Questione femminile e immigrazione musulmana: tra realtà e pregiudizio

Migena Proi
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Il racconto della donna islamica che viene fatto dai media e dall’opinione pubblica è di una figura velata, passiva e subordinata alla cultura patriarcale. Ma non sempre è così.

Sono innegabili le storie di soprusi e violenze a cui le donne musulmane sono soggette, cosi come è innegabile che la violenza di genere non sia caratteristica dei “non occidentali”. Tuttavia è proprio all’interno di dibattiti riguardanti l’Islam che le disuguaglianze di genere vengono enfatizzate, colpevolizzando la religione come fonte unica e primaria della violenza. Nell’affrontare questa tematica prevalgono spesso toni emotivi, partendo dalla compassione che vittimizza ulteriormente le donne al disprezzo di chi le ritiene incapaci di autodeterminarsi, non permettendo di sollevare dibattiti pubblici sui diritti sociali in senso ampio (diritto all’istruzione, diritti economici,diritti politici) che sarebbero i mezzi con cui concretamente è possibile far uscire le donne dalla marginalizzazione che subiscono.

L’Islam viene visto come un universo statico, inflessibile a qualsiasi cambiamento geopolitico. Allo stesso modo l’immagine della donna musulmana viene appiattita su raffigurazioni prive di sfumature, incapaci di cogliere le diversità che sussistono. Ovviamente l’Islam è uno, in quanto unico è il suo credo e uniche sono le sue pratiche religiose, ed in questo senso unica è la donna islamica. Tuttavia la religione non è l’unica dimensione in grado di formare le singole identità e i popoli, intervengono a questo proposito variabili economiche, sociali, politiche, diverse a secondo dello spazio geografico in cui l’Islam trova spazio.

Renata Pepicelli, autrice di Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme (Carocci, 2010) e di Il velo nell’islam. Storia, politica, estetica (Carocci, 2012) ci spiega perché non è possibile parlare di donna musulmana tout court: «Ovviamente non è possibile parlare di donna musulmana tout-court. Le condizioni materiali dettate dalle leggi e dalla storia del Paese, influenzano la vita delle donne sia nel paese d’origine sia in eventuali percorsi migratori. Un esempio dell’influenza della vita politica può essere l’Arabia Saudita: solo ultimamente alle donne è stata data la possibilità di lavorare come commesse nei negozi di biancheria intima femminile, quando fino a poco tempo fa vi erano solo commessi maschi.

Differenze non si riscontrano solo tra Paesi, ma vi sono contraddizioni interne: in Marocco esiste la differenza tra città e campagna, dove i tassi di analfabetismo sono molto elevati. Il codice di famiglia approvato nel 2004 che introduce importanti novità (ad esempio l’innalzamento dell’età matrimoniale dai 15 ai 18 anni) è poco conosciuto nelle campagne e perciò poco utilizzato. Per quanto riguarda i rapporti di genere, rilevanti risultano essere la provenienza sociale, il livello di istruzione, e la presenza o meno della donna nel mondo del lavoro, che consente di riequilibrare i rapporti di forza».

L’ossessione con cui i media italiani ed occidentali ci propongono donne velate quando si discute di donne musulmane, facendo della proibizione del velo una lotta di libertà e civiltà, risente di un’impostazione ideologica che vede nel velo una forma di subordinazione all’uomo “padrone”. Tuttavia ciò che ci viene proposto come una lotta per la libertà, sembra piuttosto essere un appropriarsi del significato di simboli religiosi altrui dandone un significato che rispecchia schemi mentali occidentali. Cosi come abbiamo sentito storie di donne obbligate a indossare il velo per volontà dell’uomo, molte lo indossano come subordinazione a Dio. Ma soprattutto alcune, pur essendo musulmane convinte e praticanti, non lo indossano.

Anche in questo caso, oltre ovviamente alla scelta personale della donna, assume rilevanza la storia del Paese d’origine, come ci testimonia Malika Brhout, marocchina della zona di Al Hoceima, laureata in Lingue e lettere spagnole in Marocco, mediatrice linguistica nelle scuole e membra del Centro Ricerca e Mediazione Interculturale di Fano. Malika racconta: «Io sono cresciuta con le sorelle maggiori che andavano in giro con minigonne e zeppe, influenzate dalle mode dei colonizzatori spagnoli. Da noi l’hijab non è mai stato usato, le mie nonne indossavano il turbante e successivamente c’è stata l’influenza delle mode provenienti dai paesi mediorientali e si è iniziato a indossare il velo delle danzatrici del ventre».

