Ora bisogna cambiare, collegialità e pulizia. E’ una occasione irripetibile di NoiSiamoChiesa

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Ora bisogna cambiare, collegialità e pulizia. E’ una occasione irripetibile.
Le opinioni di “Noi Siamo Chiesa” sul conclave

Adesso, come nel 2005, c’è molta attesa per una svolta nella Chiesa cattolica romana che liberi le tante energie positive presenti nel Popolo di quanti credono nel messaggio evangelico e che soprattutto faccia ascoltare di più il Vangelo di Gesù nel mondo di oggi. I problemi irrisolti sotto Giovanni Paolo II sono rimasti tali, anzi si sono aggravati ma la convinzione che la situazione possa cambiare si sta diffondendo anche in relazione al deperimento di attese (lo sviluppo senza limiti da una parte, le ideologie sconfitte dall’altra) rispetto a cui la Parola di salvezza non è ininfluente.

Il collegio dei cardinali ha di fronte il compito di riconoscere la gravità della situazione ma di riconoscere i segni dei tempi, che sono anche quelli dell’attesa e della speranza. I cardinali hanno in mano insieme il Vangelo e il Concilio Vaticano II, li leggano, li meditino, contengono le indicazioni, implicite ma anche molto esplicite sulla strada sulla quale avviarsi. Le attese di chi si ispira al Concilio sono state espresse tante volte, anche in questi giorni. “Noi Siamo Chiesa” ha contribuito ponendo problemi che interessano tutta la Chiesa ma facendo riferimento soprattutto alla riforma del Papato perché esso è l’architrave di tutta l’attuale struttura della chiesa cattolica. Ricordiamo in sintesi le quattro questioni principali.

Ministero di fraternità

E’ opportuna e necessaria una direzione centrifuga nell’organizzazione della Chiesa. Il sistema, accentrato sulla figura e sul ruolo del papa è teologicamente discutibile e ha mostrato, soprattutto negli ultimi dieci anni, i suoi limiti anche dal punto di vista del buon governo. Il modello sinodale, ai vari livelli, deve essere ipotizzato, sperimentato e, infine, messo in pratica senza paura. La nomina dei vescovi – anche di quella del vescovo di Roma – deve finalmente tornare ad essere più partecipata e condivisa abbandonando il sistema attuale della segretezza e della discrezionalità più completa. In definitiva “si tratta di passare dal Magisterium al Ministerium, dal magis al minus, dalla dottrina alla sapienza, dal potere alla cooperazione” ( Vito Mancuso, da “La Repubblica” del 4 marzo).

La Curia romana deve essere fortemente ridimensionata trasferendo funzioni e autorità alle chiese locali. Subito – è una pretesa minima – si deve fare pulizia vera nei confronti di quanto è emerso negli scandali recenti, condannando chi ne è stato la causa, non chi li ha resi noti. Tutto deve essere portato alla luce, soprattutto tutto ciò che riguarda la pedofilia del clero. Il popolo di Dio giudicherà.

Insieme al ridimensionamento delle strutture curiali dovranno essere praticati stili di vita ispirati alla sobrietà e alla semplicità. I titoli onorifici appaiono oggi superati, oltre che ridicoli; in queste questioni la forma è anche sostanza. Anche per quanto riguarda la gestione delle risorse materiali è necessaria una svolta radicale. I beni della Chiesa sono beni di tutti, soprattutto dei poveri. Dovrebbero essere distribuiti per opere di giustizia sociale dove, come in Italia, sono eccessivi e devono essere gestiti dovunque con criteri di trasparenza, come ora raramente avviene, ed ispirarsi a uno spirito di povertà.

La pace e la giustizia sociale

E’ ormai convinzione diffusa che la gestione centrale della Chiesa e il papato devono superare l’ottica eurocentrica e “occidentale” che si è accentuata con il pontificato di Benedetto XVI. Su molte questioni un’ottica universalista darebbe maggiore credibilità all’azione dei cristiani e testimonierebbe meglio l’Evangelo. Il rapporto col “mondo” dovrebbe partire dal ben noto incipit della Gaudium et Spes e svilupparsi in sensibilità ed azioni concrete che già sono praticate in modo diffuso nel modo di vivere la fede da singoli credenti, famiglie, parrocchie, ordini religiosi, associazioni e chiese locali dell’universo cattolico.

