Pacem in Terris di G.Codrignani

Giancarla Codrignani

Intervento all’Assemblea nazionale convocata da gruppi ecclesiali, riviste e associazioni a 50 anni dalla Pacem in Terris di Giovanni XXIII – Roma, 6 aprile 2013

Mezzo secolo è quasi uscire dalla storia contemporanea. Ma le svolte cruciali vanno evocate – non rievocate – per andare oltre. Da Papa Giovanni abbiamo ricevuto una grande lezione non solo di dottrina, ma anche di metodo. Il bisogno assoluto dell’umanità è la pace universale, di cui nessuno ha mai fruito, perché, finché esiste un solo conflitto in una qualunque parte del globo, nessuno può affermare di vivere in pace.

Non viviamo, dunque, nella pace, anche se, contrariamente alla sfiducia dei nostri giorni, il mondo non è peggiorato dal 1971, quando c’erano la guerra fredda e la minaccia nucleare, l’America Latina era una sorta di lager governato da militari, l’Africa subiva l’apartheid e l’inedia. Ma ancora alimentiamo conflitti e guerre: resta insoluta la questione israelo-palestinese, nell’ex-Iugoslavia, in Iraq, in Libia abbiamo portato interventi di sangue.

Soprattutto, sottraiamo, a noi stessi e ai più poveri, vita e giustizia con la produzione e il commercio di armi sempre più sofisticate: non riusciamo ad essere tranquilli nemmeno dopo il recentissimo via libera dato dall’Onu al Trattato sulle armi per controllare le esportazioni perché cinquant’anni fa il “movimento” era attivo e in Italia, un paese allora senza alcuna legge formale di controllo, la campagna “contro i mercanti di morte” era nelle piazze, mentre oggi il pacifismo è ridotto alla ripetizione rituale della marcia di Capitini.

Tuttavia il Trattato sta dentro i “segni dei tempi”, quelli della pratica del “negoziato”, del “disarmo” e dell’istituzione dell’Onu e della Dichiarazione universale dei diritti (pur con qualche riserva), tutti finalizzati al bene comune mondiale (61, 75). Rappresentano indicazione di fiducia e di impegno per “tutti gli uomini di buona volontà”, laicamente; con maggior responsabilità per i cristiani, tenuti a cooperare per una convivenza umana di “verità, di giustizia, di amore, di libertà” (87). Anche il buon ordinamento delle comunità è “segno dei tempi” e trova riscontro nelle Costituzioni (45) e nei diritti, ripetutamente menzionati.

I “segni” meglio conosciuti sono, però, quelli della triade più direttamente pertinente alla modernità (21-25): l’ascesa politico-sociale dei lavoratori, l’ingresso nella vita pubblica delle donne, l’indipendenza di tutte le comunità politiche (“non più popoli dominatori e popoli dominati”) insieme con l’interdipendenza nella libertà (67).

Più che fatti esemplari sono indicazioni di merito. Ma l’ “epoca moderna” in cinquant’anni si è fatta più moderna. La distinzione tra l’errante e l’errore è meno ripetuta, ma non meno impegnativa. L’obbligo di essere “illuminati dalla fede e accesi dal desiderio del bene” e per questo “scientificamente competenti, tecnicamente capaci, professionalmente esperti” (77) resta immutato ma inevaso.

Se l’indicazione “pastorale” di Papa Giovanni è autorevole ma non dogmatica (che le dottrine sono fisse, mentre i movimenti sono dinamici vale non solo per la guerra-fredda ideologica, 83), la metodologia apre ad altri, nuovi “segni”.

C’è da dare effettività ai diritti, nei singoli paesi e nelle relazioni internazionali; da ricollocare il valore del lavoro; da rileggere l’ “ingresso delle donne” anche nella vita della Chiesa, tuttora patriarcale e inadeguata a recepire il magistero femminile, che non chiede un qualsiasi diaconato erogato a fatica (certo non teologica), ma un ripensamento della vita religiosa e della fede attento al genere fin qui escluso (quanto meno dai poteri che, per quello che comportano, le donne ricusano).

Le sorelle della Federazione delle religiose cattoliche americane hanno avuto difficoltà con le autorità vaticane che le ha contestate per “femminismo” e per indulgenza verso divorziati risposati, gay, questioni di inizio-vita e fine-vita. Eppure l’accoglienza dei fratelli omosessuali o il giudizio sull’embrione o il testamento biologico non chiedono divieti (nel civile – e nella Chiesa? – l’autorità deve essere conciliabile con la democrazia, 23), ma argomentazioni. La stessa ricerca scientifica, nell’infinitamente grande dell’universo o nell’infinitamente piccolo della cellula escono pur sempre dalle invenzioni che testimoniano la grandezza di Dio e quella dell’uomo” (1) e vanno consapevolmente affrontate. Ancora di più la ricerca teologica richiede analogo, ragionevole coraggio.

La Chiesa è in questione: non ha bisogno di greggi passivi, ma di cristiani adulti che siano non solo cittadini “fuori sudditanza” (23) nella società civile, ma consapevoli nelle comunità cristiane. La responsabilità “se fondata su rapporti di forza, non è umana” (16) anche dentro le strutture clericali. Urge un rinnovamento liturgico coraggioso e una riforma del diritto canonico, a partire dal ricomposizione dei segni dei sacramenti (il matrimonio finalizzato ancora al remedium concupiscentiae?, l’ordinazione con il celibato obbligatorio? l’Eucaristia agli omicidi pentiti e non ai divorziati?). La collegialità, l’ecumenismo, la libertà religiosa sono ancora timidamente riconosciute come esigenze urgenti di cammino rinnovato: è fondamentale che procedano speditamente.

I diritti vengono enumerati nella PT concretamente con i nomi di lavoro, acqua, casa, salute, istruzione, ricreazione…(39). I diritti politici sono “sociali per natura” (10) e la necessaria convivenza sociale richiede la partecipazione a costruire un ordine giusto. La crisi odierna acuisce i problemi economici, condiziona la fiducia e riduce i diritti di immigrati e rifugiati: si tratta della povertà, del tema rimosso dal Concilio e rimasto ai termini in cui era stato posto nel “Patto delle Catacombe”.

Sulla povertà complessa, quella che parte dal povero non per fornire interventi assistenziali (pur necessari), ma per pensare alla vita e alla storia alla luce delle ragioni del Cristo che, accusato di stare con impuri, gaudenti e beoni, scelse la povertà. La povertà degli apparati vale simbolicamente, ma il fasto delle beatificazioni e santificazioni senza numero che gratificazione è? Andare alla memoria di padre Pio e non a quella di Romero? Diciamo che la povertà è il mistero più forte davanti al quale tutti abbiamo paura.