Dossier sui costi delle strutture per gli immigrati di R.Giardelli

Roberto Giardelli
Cdb di Oregina -Genova

C’è una fabbrica in Italia che non funziona, ma brucia 200mila euro al giorno di soldi pubblici. È la “fabbrica dei clandestini”, la rete dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), colabrodo con alti costi e scarsi risultati. Un flusso enorme di denaro pubblico che corre parallelo al flusso migratorio: se c’è un mercato che non sente la crisi, ma fiorisce nelle emergenze, è quello del contrasto all’immigrazione irregolare.

Mettendo insieme tutti i dati disponibili sugli stanziamenti destinati al sistema dal 1999 al 2011 raggiungiamo un importo complessivo di 985,4 milioni di euro (in media circa 75 milioni l’anno), quasi un miliardo di euro. Intensa è stata l’iniziativa dell’ex governo Monti: gli stanziamenti previsti dal decreto legge 151/2008 (101 milioni e 45mila euro per gli anni 2008-2011) e dalla L. 94/2009 (139milioni e 50mila euro per gli anni 2009-2011) hanno destinato ai Cie un totale di 239 milioni e 250mila euro. Quest’ultima legge ha stanziato complessivamente per la lotta all’immigrazione illegale (introduzione del reato di ingresso soggiorno illegale, Cie e esecuzione delle espulsioni) 287milioni e 618mila euro.

Alle risorse sinora considerate vanno aggiunte quelle necessarie per garantire la vigilanza nei centri. Nel 2004 la Corte dei Conti ha calcolato che per il mantenimento di 800 addetti alla vigilanza appartenenti alle forze dell’ordine sono stati spesi 26,3 milioni di euro (32.875 euro l’anno per operatore). Il costo è sicuramente salito negli anni successivi: nel 2009 gli operatori assegnati a questa funzione sono stati 1000.

”I dati forniti dalla Polizia di Stato sul numero di trattenuti nei Cie e la percentuale di rimpatriati nel 2012 dimostrano una volta di più l’uso demagogico e strumentale, a fini di propaganda politica, che di questi centri è stata fatta, sulla pelle dei migranti e contro lo stato di diritto, oltre che del rispetto dei più elementari diritti umani” . E’ quanto afferma Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci, ricordando che nel 2012, i migranti trattenuti in tutti i Cie italiani sono stati 7944. Di questi solo la metà (4.015) sono stati effettivamente rimpatriati con un tasso di efficacia (rimpatriati su trattenuti)  di circa il 50%. La denuncia sulle pessime condizioni in cui si trovano i detenuti, gli internati e gli stranieri nei Cie, come nelle carceri, è ormai unanime.

In tutta la Penisola si contano 13 Cie, per un totale di 1.901 posti, a cui si aggiungono 9 Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), i quali offrono in totale 5.744 posti letto. La situazione di disagio è stata denunciata più volte. A metà aprile 2012 era stato presentato a Paola Severino, allora a capo del dicastero della giustizia, il “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia” approvato, all’unanimità in marzo dalla “Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato”. Nelle 278 pagine del rapporto (sono inclusi anche i disegni di legge presentati nel tempo per introdurre il reato di tortura e il garante nazionale dei detenuti) c’è la radiografia del sistema carcerario e della penosa situazione in cui si trovano gli oltre 66mila detenuti in strutture da circa 46mila posti. Ancora  prima di quel rapporto sarebbe stato opportuno (ri)leggersi quello stilato nel 2007 dalla Commissione De Mistura e le pressanti raccomandazioni conclusive ivi formulate che avrebbero potuto consentire di affrontare il problema della “irregolarità” degli stranieri in maniera più efficace. Ma

anche in quella occasione, «poco o nulla fu fatto». Proprio come alcuni anni dopo, nel 2010, quando, a seguito di un altro corposo rapporto-denuncia di Medici senza Frontiere (MSF), alla classe politica mancò la volontà di affrontare i temi delle condizioni socio sanitarie nei Centri, lo stato precario delle strutture, le modalità di gestione, il rispetto dei diritti degli immigrati. Già il primo studio del 2004, “Cpt: anatomia di un fallimento”, sempre curato da MSF, non aveva lasciato alcun margine di dubbio sul malfunzionamento dei vari Centri e sul profondo malessere fra i tanti trattenuti, evidenziato da gravi episodi: risse, rivolte, atti d’autolesionismo, somministrazione di sedativi. Nel 2008 era stato introdotto lo schema di capitolato di appalto per la gestione dei centri per immigrati in cui venivano descritti per tutte le tipologie di Centri i singoli servizi che l’ente gestore doveva impegnarsi a fornire con l’obiettivo di superare l’approccio emergenziale nella gestione degli stessi e permettere alle prefetture un monitoraggio ed un controllo più stretti. Tuttavia la qualità dei servizi offerti all’interno dei Centri dipende nel dettaglio dal tipo di convenzione stipulata tra le singole Prefetture e gli enti gestori del servizio, sulla base delle risorse disponibili e della capienza del Centro; pertanto ciò rende molto variabile e di difficile determinazione nella fase dei controlli, ammesso che siano effettuati, la determinazione degli standard da rispettare e si sono riscontrate significative differenze, in termini di qualità dell’accoglienza, nelle varie strutture.