Non è difficile elencare le testimonianze che, dal centro della Chiesa, dovrebbero essere considerate il DNA di chi crede nell’Evangelo. I diritti umani devono essere garantiti a tutti, a partire dai più deboli, dai più poveri; la libertà religiosa fa parte di questi diritti e deve essere rivendicata sempre, anche quando non riguarda i cristiani; le tante povertà, in aumento anche nei paesi ricchi a causa della crisi, esigono interventi concreti di primo soccorso ma anche l’educazione ad azioni politiche contro il pensiero unico di un capitalismo senza limiti, considerato come unico e immutabile modo di gestire l’economia; il rapporto iniquo tra paesi del Nord (dove la maggioranza della popolazione si dice cristiana) e paesi del Sud del mondo non deve durare un altro millennio; di fronte alla ripresa della corsa agli armamenti e alle politiche di potenza e di guerra non ci possono essere parole diverse da quelle che giudicano ogni guerra un male assoluto e che parlano di nonviolenza; da Roma deve venire un messaggio di denuncia della guerra e della violenza quale si ebbe in alcuni momenti del pontificato di Giovanni Paolo II, una denuncia che diventi l’espressione condivisa della coscienza dell’umanità e di tutti gli uomini di buona volontà

Per quanto riguarda la situazione italiana, col nuovo papa, insieme ai vescovi, si dovrebbe esprimere una posizione fortemente autocritica su quale è stato il disastro dell’appoggio di fatto alla linea di centrodestra negli ultimi anni che non è estranea alle gravi difficoltà dell’oggi.

Sapienza pastorale

E’ in crescita la consapevolezza, nella parte più partecipe della vita della comunità cristiana, che molte rigidità, mantenute con puntiglio dall’attuale struttura gerarchica papa/vescovi/parrocchie vadano modificate. Ci rifacciamo in particolare alle questioni che riguardano la sessualità e la famiglia. Esse dovrebbero avere minore centralità di ora nella pastorale e lasciare il posto a un atteggiamento fondato più sulla libertà di coscienza che sulla precettistica di una teologia morale ormai superata ed aspramente criticata un po’ dovunque.

Si deve considerare di più il vissuto ed il contesto in cui si trova il credente, che merita più comprensione e misericordia che non esclusioni o condanne. Pensiamo alle rigidità da superare: il divieto della contraccezione, il giudizio sull’omosessualità, lo stesso celibato imposto ai preti, il non accoglimento dei divorziati risposati all’Eucaristia. Per ognuna di queste situazioni vi sono ricerche teologiche e pastorali, proposte precise, vi sono credenti che soffrono e che pongono il problema. Vi sono impazienti attese per un orientamento che riconcili la fede di tanti con la loro presenza quotidiana nelle parrocchie e in ogni comunità cristiana e che impedisca che molti si allontanino dall’Evangelo a causa di posizioni che non vengono capite e che si fa fatica a ricondurre a insegnamenti evangelici.

L’altra grande rigidità da superare riguarda i ministeri: deve prevalere il servizio alla comunità e non norme ecclesiastiche che li rendono difficili. I problemi sono: il celibato obbligatorio del clero, l’esclusione delle donne dai ministeri, la riammissione dei presbiteri sposati e l’ammissione di viri probati ai ministeri ma soprattutto il superamento della condizione di subalternità e di scarsa autorità in cui si trovano, nella generalità dei casi, le donne religiose e laiche, che tanto reggono di fatto l’animazione e l’organizzazione delle nostre comunità cristiane.

