Sinodalità riforma necessaria e attesa di S.Dianich

Severino Dianich
www.viandanti.org

La questione della sinodalità nella Chiesa oggi, non di rado, viene tradotta nei termini impropri di un’alternativa: democrazia sì, democrazia no.

La storia sementisce ambedue le ipotesi. Se si opta per “democrazia sì”, si urta contro una tradizione costante, per la quale la decisione sui dogmi della fede e sulla regola dei sacramenti mai è stata consegnata a delle assemblee popolari. Se si opta per “democrazia no”, ci si imbatte nella pratica dei concili, nei quali si decide, come nei parlamenti, sulla base di maggioranza e minoranza. Nei concili del passato inoltre, non mancava la partecipazione dei laici, se pure consegnata, come era ovvio accadesse in società autocratiche, ai principi e ai re. Inoltre nell’ordinamento canonico degli ordini religiosi, nel passato come oggi, la nomina dei superiori e le scelte importanti per la vita della comunità. si decidono democraticamente.

Guardiamo alla storia e all’Oriente

Non è facile trovare nella storia una situazione identica a quella odierna, nella quale i fedeli laici, ma anche i diaconi e i preti, nell’ordinamento della chiesa latina, non hanno a disposizione nessuna sede istituzionale nella quale essi possano dare un voto deliberativo sulle questioni della chiesa. In altre fasi della storia, invece, molte decisioni importanti, a partire dalla elezione dei vescovi, venivano prese dalla comunità. Anche oggi, del resto, nell’ordinamento canonico orientale, ogni anno viene convocato il sinodo patriarcale per l’elezione dei vescovi e per “emanare leggi per l’intera chiesa patriarcale” (cann 106 §2; 110 §1). Ogni cinque anni, poi, si riunisce l’assemblea patriarcale dei vescovi, dei superiori religiosi, dei rappresentanti dei preti e dei laici, delle università, delle facoltà teologiche e dei seminari (cann 140 e 143) per trattare le cose della chiesa.

Il concilio Vaticano II, invero, non ha deliberato riforme determinate per restaurare la vita sinodale nella chiesa, ma ha posto i principi, a partire dai quali avrebbe dovuto farlo il Codice. E’ una riforma necessaria che la chiesa ancora attende. Mi sembra che la si possa ipotizzare su due linee di fondo dell’ecclesiologia conciliare: il popolo di Dio in quanto soggetto responsabile della missione e la sua articolazione in base ai diversi carismi.

Il soggetto responsabile della missione

Fu molto significativo, durante la redazione della Costituzione conciliare sulla chiesa l’episodio dello spostamento, voluto dai Padri, della trattazione sul popolo di Dio dal capitolo terzo, dove era collocato nello schema proposto, successivo alla trattazione sul mistero della chiesa e sulla gerarchia, al capitolo secondo, cioè subito dopo il capitolo sul mistero della Chiesa. Il nuovo ordine, infatti, definisce con chiarezza che la gerarchia non sta prima né di fronte a tutto il corpo cristiano, perché il primo e fondamentale soggetto responsabile della missione è l’insieme di tutti i fedeli. Il ministero dei pastori, in quanto è un ministero particolare fondato sul sacramento dell’ordine, ne costituisce una funzione fra le altre. Resta quindi, secondo Lumen gentium 8, il popolo di Dio, “populus messianicus…instrumentum redemptionis”, il soggetto responsabile della missione. Del resto l’esperienza storica dimostra che sono i fedeli, tutti i fedeli, i soggetti della comunicazione della fede, che è il nucleo essenziale della missione, dal quale dipende la persistenza stessa della chiesa nell’esistenza. Tutti i fedeli ne hanno il carisma, infuso in loro nel battesimo e nella confermazione.

Ogni fedele soggetto originario e determinante

Il cristiano, chiunque egli sia, per evangelizzare non ha bisogno di alcun altro sacramento al di là del battesimo, né di alcuna delega da parte della gerarchia. Del resto in Europa, chi ha garantito, soprattutto nel secondo millennio, la trasmissione della fede, sono stati i fedeli laici nell’ambito della famiglia. Il Codice traduce questo dato sul piano del diritto nel canone 781, attribuendo al popolo di Dio, come suo dovere fondamentale, l’“opus evangelizationis”. Quindi, l’atto più importante di tutto il complesso della missione della chiesa, la comunicazione della fede, è competenza propria di ogni fedele. Ci si domanda quindi perché in altre cose, di minore importanza, per esempio nella scelta degli strumenti e dei modi più opportuni per evangelizzare, i fedeli non dovrebbero poter essere considerati come soggetti non subalterni, ma originari e determinanti.

