Bibbia e attualità

Antonio Guagliumi
CdB San Paolo – Roma

In questo tempo nel quale la cultura e la voglia di conoscenza critica sembrano sopite, anche la Bibbia non gode di buona salute e deambula confusa tra interpretazioni fondamentaliste (pensiamo ai movimenti apocalittici e carismatici), usi apologetici e l’indifferenza dei più. Se guardiamo poi alla “grande” informazione scritta o televisiva, la situazione è desolante. Anche quando vi si affrontano tematiche attinenti alla Chiesa o al fenomeno religioso, i pochi riferimenti che si fanno alle recenti scoperte delle scienze bibliche sono pieni di timidezze e autocensure, come se non si volesse dare troppo fastidio a qualcuno.

Quando si parla di Bibbia si va spesso incontro ad una obiezione di fondo: il bene si può fare anche non conoscendo la Bibbia. Certamente. Ma io cerco di sostenere, in questo mio breve appunto, che anche conoscerla criticamente è un bene e non conoscerla può significare connivenza col male.

Infatti la Bibbia, con la sua caratteristica vera o presunta di essere una via privilegiata di incontro con Dio, influisce certamente sulla storia e, come tutti i libri ritenuti “ispirati”, può essere fonte di grande bene e di grande male. E più la sua lettura viene lasciata a “professionisti” che siano anche organici a qualche “Istituzione”, più il pericolo di una sua strumentalizzazione aumenta. Già i profeti si erano accorti di questo e richiamavano il senso profondo del messaggio originario di fronte all’appropriazione e alla distorsione che ne facevano le classi dominanti, laiche o sacerdotali. La frase: “Misericordia voglio e non sacrificio” presente sia nelle scritture ebraiche che in quelle cristiane (Os 6,6; Mt 9,13) riassume bene questo problema. Nel medioevo e agli inizi dell’età moderna le “grida di dolore” dei movimenti pauperistici e la riforma luterana rappresentano tentativi di recuperare, in modi diversi, l’autenticità e la libertà evangeliche di fronte alla strumentalizzazione dei “Sacri testi” operata dai poteri forti. Non condivido ovviamente l’eccesso opposto: persone del tutto impreparate che interpretano la Bibbia come fa loro comodo, scegliendo i passi che sembrano utili per dimostrare le loro tesi e scartando quelli più problematici. “Riappropriarsi” delle scritture comporta un certo impegno, soprattutto per coloro – e sono i più – che non hanno mai fruito di una preparazione specifica. Sia benvenuto dunque l’aiuto di persone, libere da pregiudizi e appartenenze, disposte a mettere al servizio di chi è interessato la loro preparazione e le loro conoscenze.

Non per niente l’eventualità che il “popolo di Dio” si “riappropri” seriamente delle scritture e, recuperatone il senso profondo e originario, rinfacci ai poteri “sacri” lo strazio che ne hanno fatto, è da essi visto come il fumo negli occhi. I metodi di ricerca, in primo luogo quello storico-critico, hanno aperto prospettive nuove, alla luce delle quali risultano errate o quanto meno obsolete certe scelte operate nel passato e magari dichiarate infallibili. Così si spiega la lotta, che in questi ultimi decenni si è fatta sempre più serrata, degli gli ambienti conservatori contro quel metodo cercando di squalificarlo e di inquinarlo. Si dice, da parte di costoro, che il metodo storico-critico porterà sempre ad una conoscenza imperfetta se non è accompagnato da una lettura “di fede”; invece è proprio la confusione fra le due letture che rende fragili entrambe: come si fa ad avere (eventualmente) una fede se non si sa prima su che cosa questa fede dovrebbe basarsi? Sarebbe come fare l’elogio di una mela senza averla assaggiata. I tre volumi di Joseph Ratzinger su Gesù sono un esempio di questo tentativo. Anche nella costituzione conciliare Dei Verbum, che finalmente chiama i laici cattolici alla conoscenza delle scritture, i conservatori sono riusciti ad introdurre ad ogni piè sospinto l’ avvertenza che comunque l’ultima parola in merito spetta al “Magistero”, e questo vale anche per i biblisti. Ma il magistero non può nulla contro la scienza, come dovrebbe essere chiaro a tutti dopo Galileo, e se la scienza biblica, che pure non è una scienza “esatta”, dà per assodato, o per molto probabile un fatto, non c’è dogma in contrario che tenga.

Purtroppo queste nuove e importanti scoperte restano chiuse per lo più in ambito accademico (con felici eccezioni: ricordiamo sempre con gratitudine e rimpianto il nostro Giuseppe Barbaglio) e non passano affatto, o passano con il contagocce, come accennavo sopra, al grande pubblico. In questi giorni si è fatto sui giornali un gran parlare del Papa, del papato, delle sue origini e storia e contenuti. Illustri giornalisti, prelati e storici della Chiesa hanno fatto sfoggio della loro erudizione in merito. Ebbene, per quanto io sia riuscito a leggere e a sentire (che non è certo tutto il detto o lo scritto), nessuno ha fatto cenno di talune fondamentali e recenti scoperte, operate anche da studiosi cattolici, circa le origini e il fondamento del papato che, se conosciute e divulgate, faciliterebbero largamente una sua riforma in chiave moderna, come da molte parte viene richiesto e come sembra voglia fare, almeno in qualche misura, il nuovo vescovo di Roma, Francesco.

