Oltre il deserto di R.LaValle

Raniero La Valle
Rocca n°24/2012

L’anno che si chiude sul piano politico è stato un anno di passaggio o per meglio dire un anno di esodo. C’è stato un esodo dalla lunga, umiliante stagione berlusconiana, e siamo entrati nel deserto in vista di una futura liberazione. L’errore che abbiamo fatto è stato di pensare che nel deserto il popolo non avesse bisogno di una guida, e perciò di una politica, ma avesse bisogno di una tecnica, come se far scaturire l’acqua da una roccia o dare alla gente di che sfamarsi in mancanza di pane, o trovare tutti insieme una strada per uscire dal deserto alla città fosse una questione tecnica, e non invece una questione politica e addirittura etica e spirituale. Sicché nel deserto abbiamo avuto ogni sorta di privazioni e di tormenti, qualcuno addirittura ha rimpianto le cipolle del tempo di schiavitù, e per di più abbiamo perso anche la fede: perché a questo punto, se non il miracolo, se non la politica, se non la tecnica, chi mai potrà salvarci?

Sicché l’Italia si trova, in questa fine d’anno, non solo in una situazione di caduta libera verso la povertà anche di classi un tempo agiate, non essendo stata messa in opera alcuna misura per la ripresa, ma anche in una situazione di straordinaria incertezza; di nessuna cosa possiamo essere più sicuri, perché ogni cosa è rimessa in causa come troppo costosa: il lavoro, le pensioni, la cultura, la scuola, gli insegnanti, i soldati e perfino la sanità; e sembra che la cosa più costosa di tutte siano i diritti, che per l’appunto vengono “rivisti” (reviewed) uno per uno.

A rendere ancora maggiore l’incertezza sul futuro si aggiunge il fatto che non sappiamo nulla di quello che sta per accadere; non sappiamo con quale legge elettorale si andrà a votare, non sappiamo se sarà restituito agli elettori il diritto di esprimere le proprie preferenze, non sappiamo se le alleanze si faranno prima o dopo le elezioni, non sappiamo che ne sarà della destra, per la quale le primarie sarebbero un “suicidio”, né se essa avrà ancora in testa Berlusconi o se metterà altri santi sugli altari, che siano Alfano Montezemolo o Renzi, non sappiamo se dopo tanto baldanzose ascese ci sarà ancora un futuro per la Lega, per Grillo, per l’Italia dei valori, non sappiamo se il gruppetto di cattolici sponsorizzato da Montezemolo presumerà di avere qualcosa a che fare con gli augusti auspici di “una nuova leva di cattolici impegnati in politica”.
Però proprio il fatto che nulla sappiamo indica che tutto può succedere. Dove tutto si è consumato, tutto può cominciare di nuovo. E qui si può cogliere anche l’occasione fornita dal deserto. Il deserto non è solo il luogo della negatività, dell’aridità, dell’inedia. Nelle tradizioni religiose il deserto è il luogo della rigenerazione, si entra nel deserto per sottrarsi alla presa degli idoli, per spogliarsi dei cattivi abiti di fede, e dopo tale spoliazione, liberi e leggeri, iniziare un nuovo cammino.

Così è anche per la politica. Non è pensabile che essa finisca così. Nel deserto può essere pensata una politica nuova. Si può ad esempio ricominciare a pensare che il suo fine è il bene comune, non il reciproco dominio; si può riconoscere che il suo compito è di rendere possibile la vita degli uomini insieme, ma non la “nuda vita”, bensì la “buona vita”, come la chiamava Aristotile, sapendo del resto che oggi, in Africa come nelle periferie urbane e nei campi profughi e nei centri di prima accoglienza, non si può assicurare nemmeno la nuda vita se non si procura la “buona vita”. Si può riscoprire che il vero obiettivo della politica è quello di “felicitatem defendere” come dicevano i Romani (lo ricordò Dossetti all’inizio, nel 1951), è quello di riconoscere all’uomo il diritto di “cercare la felicità”, come diceva la Dichiarazione di indipendenza americana, è quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico sociale che “di fatto” la impediscono, come dice l’art. 3 della nostra Costituzione.

Per fare questa politica occorre liberarsi dalla cultura del nemico, che ha così profondamente inquinato le nostre istituzioni e il linguaggio di vecchi e nuovi pretendenti al potere, occorre non fare del potere la ragione e il trofeo della politica, fonte di ogni sua corruzione e del conflitto di interessi, e non riproporre ossessivamente vecchie agende. Monti aveva la sua, e l’ha attuata. Le primarie hanno fatto emergere una credibile agenda Bersani, e vediamo se la potrà onorare. Ma soprattutto c’è la nostra agenda, l’agenda dei cittadini, e dobbiamo fare in modo che sia una buona agenda: che metta al centro i poveri, che voglia riportare l’economia nelle regole e sotto la “governance” della democrazia, che si ricordi della disperazione dei popoli. Quest’anno ci si può provare. Non occorrono quaranta anni nel deserto: uno già basta.