Il popolo di Dio, poi, non è una massa indifferenziata, nella quale un soggetto è interscambiabile con qualsiasi altro. Ciò che compagina la chiesa, infatti, non è la legge, ma la fede, che lo Spirito Santo suscita nell’intimo della coscienza di ciascuno e che, quindi, si esprime sempre in maniera diversa da un soggetto credente all’altro.

L’esercizio del sacerdozio comune

Questa è la forma primaria nella quale si manifesta la pluralità dei carismi. Alcuni carismi risulteranno di fatto così rilevanti, da determinare nuovi e diversi percorsi del cammino della fede nel mondo. Ma nella grande maggioranza dei casi, essi si concretizzano nelle diverse vocazioni a cui i cristiani si sentono chiamati: vedi la vocazione al matrimonio, la chiamata alla vita consacrata o al ministero ordinato, l’impegno di lavoro in una determinata professione, determinate responsabilità sociali e politiche. Tutti questi aspetti della vita cristiana non possono essere considerati una realtà profana, priva di un carattere ecclesiale, utile solo al fedele per guadagnarsi meriti per la vita eterna: sono infatti l’esercizio del sacerdozio comune. Nella vita quotidiana ordinaria, nella quale famiglia, professione, responsabilità sociali occupano le giornate dei credenti, i fedeli realizzano il comandamento dell’Apostolo: “Vi esorto… a offrire i vostri corpi…; è questo il vostro culto spirituale”. La missione della chiesa trova qui la sua parte più consistente, nella testimonianza a Cristo, che i fedeli danno agli uomini nelle loro relazioni interpersonali e sociali.

Valorizzare esperienze e competenze

Benedetto XVI, in un discorso del 16 maggio 2011, afferma che i fedeli non devono essere “soltanto fruitori ed esecutori passivi” del dettato del magistero, ma  “protagonisti nel momento vitale della sua attuazione”. Il papa estende quindi questo pensiero fino a dire che, rispetto al magistero, essi devono essere “anche collaboratori preziosi dei pastori nella sua formulazione”. Lo saranno “grazie all’esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze”. La sinodalità, quindi, dovrebbe esplicarsi nella valorizzazione delle esperienze e delle competenze: non esiterei a tradurre: sulla base dei diversi carismi. Risalta allora agli occhi, prima di tutto, il carisma degli sposi e dei genitori, in quanto il loro carisma è fondato, così come quello dei pastori, su di un particolare sacramento. Il loro sensus fidei nell’interpretare il vangelo della vocazione alla vita di famiglia è indispensabile all’insieme della vita della chiesa e non può essere ridotto alla sola virtù dell’ascolto del magistero. L’appello del papa “all’esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze” vale poi per ogni altro ambito, nel quale i fedeli laici hanno esperienza e competenza che i pastori della chiesa non hanno.

Sinodalità capitolo ineludibile dell’ecclesiologia

In conclusione, la restaurazione della forma sinodale della missione della chiesa non dovrebbe ridursi ad una banale democratizzazione delle decisioni da prendere a colpi di maggioranza e minoranza. Essa richiede, invece, l’attribuzione di congrue forme di autorità ai fedeli, accanto e in armonia con quella riconosciuta al ministero ordinato dei pastori della chiesa, proporzionate alla competenza carismatica di ciascuno, in modo che, a seconda dell’oggetto della decisione, venga riconosciuto, con l’attribuzione di una proporzionata forza deliberante, il carisma di ciascuno. Dar vita ad un nuovo ordinamento canonico che tenga conto di questi valori non è affatto un’operazione facile, poiché bisogna sia salvaguardato l’essenziale compito dei pastori di poter garantire, in forza del loro sacramento, l’autenticità della fede e l’unità della chiesa. Però l’esigenza di una riforma in questo ambito è ormai fortemente sentita nella coscienza ecclesiale e sarebbe buona cosa che teologi e canonisti lavorassero su questo capitolo dell’ecclesiologia, con i suoi problemi “de iure condendo”, insieme e con serio impegno.