Ciò che contribuisce a definire nell’immaginario collettivo l’immagine della donna musulmana come “passiva” è sicuramente anche l’ignorare l’importanza dei movimenti delle donne nella storia dei Paesi del sud del Mediterraneo. Nell’area mediterranea i movimenti delle donne hanno rivestito un ruolo storicamente rilevante a partire dalla fine del 1800, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui dagli anni novanta si è sviluppato il cosiddetto “femminismo islamico”, che mira a una reinterpretazione dell’Islam alla luce dell’uguaglianza di genere. Le femministe islamiche si sono in particolar modo soffermate sullo studio della vita del Profeta, le quali mogli hanno ricoperto ruoli importanti non solo all’interno della famiglia ma anche nello spazio pubblico (Aisha, moglie del profeta Mohammad, in particolar modo).

Credere che le donne musulmane non possano essere soggetti attivi e non possano dare un contributo alle società in cui vivono unicamente perché non hanno seguito gli stessi percorsi di emancipazione delle donne occidentali, che si sono “liberate” – o almeno suppongo di esserlo – proprio in ribellione alla religione e a tutto ciò che rappresentava l’ordine precostituito, vuol dire continuare a reiterare l’atteggiamento di superiorità che l’Occidente ha mostrato per secoli. Ed è proprio questo atteggiamento che viene contestato dalle donne musulmane, come ci spiega la dottoressa Renata Pepicelli: «Nonostante le difficoltà che senz’altro ci sono per le donne nei paesi arabi, quello che le donne musulmane chiedono – almeno alcune teologhe e studiose del cosiddetto femminismo islamico – non è di essere “salvate”, atteggiamento che l’occidente ha sovente, ma quanto piuttosto di costituire dei ponti di solidarietà tra donne occidentali e arabe, dal momento che l’Islam contiene già in sé i germogli della libertà e uguaglianza, a lungo tempo offuscati da una lettura patriarcale del Corano».

Inoltre essere convinti che l’emancipazione della donna possa avvenire solo fuori dal velo, fuori dalla religione, con canoni esclusivamente occidentali, non ci permette di vedere ciò che in Italia sta accadendo e di quanto nel loro piccolo proprio le donne musulmane sono protagoniste attive delle comunità in cui vivono.

Najat Aridos, marocchina e musulmana praticante, 41 anni, 2 figli, da 12 anni in Italia, è rappresentante della consulta degli immigrati del comune di Osimo: «Io sono la prima donna musulmana a far parte di tale consulta. È molto difficile il mio ruolo, perché consiste nel mediare tra le istituzioni e gli immigrati. Noi stranieri, forse partiamo un po’ prevenuti, perché quando decidiamo di rivolgerci al comune per qualche problematica, partiamo sfiduciati pensando che non ci forniranno le informazioni dovute perché siamo stranieri. Il comune da parte sua non agevola la diffusione di informazioni necessarie per cittadini stranieri. Ho dovuto insistere molto perché il comune mi usasse come tramite per far passare tali informazioni.

Inoltre faccio molta fatica a spiegare alle persone che mi chiedono aiuto che dobbiamo trovare delle rivendicazioni che possiamo fare tutti insieme, invece sembra che ognuno sia interessato solo al suo problema individuale e voglia subito delle risposte. La maggiore ostilità rispetto a ciò che cerco di fare a livello sociale, mi viene mostrata dagli uomini arabi – non da tutti ovviamente. Mi dicono che non vogliono farsi guidare da una donna. Per fortuna mio marito mi aiuta molto: io esco di casa alle 8 di mattina e rientro alle 20 di sera – quando va bene – ed è lui che si occupa dei bambini e della casa in genere, avendo perso il lavoro 2 anni fa».

Come Najat sottolinea, l’atteggiamento da parte della comunità araba verso una donna come figura guida è ambivalente, alcuni non la accettano, mentre per altri non costituisce un problema. Inoltre la crisi economica non solo è motivo di riorganizzazione dei modelli di vita di chi è presente da sempre in Italia, ma nel caso di Najat, diventa una ridefinizione di ruoli all’interno della sua famiglia musulmana, essendo il marito colui che si occupa della “sfera privata” e la moglie quella che lavora fuori e occupa uno spazio di rilevanza pubblica.

L’esperienza di Najat, così come quella di Malika, sono brevi testimonianze di come non sia possibile rimanere ancorati a stereotipi per capire la realtà. I fattori che influiscono sulla formazione personale sono diversi e l’unico modo per comprenderli realmente non è procedere per grandi categorie concettuali, ma valorizzare e ascoltare l’esperienza personale di ognuno.