Gorle, il punto di partenza di una nuova mobilitazione per la libertà religiosa

Marco Magnano
www.vociprotestanti.it

«Qui non si parla di urbanistica, ma di libertà religiosa». Questa la chiave di lettura della vicenda di Gorle secondo Paolo Naso, politologo e membro della FCEI, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia.

In un precedente articolo avevamo raccontato delle chiusure di decine di locali di culto in Lombardia in base ad una legge regionale 12/2005. Tra questi, il caso di Gorle, un piccolo comune della provincia di Bergamo, dove la comunità evangelica “Christ Peace and Love” si era vista imporre la chiusura dei locali per la violazione delle norme contenute nella legge. A distanza di poco meno di sei mesi, il TAR di Brescia, con un’ordinanza del 28 marzo 2013 ha deciso di restituire l’edificio alla chiesa, motivandola con il fatto che “paiono ravvisarsi aree di esercizio di una discrezionalità amministrativa” e anche “l’insistenza, quanto meno e allo stato di un danno grave ed irreparabile”, e demandando la decisione finale alla Corte di Cassazione, che dovrà stabilire quando e come pronunciarsi sulla vicenda.

Sempre secondo Paolo Naso, «il legislatore regionale è chiaramente entrato in un terreno che non gli appartiene, perché le questioni attinenti alla libertà religiosa non sono di competenza della regione, sia pure alla luce del Capo V della riforma costituzionale […], ma le questioni di libertà religiosa appartengono ancora alla legislazione nazionale costituzionale, e quindi nessuna regione ha l’autorità di legiferare su queste specifiche materie. In Lombardia hanno deciso di farlo indirettamente, cioè ponendo dei limiti molto forti alla possibilità di aprire un locale di culto. Da qui un’urgenza nel modo di vedere che è quella di far arrivare questo caso all’esame della corte costituzionale perché i termini per denunciare che lì vengano violate delle norme costituzionali essenziali ci sono tutti», un’idea che appare in linea proprio con quella del tribunale regionale, e che premia quindi la strategia seguita dai ricorrenti di porre la questione al di fuori dello specifico dato urbanistico. Sul merito, come detto, si dovrà esprimere la Cassazione.

Sembra invece definitivamente accantonata la differenza di vedute tra la FCEI e la COEN, la Conferenza Evangelica Nazionale (ex COEL), che nasceva, ci dice ancora Paolo Naso, da motivi strategici.

«[…] Quello che forse ci ha diviso in una fase iniziale – ricorda Naso –, cioè una logica di strategia diversa: la FCEI ha proposto negli anni una struttura molto ampia di rappresentanza di interessi delle Chiese evangeliche, ed è la CERS, la Commissione delle Chiese evangeliche per i rapporti con lo stato. […] Utilizzare la CERS come soggetto in grado di difendere gli interessi di alcune comunità evangeliche in Lombardia a noi sembrava la strada più ovvia e sensata, e invece in una fase iniziale si è pensato di concepire azioni locali non coordinate nazionalmente, e questo ha significato una specie di criticità, una frizione tra organismi diversi». Superati quindi questi elementi critici, «l’ipotesi che si sta studiando è la costituzione di un comitato regionale per la libertà religiosa, promosso in primo luogo da chiese evangeliche. I primi segnali sembrano essere molto positivi, sembra esserci davvero la possibilità pratica di creare un movimento trasversale, con una forte presenza evangelica, che richiama l’idea di fondo, quella che ci sta più a cuore».

La sfida non riguarda solo Gorle e la Lombardia, né riguarda solo i credenti e i membri delle singole chiese. «Non è la battaglia degli evangelici, e nemmeno la battaglia degli evangelici africani, ma è una battaglia per la democrazia in Italia, e che non sta soltanto agli evangelici e ai credenti, ma anche a tutti i cittadini italiani che hanno forte e vivo il senso della democrazia, della libertà e dei diritti fondamentali garantite dalla costituzione».

Il caso di Gorle poggia su un provvedimento del 2005 della Regione Lombardia: di cosa si tratta?

Iniziamo dalla cosa più semplice da dire: è un provvedimento che pone a rischio la libertà di culto in Italia, non c’è ombra di dubbio, perché se una comunità cristiana, musulmana o sikh decide di acquisire un immobile, un garage, una scuola o un negozio, e lo trasforma, rispettando gli standard di sicurezza, per farne un tempio, una chiesa o una moschea, secondo questo provvedimento commette un reato, e il comune può intervenire per sospendere la praticabilità di quest’immobile, mettendo i sigilli. Nel caso specifico, alcuni comuni potrebbero addirittura somministrare una pena alla comunità in oggetto e quindi addirittura procedere con la confisca o con un tentativo di confisca del bene. La questione è grave, perché una piccola norma sostanzialmente impedisce la nascita di nuove comunità religiose, quelle che non hanno antichi templi per tradizione, convenzione o disponibilità economica, ed impedisce alle nuove comunità religiose di qualunque confessione di aprire dei luoghi di culto e quindi di poter esercitare quel diritto costituzionale fondamentale ad esprimere il proprio culto non soltanto in forma privata, ma anche in forma pubblica e quindi avendo adeguati locali a disposizione.

Questo ha generato come ricaduta la chiusura di alcuni istituti.

Il problema viene da lontano, da una legge di ordine generale, che sembra non avere nulla a che fare con le questioni religiose, ovvero la legge 12 del 2005 sull’uso del territorio, con cui la regione Lombardia si è data le sue politiche di governo del territorio.

