«Non voglio morire a Guantanamo, aiutatemi»

Marina Mastroluca
L’Unità, 16 aprile 2013

Una cannula nel naso, per spingere a forza un po’ di nutrimento nello stomaco. Non è una procedura indolore e i carcerieri non fanno nulla per renderla più tollerabile: piombano nelle celle anche nel cuore della notte, legano i detenuti, li costringono a non lasciarsi morire come ultima, estrema, forma di protesta. Samir Naji al Hasan Moqbel, yemenita, è uno dei prigionieri in sciopero della fame a Guantanamo. Una protesta iniziata nel febbraio scorso contro una detenzione illimitata e senza speranza. «Sono detenuto a Guantanamo da 1l anni e tre mesi – racconta tramite i suoi avvocati al New York Times – non sono mai stato incriminato di alcun reato e non ho mai subito un processo. Avrei potuto ritornare a casa anni fa, nessuno pensa seriamente che io sia una minaccia, ma sono ancora qui».

Carcere di alta sicurezza. Extra-territoriale, per sfuggire ai vincoli della legge Usa. Guantanamo è una creatura nata dopo l’attacco alle Torri gemelle, giustificata dall’amministrazione di George W. Bush con la necessità di acquisire intelligence per evitare nuove aggressioni. Tutto in nome della sicurezza, anche le gabbie per polli destinate ai detenuti, i cappucci, la musica e le luci ossessive. L’assenza di un quadro legale di riferimento. Persino la definizione dei prigionieri come «combattenti illegali» era studiata per aggirare la legalità internazionale e la Convenzione di Ginevra.

Dei 779 uomini che sono transitati a campo X ray, solo sette sono stati condannati, sei rinviati a giudizio davanti a un tribunale militare. Nove sono morti, altri 86 sono stati dichiarati «idonei al rilascio»: non ci sono prove a loro carico, ma restano a Guantanamo, in attesa. Come Samir, sospettato a 24 anni di essere una «guardia» di Bin Laden e poi scagionato: a 35 anni aspetta ancora di poter tornare a casa, ma l’amministrazione Usa è contraria a rispedire nello Yemen tormentato da Al Qaeda gli internati della base cubana. E Samir si è stancato di aspettare.

Lo sciopero della fame a Guantanamo è iniziato il 6 febbraio scorso. Secondo il Pentagono sono 43 i detenuti che partecipano alla protesta, 11 dei quali sottoposti ad alimentazione forzata.- per i legali del giovane yemenita sono invece almeno 130 su 166: tanti, l’alimentazione forzata verrebbe somministrata in modo irregolare perché il personale medico del campo è insufficiente. «Non dimenticherò mai la prima volta che mi hanno messo il tubo di alimentazione nel naso – ha raccontato Samir – non posso descrivere quanto sia doloroso essere costretto a mangiare in questo modo. Vengo ancora alimentato a forza. Due volte al giorno mi legano a una sedia nella mia cella. Braccia, gambe e testa vengono assicurate con le cinghie. Non so mai quando arrivano. Alcune volte si presentano di notte, quando dormo».

La chiusura di Guantanamo era tra le promesse elettorali del primo mandato di Obama. Promessa mancata di fronte alle difficoltà di rimandare nei propri Paesi – Afghanistan, Iraq, Yemen …- ex sospettati di terrorismo, inaspriti da una detenzione durissima. Nei giorni scorsi l’Alto Commissario Onu per i Diritti dell’Uomo, Navi Pillay, ha chiesto al governo Usa di chiudere il carcere, parlando di «detenzione arbitraria» e di «violazione delle leggi internazionali».

Venticinque organizzazioni per la difesa dei diritti dell’uomo hanno manifestato davanti alla Casa Bianca esortando Obama ad agire. Venerdì scorso le guardia carcerarie sono intervenute con la forza per dividere i detenuti in sciopero della fame, sperando di fiaccarne la resistenza con l’isolamento. Ci sono stati scontri, sono state usate armi «non letali».

«Non voglio morire qui – dice Samir che spera che la protesta darà visibilità agli invisibili di Guantanamo -. Accetterò qualsiasi cosa pur di tornare libero. Oggi ho 35 anni. Tutto quello che voglio è vedere di nuovo la mia famiglia e avere anche io una mia famiglia. Guantanamo mi sta uccidendo».