Faccio solo un paio di esempi, uno di esegesi biblica, l’altro di storia della Chiesa che però al primo si riconnette. Già da tempo alcuni studiosi della Bibbia, specialmente protestanti, avevano messo in dubbio che le famose parole che si leggono in Mt 16,18: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” fossero state veramente dette da Gesù, e si osservava che se anche Gesù le avesse dette non erano interpretabili nel senso che dà loro la Chiesa cattolica. Ma qualche anno fa un sacerdote e biblista cattolico statunitense, John P. Meier, ha, credo definitivamente e con tanto di imprimatur del suo vescovo, risolto la questione dimostrando in modo molto convincente attraverso l’uso appropriato dell’esegesi storico-critica che quelle parole non sono mai state pronunciate da Gesù, ma sono una costruzione di Matteo (l’unico che le riporta tra tutti gli evangelisti), per esigenze proprie della sua comunità (pp. 22 e 235 sgg. del III volume del suo “Gesù: un ebreo marginale”, 2001, Queriniana 2003).

L’altro esempio ce lo offre uno studioso tedesco del cristianesimo primitivo, Peter Lampe, questa volta protestante ma non smentito, che io sappia, da parte degli studiosi cattolici “seri”. Nel suo libro: “Cristiani a Roma nei primi due secoli” (traduz. inglese Londra, 2006) Lampe ha dimostrato che il primo vescovo monocratico di Roma (Vittore), è stato eletto, dalla comunità tutta, solo nel 189 d.C. dopo che dal 150 circa in poi si era avviato un movimento per unificare sotto un’unica guida le varie “ecclesie “ cristiane sparse per Roma, ognuna organizzata con propri presbiteri e vescovi. Per giustificare questo cambiamento, Ireneo di Lione ed altri hanno “creato” una “lista” di collegamento tra Pietro e Vittore che non trova nessun fondamento, anzi è contraddetta da quel po’ che sappiamo sulla struttura delle varie comunità (Chiese) romane fino alla metà del II secolo. Altro che successione ininterrotta da Pietro (ammesso che sia mai venuto a Roma) attraverso Lino, Cleto, Clemente, Evaristo ecc. via via fino all’attuale Francesco! Si aggiunga che l’autorità di questo Vittore e dei suoi immediati successori era limitata, prima di Costantino, alla sola Chiesa romana, pur avendo riflessi in tutta la parte occidentale dell’impero in quanto rappresentativa della Chiesa “peregrinante” nella città capitale dell’impero, dove certamente risiedeva una numerosa e stimata comunità di fedeli.

Da questi due esempi emerge in modo chiaro, a mio parere, una conseguenza già da molti osservata ma difficile da ammettersi a livello istituzionale: che la Chiesa è nata nella storia, con la storia si è sviluppata e con questa può e anzi deve continuare ad evolversi, pena la perdita di significanza. Non quindi una rassicurante “origine divina” che la protegge da ogni nefandezza, nessun dogma, o tradizione immutabile, o “principio non negoziabile” che non sia quello di testimoniare con coerenza l’insegnamento di amore e di condivisione di Gesù. Su queste basi si può ridiscutere sui suoi modi di essere e sulle necessarie, anche se “leggere” e decentrate forme organizzative. Su queste basi la Bibbia riconquista tutto il suo significato di storia di un popolo che cerca nella sua vita un Dio di liberazione e di giustizia. E meraviglia che essa ci accompagni in questa ricerca, mai sazia, come inesauribile specchio della sublimità o della nefandezza cui l’essere umano può attingere. La parola di Dio cresce con chi la legge diceva Gregorio Magno nel VII secolo.

Infine: la Bibbia non è soltanto un testo religioso; è una fonte preziosa per gli studiosi delle antiche civiltà e della storia del pensiero e – cosa che viene spesso dimenticata – è un testo letterario di prim’ordine. Chi ritiene che sia comunque tempo perso fare l’esegesi della Bibbia dovrebbe dire lo stesso dell’Iliade e dell’Odissea, o, per venire a noi, della Divina Commedia o dei sonetti del Belli. Il “Cantico dei cantici”, il Qoelet, il delizioso libretto di Giona, molti brani dei profeti, le parabole di Gesù, per citare solo alcuni casi, sono anche testi letterari di altissimo livello che richiedono tutti una esegesi per essere capiti e goduti fino in fondo. Ma tutto ciò richiede un po’ di fatica e di studio, entrambi elementi sempre più rari sulla scena odierna, la quale richiederebbe anch’essa una esegesi approfondita per evitare di riprodurre in politica quella dicotomia tra dominanti opportunisti e dominati privi di senso critico che l’esegesi storico-critica della Bibbia si sforza di smascherare.