Nel 2006, su iniziativa della Lega Nord, è stato apportato un minuscolo comma, apparentemente insignificante, che rappresenta l’arma con la quale alcune amministrazioni, in opposizione alla presenza di immigrati alla loro possibilità di aprire moschee o chiese, mettono in essere questo meccanismo: se acquisisco come comunità religiosa un negozio, e intendo trasformarlo in un locale di culto, com’è avvenuto in passato per comunità evangeliche, pentecostali, testimoni di Geova e così via, oggi non posso più farlo, perché il comma impone che per i locali di culto, e soltanto per loro, non si possa ottenere una modifica della destinazione d’uso di un immobile, ma si debba ottenere una licenza edilizia. Vale a dire che se anche prendo il negozio e lo trasformo in chiesa, ho comunque bisogno di una licenza edilizia. In tutto questo, ottenere una licenza edilizia per una piccola comunità, che magari sta affittando il locale, è una cosa totalmente impossibile, quindi significa pregiudicare il diritto fondamentale alla libertà di culto in Italia.

Sia la FCEI ma anche altre realtà parlano proprio di questo rischio.

Sì, e io contesto invece l’idea che si tratti solo di una questione di ordine pubblico. Se il legislatore regionale voleva intervenire doveva limitarsi a precisare alcuni vincoli fondamentali, a cui la comunità religiosa che voglia aprire un locale di culto per il pubblico deve attenersi. Tuttavia l’intenzione qui era di segno diverso, e porre come condizione necessaria l’ottenimento dell’autorizzazione edilizia significa innanzitutto che una comunità religiosa non può affittare un locale ma deve necessariamente acquistarlo e non solo: in linea generale dovrebbe addirittura costruirlo, il che fa piazza pulita delle possibilità di tutte le piccole comunità di erigere una casa del Signore secondo la loro tradizione, e quindi il legislatore regionale è chiaramente entrato in un terreno che non è di sua competenza, e le questioni attinenti alla libertà religiosa non sono di competenza della regione, sia pure alla luce del Capo V della riforma costituzionale, quella inerente il federalismo, ma le questioni di libertà religiosa appartengono ancor alla legislazione nazionale costituzionale, e quindi nessuna regione ha l’autorità di legiferare su queste specifiche materie. In Lombardia hanno deciso di farlo indirettamente, cioè ponendo dei limiti molto forti alla possibilità di aprire un locale di culto. Da qui un’urgenza nel modo di vedere che è quella di far arrivare questo caso all’esame della Corte Costituzionale perché i termini per denunciare che di fatto lì vengano violate delle norme costituzionali essenziali ci sono tutti.

Ci sono stati in passato motivi di discussione con il pastore Riccardo Tocco, rappresentante della COEN, la Conferenza Evangelica Nazionale. Su quali basi?

Ora c’è un dialogo aperto sulla possibilità di lavorare insieme per affermare quello che sia la COEN che la FCEI hanno a cuore, cioè la possibilità di un libero esercizio del culto anche nella Regione Lombardia, persino nei comuni in cui le amministrazioni hanno pensato di poter chiudere locali di culto utilizzati da comunità cristiane o da comunità islamiche o anche da comunità buddiste.

Quello che ci unisce mi sembra molto più importante di quello che forse ci ha diviso in una fase iniziale, cioè una logica di strategia diversa: la FCEI ha proposto negli anni una struttura molto ampia di rappresentanza di interessi delle Chiese evangeliche, ed è la CERS, la Commissione delle Chiese evangeliche per i rapporti con lo stato. Questa commissione è il più grande organismo di rappresentanza dell’evangelismo italiano perché vi siedono le chiese del protestantesimo storico, le Assemblee di Dio in Italia, la federazione delle Chiese pentecostali, le Chiese avventiste, alcune Chiese libere, la Chiesa dei fratelli, fornendo quindi un’ampia rappresentanza.

Da questo punto di vista, utilizzare la CERS come soggetto in grado di difendere gli interessi di alcune comunità evangeliche in Lombardia a noi sembrava la strada più ovvia e sensata, e invece in una fase iniziale si è pensato di concepire azioni locali non coordinate nazionalmente, e questo ha significato una specie di criticità, una frizione tra organismi diversi, ma alla fine credo che abbiamo avuto un momento molto importante, condiviso, il 22 marzo, quando la FCEI e la CERS hanno organizzato a Milano un convegno di studi su questa materia, e gli attori erano tre: i giuristi, i quali unanimemente hanno rilevato l’incostituzionalità di queste norme, ed erano giuristi di diverso orientamento, dai cattolici ai laici, con culture diverse ma del tutto consonanti rispetto al giudizio su quello che sta accadendo, un secondo attore erano i politici lombardi, purtroppo tutti di opposizione perché i partiti di maggioranza, ad iniziare dalla Lega Nord, non hanno inteso accogliere il nostro invito e non hanno inviato alcun rappresentante.

Il terzo soggetto erano le comunità religiose della Lombardia, quasi tutte cristiane evangeliche, ma non solo. Questi tre attori rappresentano una nuova squadra che si pone nel dibattito pubblico in Lombardia: l’ipotesi che si sta studiando è la costituzione di un comitato regionale per la libertà religiosa, promosso in primo luogo da chiese evangeliche. I primi segnali sembrano essere molto positivi, sembra esserci davvero la possibilità pratica di creare un movimento trasversale, con una forte presenza evangelica, che richiama l’idea di fondo, quella che ci sta più a cuore. La battaglia di cui stiamo parlando non è la battaglia degli evangelici, e nemmeno la battaglia degli evangelici africani, ma è una battaglia per la democrazia in Italia, e che non sta soltanto agli evangelici e ai credenti, ma anche a tutti i cittadini italiani che hanno forte e vivo il senso della democrazia, della libertà e dei diritti fondamentali garantite dalla costituzione.