Uomini (e donne) di poca fede

Nino Lisi
CdB San Paolo di Roma

Interrogarsi sulla fede, chiedersi cosa significhi e che senso abbia averne è un esercizio da vecchi. Io, almeno, lo faccio da vecchio. Da giovane no. Non ne avevo bisogno, saldo come ero nelle mie certezze. Credevo in tutti gli articoli del “credo” ed in tutti i dogmi, compreso quello sulla infallibilità del papa. Ora mi interrogo, cerco di capire.

Però è buffa la vita: è a rovescio. Da giovane, quando di esperienza ne hai poca, di cose ancora da imparare un’infinità e quel che hai capito (o credi di aver capito) è niente rispetto a quello che dovrai/potrai capire, avevi solidi convincimenti. Da vecchio, quando di esperienza ne hai accumulato e hai imparato più cose, non sei più sicuro di aver capito davvero quel che pensavi di aver capito e i convincimenti si disfano. E’ che più fai esperienza e più ti accorgi che non ci puoi fare affidamento totale, perché c’è sempre qualcosa di nuovo che può capitarti; più impari e più ti accorgi che quel che non conosci è enormemente di più di quel che sai. Ed allora, tornando alla fede, ti accorgi che è proprio una bella pretesa cimentarsi a pensare l’impensabile, a parlare dell’indicibile, a scrivere dell’indescrivibile. Devi dunque accontentarti di procedere per ipotesi e tentativi, di argomentare per analogie e similitudini, di provare a decriptare metafore. Più che di avere fede bisognerebbe parlare di cercare: cercare qualcosa in cui credere, che ti dia senso.

Non è comodo. Essere sicuri è tranquillizzante; porsi in ricerca, nutrirsi di dubbi, sentire che ogni supposizione è precaria non lo è affatto. La ricerca costa fatica, il dubbio che la sollecita può incutere timore. Ma fatica e timore sono il prezzo della libertà. La verità rende liberi, è scritto. E’ così se la cerchi, ma se credi averla trovata e di possederla ti ci rinchiudi dentro e non lo sei più.

Ho riflettuto su queste cose dopo avere sentito per radio Gabriella Caramore leggere la scorsa domenica in Albis il prologo del vangelo di Giovanni, quello che prima del Concilio Vaticano II tutti i preti leggevano alla fine di ogni messa, in piedi, alla destra dell’altare, con le spalle al popolo. Lo sapevo a memoria, tanto mi entusiasmava. In esso l’evangelista di fronte alla straordinarietà, alla eccezionalità dell’uomo di nome Gesù si risolve a pensare che le sue origini non possano trovarsi che direttamente in dio e che quell’uomo tanto fuori dal comune non possa essere altro che quel che di più intimo può avere dio, cioè il suo pensiero, la sua parola che si fatta materia ed ha preso corpo d’uomo. Il cerchio così si chiude: l’uomo va alla ricerca di Dio e torna avendo trovato l’uomo, tant’è che lo stesso evangelista darà del mentitore a chi affermi di amare dio, che non vede, e trascura di amare gli esseri umani che invece vede. Più che una questione di ortodossia si pone dunque una questione di ortoprassi. Gli esseri umani non puoi amarli che nei e con i fatti. Del resto il “giudizio” sarà non su cosa avrò creduto ma su quel che avrò fatto.

Mi è chiaro perciò perché nel canone che abbiamo recitato in comunità lo scorso giovedì santo abbiamo detto “ci sia sempre chiaro che la nostra eucarestia sarà imperfetta fin quando non saranno assicurati il pane e il vino, la vita e la gioia a chi non ce l’ha. Questa è la vera eucaristia. E che sarà sempre segno di contraddizione la presenza del pane e del vino sugli altari mentre le mense dei poveri ne sono prive; se noi ci nutriamo e lasciamo digiuno il Signore che ci attende tra gli ultimi”.

Se questo è vero, e penso che lo sia, mi sorge un dubbio: ma non è un sacrilegio che nella società di cui facciamo parte migliaia, milioni di persone non abbiano pane, dignità speranza e gioia? Il fatto che negli scorsi giorni, nelle Marche, una nostra sorella e due nostri fratelli hanno rifiutato di continuare a vivere, mi fa propendere per il si. Ed anche una compostissima vecchia signora che si accosta alle macchine ferme ad un semaforo vicino a casa mia, tendendo la mano. E tanti altri e altre, tutti i giorni, credo che attestino con la loro sofferenza la mia scarsa fede.