Tre questioni decisive per il futuro della Chiesa di G.Squizzato

Gilberto Squizzato
blog.gabriellieditori.it

Quanti anni abbiamo dovuto aspettare per avere un papa che si presentasse al popolo come il vescovo di Roma; che rinunciasse alla croce d’oro per un’austera croce di ferro da pochi soldi; che chiedesse ai fedeli di pregare per lui piuttosto che esibire trionfalmente il suo potere sacrale; che si lasciasse abbracciare da uomini e donne invece di pretendere la genuflessione e il bacio dell’anello pontificale; che rivolgendosi ai giornalisti per rispetto di atei e non credenti rinunciasse a un’esplicita benedizione preferendo il silenzio della preghiera? Sì, è stato un gran dono per la chiesa di Roma essere affidata a un vescovo umile e semplice come Bergoglio, innamorato della povertà del santo di Assisi, e per l’intera Chiesa poter disporre di un pastore che vuole essere primus inter pares senza imporre agli altri vescovi un’anacronistica supremazia che li relegherebbe in una avvilente subalternità.

Non possiamo che rallegrarci di questa prodigiosa novità leggendovi i segni di un autentico “miracolo”: cioè di un evento stupefacente e imprevisto che potrebbe inaugurare una conversione profondamente evangelica del magistero e della gerarchia ai suoi gradi più alti. Al tempo stesso però non possiamo dimenticare quanta sofferenza questa conversione del papato è costata a tanti profeti, a tante comunità, a tante esperienze ecclesiali di base che questa povertà fatta propria da papa Francesco hanno chiesto, invocato, esigito per anni e anni, patendo dolorose emarginazioni, severi provvedimenti disciplinari, ingiuste condanne dottrinali, espulsioni crudeli dalla comunità ecclesiale. E’ proprio vero che se il seme non muore non può dare frutto: ma quanto dolore in quelle esperienze così amare che hanno schiantato intere esistenze! Ecco perché il mio grazie per la scelta di povertà di Francesco va anzitutto a quei profeti che l’hanno prefigurata come il primo indispensabile atto di conversione dell’istituzione, come condizione per restituirla alla sua libertà evangelica.

E’ per questi motivi che non mi unisco acriticamente al coro dei media che hanno sempre bisogno di spettacolo e che come vent’anni fa esaltavano l’esibizione di potenza di Giovanni Paolo II così oggi sono pronti a celebrare la povertà di Francesco per aver qualcosa da mostrare in tv. Mi azzardo a dire – e spero che le mie parole non appaiano irriguardose- che la povertà del papa è semplicemente un “atto dovuto” al quale non dobbiamo guardare con gli occhi infantili di chi ha bisogno di commuoversi con le immaginette da fiction televisiva di un papa sorridente che rinuncia al trono e ai suoi orpelli per scendere fra il popolo.

Prendo dunque sul serio quest’annuncio di conversione e guardo avanti, sapendo quanto coraggio servirà a papa Bergoglio per indurre la chiesa intera a mettersi sulla via della povertà. Perché le questioni aperte sono davvero tante e capaci da far tremare i polsi. Tre mi sembrano davvero decisive e molto più importanti che una pura e semplice riforma della curia vaticana o la trasparenza nei conti dello IOR.

La prima è quella dell’autentica povertà che se vuole essere davvero scelta preferenziale per i poveri non può esprimersi solo come compassione ma deve diventare testimonianza e azione per la giustizia. Amore e povertà senza giustizia non colmano la misura di grazia promessa dal Vangelo. Il vero giubileo e il riscatto dei deboli, la liberazione degli oppressi, la giustizia nelle relazioni sociali. E la giustizia è qualcosa che si realizza con la politica e con una conversione dell’economia globale. A che servirebbe una chiesa magari più austera ma che non impegnasse i suoi membri a lavorare giorno per giorno, nella concretezza delle situazioni, per restituire ai poveri ( e ancor più ai miseri e ai dannati della terra) la loro dignità –anche economica- di cittadini del mondo e la loro libertà di determinare il proprio futuro? No, non c’è solo da bonificare lo IOR: c’è da mettere in gioco la testimonianza evangelica dei credenti dentro le battaglie per la giustizia sociale. Leggiamo sui giornali che il prete – poi vescovo e cardinale- Bergoglio non si schierò con i fautori della “teologia della liberazione”: ma di liberazione non hanno forse bisogno – oggi ancor più di ieri- miliardi di uomini e di donne, le masse dei diseredati e degli emarginati che abitano le troppe periferie del mondo, quella vastissima minoranza di uomini e donne che anche nei paesi del nord ricco del mondo non hanno di che vivere e sono deprivati della possibilità di partecipare da protagonisti alla vita sociale? Io sogno che il vescovo di Roma, ben consapevole delle tante miserie dell’Urbe e dell’Orbe, convochi il sinodo dei vescovi (se non addirittura un nuovo Concilio) per ispirare un nuovo coraggio anche politico ai cristiani capace di impegni decisamente la chiesa non “per” ma “con” i poveri di tutto il mondo.