Ecumenismo e dialogo interreligioso

Il movimento ecumenico, dopo i tanti passi fatti in seguito al Concilio, si trova ora in una impasse preoccupante. A Roma prevalgono le diffidenze verso le chiese della Riforma chiamate ancora “comunità ecclesiali”, l’intercomunione è vietata, troppe energie sono andate a rincorrere, inutilmente, i lefebvriani, con l’Ortodossia si ricercano affinità sulle questioni etiche mentre nulla si è fatto per quanto riguarda il ministero petrino, che è il vero nodo della discordia. Bisogna uscire dallo stallo, rimanere fermi come ora sta succedendo, significa, in questo tipo di rapporti, tornare inevitabilmente indietro. Ma andare avanti non è difficile, è possibile.

La “convivialità delle differenze” è una delle condizioni perché tutti i cristiani di tutte le chiese, fratelli tra di loro, partecipino alle sofferenze e alle gioie del mondo, cercando di testimoniare insieme l’Evangelo. Il dialogo ecumenico è una delle condizioni perché continui e si intensifichi il rapporto con le altre religioni, con l’islam e con l’ebraismo. Passa di qui la scommessa perché le fedi e le loro spiritualità possano essere il contributo più importante ad affrontare i tanti e gravi problemi dell’umanità in questa fase difficile della sua storia. Passa di qui la possibilità di un contrasto efficace nei confronti dei diversi fondamentalismi che nascono nelle chiese e nelle religioni e che si alimentano per la presenza in esse di un problema esasperato di identità e della logica “amico-nemico”.

Tanti contributi che vengono da lontano

“Noi Siamo Chiesa” spera che, in questa congiuntura particolarmente pesante per la Chiesa cattolica, più difficile che quella degli altri conclavi recenti, i cardinali sappiano andare “oltre sé stessi” e contribuire alla ripresa della riforma della Chiesa, anche pensando e progettando nuove strutture sinodali, sia centrali che periferiche. Molti testi e appelli sono stati scritti, ora e in passato, dal movimento di quanti, in Europa e nel mondo, si richiamano con particolare convinzione al Concilio. Tra gli altri ricordiamo le proposte per i primi cento giorni del pontificato elaborate nel 1978, ai tempi del conclave che elesse papa Wojtyla, dall’Istituto di scienze religiose di Bologna, fondato da Giuseppe Dossetti.

Il movimento “Noi Siamo Chiesa” (NSC) insieme all’International Movement We Are Church (IMWAC) dall’inizio della sua esistenza, nel 1995, ha fatto analisi e proposte sulla riforma del papato. In particolare, nel 2002, NSC ha raccolto nel volume “L’Agenda del nuovo papa” (Editori riuniti) indicazioni e approfondimenti per la chiesa del dopo-Wojtyla che mantengono tutta la loro attualità per il dopo-Ratzinger. Esso costituisce il contributo complessivo più libero, sincero e indipendente da vecchie culture, che esista sui problemi che si pongono alla Chiesa cattolica nel prossimo futuro.

I partecipanti al movimento “Noi Siamo Chiesa” invitano il collegio dei cardinali a tenere conto anche di questo contributo mentre pregano lo Spirito Santo perché li illumini. Una preghiera che non può in nessun caso essere un alibi per delegare all’Altissimo la propria personale responsabilità di una scelta così importante, e una scusa per non mettere in discussione le proprie resistenze ad una attuazione in grande del Concilio Vaticano II, e di ciò che lo Spirito dice, oggi, alla Chiesa, per essere fedele all’Evangelo di Gesù.

NOI SIAMO CHIESA
(aderente all’International Movement We Are Church)

Roma, 5 marzo 2013

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Il papato problematico di Benedetto XVI

Giovedì 28 febbraio Benedetto XVI ha terminato il suo ministero di vescovo di Roma. Il movimento “Noi Siamo Chiesa” è pienamente partecipe di questo avvenimento, quasi inedito nella storia della cristianità, e ribadisce che ne apprezza fino in fondo il significato ecclesiale, teologico e storico mentre prende atto dell’ardimento personale del pontefice. E’ un passo coraggioso, per il bene della Chiesa, certamente malvisto da una parte dell’establishment ecclesiastico, sconcertato dall’evidente demitizzazione della “sacralità” del papato che esso implica.

