Chiesa di base e Chiesa di vertice

Antonio Guagliumi
CdB San Paolo, Roma

Il gran parlare che si è fatto e si fa, prima sulle dimissioni di Benedetto XVI e poi sull’elezione del nuovo “vescovo di Roma” Francesco, ha fatto venire in primo piano due modi profondamente diversi di intendere il rapporto delle CdB con l’Istituzione “Chiesa cattolica”: uno di dialogo critico, l’altro di assoluta estraneità.

Il problema è nato col nascere delle CdB, ma si è col tempo estremizzato. Per entrare nel merito del problema prendo a prestito, tra i tanti, due esempi recentissimi che evidenziano la situazione attuale: il comunicato sulle “nuove speranze”  diffuso dall’Isolotto il 21 marzo e l’articolo dell’amico Mauro Magini sul numero 3/2013 di “Confronti”.

Il documento dell’Isolotto sembra porre le sue speranze solo nei movimenti di liberazione laica che si leverebbero dalle masse di tutto il mondo, e anche in Italia e che prescinderebbero totalmente da sovrastrutture gerarchico-religiose. Di tono ben diverso mi sembra invece il comunicato emesso dalla Segreteria nazionale delle CdB in data 15 marzo a proposito dell’elezione di Francesco I (e dei segni che l’hanno accompagnata) “che” – vi si dice – “induce a sperare in radicali mutamenti nel governo della Chiesa”.

L’articolo di Mauro Magini mostra, con le sue contraddizioni interne, il travaglio in atto anche nell’ambito della nostra comunità. Da una parte, infatti, l’autore pronuncia un netto: “chissenefrega della riforma della Chiesa”; dall’altro  riconosce la positività delle innovazioni introdotte da Giovanni XXIII (e dal Concilio, suppongo) e si rammarica che i suoi successori non abbiano continuato sulla sua strada; da una parte afferma che “Dio si aspetta da noi una risposta per le esigenze della storia” ma subito dopo  auspica che “la possente mano di Dio possa far nascere davvero una Chiesa fatta per l’uomo e non, come ora è, uomini per la Chiesa”.

E’ chiaro che dietro le due posizioni (dialogo si, dialogo no) vi sono due modi profondamente diversi di intendere il proprio impegno esistenziale: basta l’amore del prossimo, la lotta, del tutto laica, per la radicale trasformazione delle strutture che generano oppressione, come sembrerebbe di poter dedurre dal noto  passo di Mt 25,31 (dar da mangiare agli affamati, dar da bere a gli assetati, ecc.) oppure, oltre a questi bisogni primari, occorre tener conto anche dell’insopprimibile esigenza di una dimensione che va oltre il benessere materiale e che si chiama solitamente “spiritualità”? “Non si vive di solo pane”, risponde Gesù alla tentazione di trasformare le pietre in pane (Mt 4,4).

Non è difficile prevedere che porre l’accento soprattutto od esclusivamente sull’impegno nel sociale mette in secondo piano, e alla fine rende incomprensibile, lo stesso nostro riunirci in  quella che chiamiamo, dal greco,  ekklesìa  cioè la comunità dei “convocati”  dallo Spirito per ripetere quel gesto carico di significati, tutt’altro che disincarnati, che ci ha lasciato Gesù.

Ma poi, che cosa è “vertice” e che cosa è “base” nella Chiesa? Siamo sicuri che esista un confine certo tra quella parte della Chiesa con la quale è bene dialogare e un’altra parte con la quale ogni approccio è inutile segno di sudditanza? Quando il Card. Martini diceva che questa Chiesa è indietro di duecento anni rispetto alla modernità era di vertice o era di base? E il vescovo Bettazzi, il vescovo Nogaro, l’abate benedettino di Ensiedeln in Svizzera, che con l’appoggio del suo vescovo elenca senza reticenze tutto quello che non va nell’attuale Chiesa Istituzione (Adista – notizie 1/2013), è di vertice o di base? E con esempi del genere si potrebbe continuare  lungo.

Infine, quando la Comunità di S. Paolo manda ai cardinali una lettera auspicando che il nuovo vescovo di Roma si occupi di certi problemi urgenti per la Chiesa, c’è forse qualcuno così ingenuo da credere che ci saremmo aspettati una risposta dai cardinali? Certamente no. Ma scrivendo e diffondendo il nostro documento – non senza resistenze interne – abbiamo unito la nostra voce alle tante altre che da molte parti si levavano per chiedere più o meno le stesse cose. E, almeno simbolicamente, abbiamo riaffermato l’antico e innato diritto del Popolo di Dio a far sentire la sua voce nell’elezione del proprio vescovo.

Fin qui dati di fatto, domande e previsioni. Come posso concludere a livello personale? A mio parere un “chiamarsi fuori” dalla Chiesa, pur comprensibilmente motivato dai suoi ripetuti tradimenti del vangelo, rappresenterebbe una rinuncia non giustificata a quello che sin dall’origine è stato uno dei  compiti rivendicati dalle CdB, cioè contribuire criticamente a far maturare una Chiesa “altra”. Esso sarebbe  deleterio, specialmente in questo momento nel quale sembra che qualcosa “si muova”, sotto vari punti di vista:

– trasformerebbe le CdB in centri di volontariato e di impegno sociale, ma farebbe venir meno uno dei pochi luoghi alternativi a quelli offerti dalla Chiesa istituzionale (e ovviamente dai vari movimenti carismatici e apocalittici) per esprimere la propria fede soprattutto con la celebrazione dell’eucarestia e con la lettura critica  della Bibbia, senza tralasciare un forte impegno nel tradurre in pratica il valore sociale del segno eucaristico e smascherando la strumentalizzazione delle Scritture: un piccolo ma significativo prototipo di “Chiesa altra” con un’organizzazione “leggera”;

– isolerebbe le comunità di base italiane dal fermento che scuote la Chiesa alle sue basi, anche parrocchiali (per fare qualche esempio si pensi, in Italia, all’incontro dell’Istituto Massimo a Roma in occasione del 50° anniversario dell’apertura del Concilio e, all’estero, alla pfarrerinitiative dei parroci austriaci nonché a tutto il brulicare di iniziative che emergono dalla lettura del verbale del convegno europeo delle CdB trasmessoci da Massimiliano);

– tradirebbe le attese di coloro, e sono tanti e spesso silenziosi, che si aspettano dal nostro stare insieme come comunità anche un sorso di quell’acqua che Gesù dette alla samaritana; e parole nuove per dire le antiche esigenze di sempre: il concetto di Dio come forza di vita tesa al bene, la possibilità di una sua relazione con noi, che comincia dalla relazione tra noi. Il fratello e la sorella sono la prima forma di trascendenza;

– contrasterebbe col nostro impegno civile di contribuire, per quanto possiamo,  a costruire, anche per i credenti di fedi diverse, per i non credenti, per i diversamente credenti, un paese “laico” dove la Chiesa torni alla sua essenza evangelica e cessi di prevaricare col suo potere politico ed economico.

Il problema va quindi affrontato, nel rispetto delle diversità e nella sua complessità ma senza reticenze, con uno sguardo che prenda le mosse dall’interno delle nostre Comunità, per allargarsi all’Italia in primis, e poi a ciò che accade nell’universo cattolico e nell’ecumene umana.