fatto lo scontro come unica opzione in campo, vediamo come si potrebbe considerare un altro approccio e paventare una qualche possibile via d’uscita.
Tanto per cominciare, è corretto ritenere che da una parte ci siano i fanatici (musulmani intransigenti) e dall’altra i libertari (occidentali a loro modo altrettanto intransigenti)? Probabilmente è proprio da qui che dobbiamo partire per cercare un eventuale piano di conciliazione. No, non è corretto. Almeno quanto è scorretto – da una parte e dall’altra – trincerarsi dietro il fatto lapalissiano che né i musulmani che incendiano le ambasciate straniere né i caricaturisti che procedono a spron battuto nelle proprie provocazioni rappresentano la totalità dei due universi, quello occidentale e quello islamico. È anzi così ovvio – lapalissiano – che usarlo per smarcarsi dalle responsabilità di aderire all’uno o all’altro punto di vista, come a più riprese è stato fatto, ha quasi il sapore di un atto di pavidità. No, non è né serio né frutto di matura equidistanza fingere che la questione coinvolga soltanto qualche fanatico dell’uno e dell’altro fronte. Si trattasse esclusivamente di questo potremmo dire, in tutta serenità, che è la solita vieta contrapposizione tra ortodossie, esattamente come sul fronte arabo-israeliano lo è l’eterno scontro tra ebrei ultraortodossi e kamikaze fondamentalisti.

Qui siamo in gioco tutti. Dal primo occidentale che pure rigetta le folli provocazioni di un Sam Bacile o chi per lui o di un Charlie Hebdo, all’ultimo musulmano che pure marca il proprio dissenso dalle violenze perpetrate dai suoi compatrioti contro i rappresentanti delle diplomazie occidentali. Fingere che il nostro punto di vista sia semplicemente “moderato” non esclude che in questa nostra “moderatezza”, o medietas, non si parteggi – tanto o poco che sia – per un punto di vista o per l’altro. Ovvero che a fronte degli scontri in atto non si decreti tacitamente che i colpevoli e i fanatici siano questi oppure quelli. Oppure entrambi, certo, ma pur sempre con una decisiva predilezione per gli uni sugli altri.

Sia dunque posto come principio di responsabilità non già la comoda equidistanza dagli uni e dagli altri fanatici, ma un dato molto più significativo: che a noi, onestamente – a noi occidentali, voglio dire – che uno sconsiderato ebreo californiano o un gruppo di oltranzisti copti della diaspora o una rivista di sciagurati caricaturisti francesi metta alla berlina il profeta Maometto non importa quasi nulla. Con una scrollata di spalle, rubrichiamo tali episodi come irresponsabili e chiuso il discorso. Viceversa, che un gruppo di musulmani esaltati mandi a ferro e fuoco un’ambasciata e ammazzi un ambasciatore e i suoi tre colleghi, o intraprenda vere e proprie azioni di violenza fisica contro i simboli dell’Occidente, questo sì suscita la nostra inequivoca indignazione.

Non nascondiamoci quindi dietro a un dito. Noi occidentali stiamo da questa parte del muro: per moderati ed equidistanti che si sia, fra un fanatismo e l’altro scegliamo il fanatismo della libertà di espressione. Non ne approviamo gli eccessi, ne condanniamo le esagerazioni, ma poco o nulla ne risentiamo, in termini di pura sensibilità, nelle nostre coscienze. A noi, che ci si faccia beffe delle religioni – e particolarmente dell’Islam, ancora così estraneo malgrado decenni di migrazioni verso Occidente – non ci fa né caldo né freddo. Al più un breve, insignificante palpido di indignazione.

Viceversa – lo dice chi in Egitto vive ormai da quindici anni – per la sensibilità religiosa del mondo islamico nulla è più lacerante che veder dileggiata la figura di Maometto o pretendere di poter usare, nei confronti dell’Islam, lo stesso disinvolto sfottò che si riserva in ambito satirico a politici o personaggi pubblici. Nemmeno il più laico e moderato dei musulmani si sognerebbe di considerare le provocazioni sferrate contro Maometto innocue o insignificanti. Anche il più moderno dei musulmani ha sobbalzato, e anche il più cosmopolita ha colto in quelle offese una denigrazione del tutto gratuita e intollerabile. Pur – ripetiamolo – condannando con lo stesso rigore le violenze che vi hanno fatto seguito.

È dunque evidente che nel parlare di “libertà di espressione” dobbiamo ammettere che tale concetto divide nettamente il fronte islamico e quello occidentale in due universi a modo loro irrelati e soggetti a sensibilità incompatibili. Tornando al cinismo: è forse possibile difendere un punto di vista senza creare risentimento nei paladini dell’altro? E soprattutto: è forse possibile immaginare che la ragione stia da una parte sola – la nostra – e che se vuole guadagnare la modernità, l’altra debba giocoforza adeguarvisi?

Sono domande che nel cinismo non trovano risposta. Ma, stando alle premesse indicate sopra, conducono a una possibile considerazione: compito e responsabilità degli organi di informazione e della cultura è tempo che vengano riconosciuti, non già nel semplice e passivo squadernamento dei fatti – con relativa difesa del moderatismo come grimaldello per ogni possibile auto-assoluzione – ma in quella che vorrei chiamare, senza raggiri, una doverosa censura legale contro ogni eversione. Contro ogni atto eversivo che possa a livello globale ledere la sensibilità altrui.

È ora che al principio apparentemente insindacabile della “libertà di espressione” sia avvicendato insomma un principio che, lungi dall’essere assimilabile a qualsivoglia prassi inquisitoria, rappresenti la consapevolezza che essere occidentali non dà in sé diritto a essere anti-islamici. Cosiccome al principio apparentemente insindacabile della “libertà di reazione” è ora che il mondo islamico avvicendi quello della legalità, riconoscendo nel moto di protesta un diritto inviolabile purché nei limiti della legge e del rispetto altrui.

Forse questa sì potrebbe essere una Carta dal carattere meno utopistico di quella prospettata dal cinismo. E tutto ciò sia detto con buona pace di chi – in Occidente – ritiene che la satira non debba avere limiti. Ma anche di chi – nel mondo islamico – reputa che alle derive della satira si abbia il diritto di rispondere con le bombe e il fascismo in nome di Dio, restando impuniti perché arbitrariamente rassicurati dall’antico vittimismo terzomondista.

Per noi è facile parlare di lesa maestà, e i nostri satirici riterrano una simile proposta in contraddizione con i princìpi inviolabili su cui hanno costruito le proprie esistenze e carriere. Ma per una volta sarebbe opportuno che le tronfie ragioni della satira facessero un passo indietro, rendendosi conto che mettere Maometto nudo in una carozzella, non solo non fa ridere, ma equivale, per una gran fetta del pianeta – storicamente incolpevole della propria arretratezza, se vogliamo metterla su questo piano – a rappresentare le loro madri nude su un sito porno. Avrebbero piacere i libertini di Charlie Hebdo di vedere le loro madri sodomizzate sul web?

Non siamo più soli sul pianeta: la globalizzazione delle merci va accompagnata a una globalizzazione delle sensibilità