Perplessità, invece, il nostro movimento esprime per il fatto, piuttosto curioso e poco comprensibile, che, fissando la sua residenza all’interno della Città del Vaticano – e non in un lontano monastero – il papa emerito obiettivamente, e al di là di ogni dichiarata intenzione contraria, potrebbe condizionare il suo successore, rendendogli più difficile fare delle scelte che contraddicessero le sue.

Ma, soprattutto, “Noi siamo Chiesa” non può non sottolineare che tutti i gravi e urgenti problemi che Ratzinger aveva ereditato da Giovanni Paolo II sono rimasti irrisolti e, anzi, si sono aggravati in presenza dei rapidi cambiamenti in corso nella Chiesa e nel mondo.

Ovviamente, sappiamo bene che solo un certo distacco storico permetterà di dare un giudizio più ponderato sul pontificato di Ratzinger. Dandone intanto una prima valutazione, esso sembra a noi segnato più da ombre che da luci. Infatti, le grandi questioni alle quali si trova ancora di fronte la gestione della Chiesa, e soprattutto il suo vertice, dipendono dalla mancanza, evidente nel pontificato ratzingeriano, di una riforma delle sue strutture e della sua pastorale, conseguenza di una accettazione ambigua e reticente del Concilio Vaticano II. E, per questi ritardi, Benedetto XVI ha precise responsabilità, come abbiamo sottolineato più volte, anche noi nel nostro piccolo, che cerchiamo di essere membri attivi di questa nostra Chiesa.

L’ottica eurocentrica del suo magistero, l’insistenza sul “relativismo” e sul rapporto fede/ragione si sono rivelati insufficienti o sbagliati se rapportati a un insegnamento che dovrebbe – secondo noi – mirare ad essere punto di riferimento generale per i popoli e per le culture di tutto il mondo. Anche le sue tre encicliche risentono di questa impostazione di fondo del suo magistero, seppure contengano importanti meditazioni ed esortazioni sulle questioni ultime della vita di fede. Anche il suo vistoso riavvicinamento agli USA, ai tempi di George Bush, e lo scarso impegno contro quelle guerre che Giovanni Paolo II bollava con parole energiche, sono l’espressione di una carente e dannosa sensibilità geopolitica che ruota sempre attorno alla sensibilità della cristianità occidentale ed europea in particolare.

Sotto il pontificato di Benedetto XVI l’ecumenismo ha segnato il passo, a causa della sua convinzione di chiamare “comunità ecclesiali” le Chiese della Riforma e per le occasioni perse con l’Ortodossia; lo stesso si dica del dialogo interreligioso, anche se bisogna riconoscere che è andato ad Assisi a ripetere il grande incontro delle religioni del 1986. Grave è stata l’attribuzione (fatta da un papa tedesco!), nella visita ad Auschwitz, dello scivolamento della Germania nel nazismo come dovuto a una semplice “banda di criminali”. Gli errori nella scelta delle persone (in particolare del Card. Bertone) si è unita alla incapacità, o alla mancanza di vera volontà riformatrice, nel governo della Curia. Ne sono seguiti i ben noti intollerabili scandali e un ulteriore impulso alla sua elefantiasi con l’istituzione dell’inutile Consiglio per la nuova Evangelizzazione.

Altre decisioni, espressione diretta di un suo personale orientamento conservatore, come l’apertura ai lefebvriani e la ripresa della liturgia in latino della messa di S. Pio V, hanno portato a esiti del tutto negativi, nonostante i tanti sforzi impiegati. L’”incidente” di Regensburg e quello della preghiera del Venerdì Santo sulla “illuminazione” di cui avrebbero bisogno gli ebrei sono stati recuperati tardi e faticosamente. Tutte le questioni relative ai ministeri ecclesiali e all’approccio alla sessualità, che sempre più frequentemente sono all’ordine del giorno nella Chiesa a tutti i livelli, sono rimasti non solo congelati ma anche banditi dalla discussione. Ugualmente sono continuati i precedenti interventi punitivi sui teologi ritenuti non ortodossi, e non solo su quelli della teologia della liberazione, limitando così l’utilità per la Chiesa di contributi indispensabili alla sua riforma.

