Dove nasce la speranza di R.LaValle

Raniero La Valle
Rocca n°1/2013

Mi scrive un lettore che a volte i miei articoli, per troppa verità, fanno soffrire; quando analizzano le cose che non vanno, le ingiustizie, le distrette in cui tanti si trovano, suscitano disappunto e indignazione: come sarebbe bello, invece, poter sognare e sperare!

La stessa richiesta di ricercare motivi di speranza, echeggia in molte assemblee dedicate al ricordo del Concilio; la ricorrenza del cinquantesimo anniversario dall’inizio del Vaticano II ha fatto breccia, e sempre più numerose sono le riunioni in cui si fa memoria e si fa un bilancio di quell’evento. E anche in queste occasioni, quando sono evocate tante attese suscitate dal Concilio e andate perdute, o quando si lamenta la mancata riforma della Chiesa nella sua dimensione istituzionale e visibile, si fa pressante la domanda di come si possa tornare a sperare.

Naturalmente per fare spazio alla speranza sarebbe sbagliato fare uno sconto sul rigore dell’analisi; non è una buona ricetta quella di Pangloss e di Candide, di credere che in fin dei conti le cose non vanno male, anzi siamo nel migliore dei mondi possibili. Al contrario, capire dove siamo, mettersi faccia a faccia col male, mostrare i pericoli delle politiche adottate e delle strade intraprese è la premessa perché possa sorgere una speranza adulta, sia nella società civile che nella Chiesa.

Ma, stabilito e compreso dove siamo, due, io credo, sono le condizioni della speranza.

La prima è che non si perda la memoria delle cose passate. Memoria non vuol dire un mero ricordo, non vuol dire spostare indietro le lancette dell’orologio. Memoria vuol dire far presenti gli eventi passati e interrogarli di nuovo, per scoprire i significati che essi hanno in serbo per noi.

La memoria però deve essere militante, deve prendere parte, non può essere neutrale, deve essere una memoria trasformatrice e, se necessario, eversiva. Non può essere neutrale la memoria della Shoà, non può non essere eversiva la memoria della schiavitù, non può essere eurocentrica la memoria della “scoperta” e conquista dell’America. Si fanno i conti, con la memoria: al Concilio le due Chiese, di Roma e di Costantinopoli, “cancellarono” la memoria della scomunica che si erano reciprocamente lanciata nell’XI secolo: con quella memoria irrisolta non si poteva andare verso l’unità.

La memoria dunque si può cancellare, per una riconciliazione o un perdono, ma non si può perdere. La perdita della memoria molto facilmente si traduce in una perdita della speranza. Se invece ci ricordiamo le miserie da cui siamo usciti, le schiavitù da cui ci siamo liberati, le ricostruzioni cui abbiamo provveduto, le idee e le risorse che abbiamo messo in campo per risorgere, possiamo pensare che se questo è avvenuto può sempre accadere di nuovo. Perciò è irresponsabile oggi voler buttare al macero le Costituzioni, i movimenti, i partiti, le ideologie del Novecento, perché senza questa memoria non c’è dove afferrarsi per non sprofondare nelle sabbie mobili. E anche per la Chiesa, se non si fa appello agli straordinari doni di grazia del Concilio novecentesco, le speranze, fossero pure speranze celesti, non avrebbero la terra su cui fondarsi.

La seconda condizione della speranza è che non si speri nulla di cui non si possa rendere ragione agendo. Sperare non è sognare, né ristagnare nell’ottimismo. C’è un’ammonizione preziosa che il pastore martire Dietrich Bonhoeffer fece uscire dal carcere di Tegel, nel pieno della persecuzione nazista. Considerando come le parole anche più alte si fossero logorate e sfiorite, quelle della politica non meno di quelle della religione, indicò il modo in cui esse potessero ritrovare verità e vigore lanciando questo monito: “D’ora in poi direte solo ciò di cui risponderete agendo”. Parafrasando questo messaggio, potremmo dire oggi, in tempi certo diversi, ma non meno bisognosi di verità e di vigore: “Sperate solo ciò che cercherete di fare accadere agendo”.

Naturalmente perché questo agire sia potente, occorre credere che quello che speriamo veramente avverrà. È la fede che dà sostanza alla speranza. Spero perché credo. Sperare nella pace significa credere che la pace è possibile, e porre mano a costruirla. Sarà allora l’estensione l’altezza e la profondità della nostra fede e non il limite del nostro agire che darà le misura delle cose che possiamo sperare.