Vedo anche una seconda questione altrettanto decisiva, per il vescovo di Roma che a buon diritto, io credo, dovrebbe presiedere la Conferenza Episcopale Italiana: è la questione del Concordato e dell’anacronistica forma statuale del Vaticano. La povertà, per esser tale e mostrarsi credibile, non può essere solo quella personale dei pastori e dei fedeli (a cominciare dal papa) ma deve diventare unilaterale rinuncia ad ogni forma di privilegio. L’elenco sarebbe lunghissimo, per farmi intendere cito solo le scandalose esenzioni dell’IMU con cui Monti ha gratificato le casse delle diocesi e delle parrocchie. Ma ad essere coerenti con la povertà del Cristo non dovremmo anche chiederci che senso evangelico possa mai avere la nomina di un “segretario di stato” (la dizione è esattamente la stessa che si usa nel linguaggio statuale!) o la galassia dei “diplomatici vaticani” che in tuto il mondo vengono accolti con i riguardi e gli onori degli ambasciatori degli stati? Che bisogno ha la Chiesa di voler restare uno stato fra gli stati?

E poi c’è la dolente, irrisolta questione del “relativismo”. Venerdi 22 marzo, durante il suo discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, papa Francesco non ha mancato di segnalare con apprensione “la povertà spirituale dei nostri giorni, che riguarda gravemente anche i Paesi considerati più ricchi”, spiega che essa coincide con “quanto il caro e venerato Benedetto XVI chiama la dittatura del relativismo, che lascia ognuno come misura di se stesso e mette in pericolo la convivenza tra gli uomini (…) Non vi è vera pace senza verità! Non vi può essere pace vera se ciascuno è la misura di se stesso”. E la misura allora dove sta? Chi possiede il metro giusto per valutare idee, visioni del mondo, scelte etiche e politiche? Non dovrebbe esserci bisogno di ricordare che fu proprio il relativismo a por fine alle guerre di religione in Europa e che senza relativismo non c’è democrazia. La questione è davvero epocale per la Chiesa (le tante chiese!) di Cristo perché anche tralasciando la discussione storico-filosofica-etica sul relativismo basta prendere alla lettera l’affermazione di Francesco e chiedere alla Chiesa di metterla in pratica. Se è vero infatti che nessuno può assumere la propria verità e le proprie convinzioni come misura di se stesso (e delle relazioni con gli altri), questo deve valere anche per la Chiesa. E anche questa è una povertà alla quale i cristiani (a cominciare dal papa) si debbono convertire: rinunciare a farsi misura assoluta di ciò che è bene e di ciò che è male (nelle relazioni personali, matrimoniali, sociali, nel rapporto fra il singolo e la propria malattia e anche la propria morte, ecc.).

Imparare ad accettare che tutto può essere messo in discussione, a cominciare dalla nostre certezze morali, dalle nostre dottrine sull’uomo e sulla società, dalle nostre consuetudini: non per diventare diversi da ciò che siamo è ma per non obbligare gli altri a diventare identici a noi. E’ la questione dei “principi non negoziabili”: che tali possono anche essere, in una certa misura e con moderazione, dentro la comunità cristiana, ma che non possono e non devono essere imposti a tutta la comunità civile con gli strumenti dell’interferenza politica, del ricatto morale, dell’egemonia culturale sui più deboli. Imparerà la Chiesa (anzitutto in Italia) a non pretendere che la “sua” verità sia imposta come verità a tutti (se serve anche facendo fallire un referendum, come riuscì a Ruini obbligando i credenti a far mancare il quorum dei votanti a quello sulla procreazione assistita)? Non vogliamo chiamarlo “relativismo” perché la parola ci spaventa? Ma almeno impariamo a chiamarlo “relatività” delle diverse opzioni culturali ed etiche, rinunciando ad ogni forma, pur garbata, di assolutismo religioso, dogmatico e anche etico perché sono proprio gli assolutismi a minare alla base la pace fra gli uomini (di buona volontà) di tutti gli orientamenti.

Sono questioni decisive per una Chiesa autenticamente povera che si impongono come urgentissime alla coscienza di tutti i credenti e alle quali occorre dare risposte altrettanto immediate ascoltando tutte le voci che stanno dentro la Chiesa, accogliendo come un dono quella parresìa, quella libertà di parola che nei primi secoli era sentita e vissuta come un dono dello Spirito al servizio di tutti.