Lo scandalo della pedofilia del clero è esploso dall’esterno e non per un percorso autocritico delle gerarchie ecclesiastiche, le quali invece hanno protetto tutto e dovunque finché hanno potuto. Benedetto XVI ha inviato alcuni messaggi e segnali nella direzione giusta ma c’è la consapevolezza diffusa che troppo è ancora “coperto”. Mancano nella Chiesa autentici, chiari e generalizzati riti penitenziali. Stupisce, poi, che Benedetto XVI non abbia reagito nei confronti delle “Linee Guida” per combattere la pedofilia del clero emanate della Conferenza episcopale italiana, che non contemplano il dovere del vescovo di adire immediatamente i giudici civili.

Naturalmente, la valutazione del suo pontificato è comunque cosa complessa. A noi sembra che, insieme ai limiti e ai veri e propri orientamenti non condivisibili nella gestione della Chiesa, Joseph Ratzinger in tanti suoi discorsi abbia parlato in modo avvincente di Dio, del suo primato, della relatività di tutto di fronte al Mistero ineffabile e incombente. Nella Caritas in veritate (par. 78), per fare un esempio tra i tanti, ricorda che “l’amore di Dio ci chiama ad uscire da ciò che è limitato e non definitivo e ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti”. Ma, ci sembra di poter dire che proprio da chi afferma il primato di Dio ci si aspetta che – rispetto alla povertà, alla ricchezza e alla messa in discussione del potere – dovrebbe avere quell’audacia che non ha chi è abbracciato a valori mondani .

Per quanto riguarda l’apertura a qualche forma di collegialità, od anche solo di corresponsabilità, il pontificato di Ratzinger ha, se mai possibile, peggiorato la situazione. Tallonato da una Curia divisa e sotto il pugno di ferro di Bertone, il papa ha nominato i vescovi con scelte quasi sempre a senso unico e in modo sostanzialmente autocratico, negando spazio alla pluralità delle posizioni presenti nell’universo cattolico. In modo simile i Sinodi dei vescovi, sotto il suo pontificato, sono stati solo un momento di conoscenza reciproca e di discussione tra i vescovi ma hanno continuato a non avere alcuna funzione decisionale e tantomeno operativa nella gestione del centro della Chiesa. Così il ruolo del pontificato romano e della Curia romana è stato ulteriormente consolidato.

In questo scenario, la scelta di Benedetto XVI di dimettersi è stato, riteniamo, l’atto più innovativo del suo pontificato qualora però lo si viva, come noi cerchiamo di fare, come la desacralizzazione del ministero di Pietro e non come la desacralizzazione dell’uomo Joseph Ratzinger. Quest’ultima invece è l interpretazione accettata dalla Curia e dalla galassia dei tradizionalisti, e che pare emergere dalle stesse parole del pontefice. Ma ci può essere una eterogenesi dei fini e la sua rinuncia potrebbe sprigionare – questa la speranza – un cammino impegnativo di rinnovamento, ora e nel futuro, nel modo di essere e di organizzarsi della nostra Chiesa.

Perciò noi riteniamo – e lo ripetiamo con forza – che il Conclave dovrebbe porsi come primo problema quello di pensare a una organizzazione della Chiesa che preveda una nuova struttura di tipo sinodale con poteri deliberativi, abbandonando così l’attuale sterile Sinodo istituito da Paolo VI. Essa dovrebbe aprire il dibattito su tutte le grandi questioni aperte, decentrare funzioni e competenze alle Chiese locali, fare pulizia nell’apparato centrale della Chiesa e ridurne le dimensioni. Una struttura di questo tipo dovrebbe essere soprattutto l’espressione di tutto il popolo di Dio (compresi uomini e donne esterni al sistema clericale) tutta tesa a cercare di rendere credibile il messaggio dell’Evangelo. Il percorso da seguire ci sembra debba ispirarsi a quello tracciato dal Card. Martini nella sua ultima intervista.