Un solo mondo. Ed è santo. Ecoteologia, ultima frontiera

Claudia Fanti
www.adistaonline.it

Per la teologia, il dialogo con la scienza – dalla nuova cosmologia alla fisica quantistica fino alla neurobiologia – non è più una scelta, ma una necessità. Se infatti il cristianesimo vorrà continuare a parlare al mondo postmoderno, salvandosi così da un’altrimenti sicura irrilevanza, lo dovrà fare sulla base di idee e parole radicalmente nuove. Idee e parole che non possono in alcun modo prescindere da quanto sappiamo oggi dell’universo e dei suoi processi.

Un tema, questo, divenuto centrale nella ricerca teologica più avanzata, quella ad esempio di teologi come Roger Lenaers, con la sua proposta di riformulazione della fede in un linguaggio in cui l’uomo e la donna contemporanei possano riconoscersi (v. Adista nn. 44/09 e 26/12), o John Shelby Spong, con la sua rilettura post-teista del cristianesimo (oltre, cioè, il concetto di Dio come un essere che dimora al di fuori di questo mondo e che interviene in esso per realizzare la sua divina volontà; v. Adista nn. 94/10 e 28/12). E ciò in virtù del fatto che la visione della realtà trasmessaci dalla scienza spinge sempre più ai margini, ogni volta di più, la visione di un Dio come genitore-giudice da supplicare, obbedire e compiacere.

Ma se la nuova narrazione scientifica mette in soffitta le vecchie formulazioni, scardinando dalle fondamenta la visione negativa della materia (e con essa il mito del peccato originale), come pure l’idea di un “interventismo” divino al di fuori delle leggi naturali (così da sottrarre alla creazione l’autonomia di cui essa è dotata), la teologia può, allo stesso tempo, trarre da essa importanti spunti per comprendere, sperimentare e presentare Dio in modo radicalmente nuovo. Un Dio che non sta più al di fuori e al di sopra del cosmo, ma è, al contrario, incorporato all’universo, «come l’anima di quel corpo che è la natura», secondo le parole di Marcelo Barros: una visione definita come panenteismo, “Dio in tutto, tutto in Dio”. Un Dio che, ha sottolineato Andrés Torres Queiruga, «non ha bisogno di entrare nel mondo, perché, come Creatore, è già sempre al suo interno», così come, creando per amore, non deve essere convinto ad intervenire mediante le nostre preghiere (v. Adista Documenti n. 42/12).

È, questa, una rilettura di straordinaria portata, essendo davvero enorme la distanza che separa l’universo mentale delle rappresentazioni cristiane tradizionali – secondo cui il nostro mondo sarebbe completamente dipendente dall’altro mondo e dalle sue prescrizioni – dalla nuova visione in cui esiste solo un mondo, il nostro, che è un mondo santo, in quanto autorivelazione di quella Realtà originaria che intendiamo con la parola Dio, «un Amore che – come scrive Lenaers – genera tutto, che si esprime sotto forma di cosmo e si rivela in modo sempre più chiaro nel corso dell’evoluzione cosmica». E che, non a caso, noi possiamo sperimentare a partire dalla nostra stessa struttura biologica, come sembra indicare la scoperta di una regione dei lobi frontali – battezzata proprio “punto Dio” – che si attiva e si alimenta in occasione di un’esperienza spirituale (anche se studi più recenti indicano – ha scritto il teologo Leonardo Boff – che potrebbero esserci non una ma molteplici regioni del cervello «stimolate dall’esperienza di totalità e di sacralità»: non dunque solo un “punto” ma una “rete di Dio”, o, come l’hanno chiamata altri ricercatori, “mente mistica”). È come se – ha sottolineato ancora Boff – l’universo si fosse evoluto, in miliardi di anni, «fino a produrre nel cervello umano lo strumento attraverso il quale è possibile captare la Presenza di Dio che c’era da sempre, ma che non era percepibile per mancanza di una coscienza adeguata» (v. Adista n. 80/10).

Ma c’è un altro e ben più fondamentale motivo per cui la riflessione teologica deve prestare un nuovo ed attento ascolto al discorso scientifico: l’emergenza ambientale, che pone il cristianesimo di fronte alla necessità di un superamento di quei presupposti antiecologici – oggi negati dalla scienza – su cui è stato almeno in parte elaborato, come l’antropocentrismo o come, per l’appunto, la contrapposizione tra un piano superiore, soprannaturale, divino, eterno, a cui aspirare, e un piano inferiore naturale in cui ci muoviamo, luogo dell’imperfezione, del male e del peccato. Ad essere in discussione, cioè, è quell’idea strettamente trascendente della divinità che desacralizza e spoglia di dimensione divina la natura, riducendola a un contenitore inerte di risorse su cui l’essere umano può esercitare liberamente il suo dominio. Quell’essere umano che non è chiamato ad andare oltre la materia per divinizzarsi, che non viene da sopra, né da fuori, ma, al contrario, da sotto e da dentro, formato com’è degli stessi atomi che compongono tutte le stelle dell’universo: letteralmente e non metaforicamente “polvere di stelle”.

Da qui la necessità, su cui ha posto con forza l’accento la Commissione Teologica Internazionale dell’Asett (Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo; v. Adista nn. 112/09, 29/10, 6/11 e 30/12), di una chiara opzione per la salvezza del pianeta da parte dei credenti, e non solo per la via della difesa dell’ambiente – per quanto importante e urgente sia tale compito -, ma anche per quella dell’«assunzione di una mentalità eco-religiosa», in quanto solo con immagini nuove, con una visione non più antropocentrica ma biocentrica e cosmocentrica, «gli esseri umani si trasformeranno da inquilini incoscienti a custodi intelligenti e responsabili». Ed è proprio questa convinzione – che, cioè, non smetteremo di distruggere la natura finché non scopriremo la sua dimensione divina e non ci sentiremo parte di essa – a spiegare l’interesse crescente attorno all’ecoteologia testimoniato dai tanti articoli pubblicati sull’argomento, di cui questo numero monografico intende offrire una breve e non certo esauriente rassegna.