Il problema è che l’immigrazione irregolare non si può risolvere con norme penali, costruendo muri o trattenendo nei Cie persone per un “fermo” ingiustificato che può arrivare sino a 18 mesi. Un tempo di restrizione così prolungato, passato di fatto in uno stato di detenzione e senza aver commesso alcun reato, non può non causare conseguenze sulla salute fisica e mentale dei trattenuti.

Nonostante ciò la situazione non è migliorata. Anzi. La Commissione senatoriale che ha stilato il Rapporto 2012, nella parte introduttiva, ricorda che «….le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Centri di identificazione ed espulsione (…) sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri».

Soffermiamoci sull’inefficienza di queste strutture, una motivazione che va ad aggiungersi a quella (ben più rilevante dal nostro punto di vista) della loro disumanità per sollecitare una loro chiusura. Solo nel penultimo anno 2011-2012 abbiamo speso 18 milioni e 607mila euro ed una spesa preventivata di circa trenta milioni per l’anno 2012-2013.

A causa della “emergenza Lampedusa” solo con il decreto che ha istituito i tre Cie di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta e Kinisia, inizialmente tendopoli alla periferia di Trapani poi trasformata in Centro, sono stati stanziati ben dieci milioni di euro, di cui sei milioni per i lavori di ristrutturazione ed i rimanenti quattro per le spese di gestione. Dieci milioni per tre strutture che, secondo il decreto stesso, avrebbero dovuto funzionare «fino a cessate esigenze, e comunque non oltre il 31 dicembre 2011», dunque per pochi mesi. Invece questo stato di “emergenza permanente” è stato ulteriormente prorogato al 31 dicembre 2012 ed il governo Monti ha poi destinato oltre diciotto milioni di euro per il mantenimento di due dei centri di identificazione ed espulsione sopracitati: quello di S.Maria Capua Vetere (Ce) e di Palazzo San Gervasio (Pz). Sempre in relazione alla “emergenza Lampedusa” oltre ai 13 Cie “ufficiali” andrebbero poi conteggiati anche quelli temporanei e quelli “galleggianti”, vale a dire

le tre navi civili – Audacia, Moby Vincent e Moby Fantasy –, tenute ormeggiate nel porto di Palermo in cui sono stati rinchiusi per giorni circa 700 tunisini trasferiti in massa da Lampedusa, dopo le proteste e gli scontri avvenuti il 20 e 21 settembre del 2011. Una situazione davvero anomala ed irregolare  (e costosa: 90.000 euro al giorno solo per il noleggio delle navi), tanto da provocare manifestazioni e denunce da parte delle associazioni umanitarie che considerano le navi trasformate in Cie del tutto illegali, poiché in contrasto con l’articolo 5 della  Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, con l’articolo 13 della Costituzione, con gli articoli 2, 13, 14 del Testo Unico sull’immigrazione, ed infine con il regolamento Schengen sulle frontiere, che impone provvedimenti formali di respingimento o di espulsione, notificati individualmente e con la possibilità di farsi assistere da un difensore.

Infine, bisogna poi considerare che a metà 2011 è stato triplicato il tempo massimo di detenzione amministrativa nei Centri di identificazione e di espulsione: da sei mesi ad un anno e mezzo. Questo ha comportato un aggravio di spese, previsto dalla copertura finanziaria della legge 129 del 2011 con quasi 17 milioni per  l’anno 2011, e 120 milioni di euro ripartiti in tre anni, dal 2012 al 2014. I costi, già enormi, continuano a salire. Ma il sistema delle espulsioni non sembra molto efficace. Le stime parlano di circa 500 mila migranti irregolari in Italia. Secondo il dossier 2011 Caritas Migrantes, nel 2010 sono state trattenute nei Cie circa 7 mila persone e poco meno della metà  (48,3%) è stata effettivamente rimpatriata, cioè 3.399. Gli altri hanno ricevuto un invito ad “auto espellersi” dopo mesi di reclusione. Secondo i dati forniti dalla Polizia di Stato, nel 2012 sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i Centri di identificazione ed espulsione (CIE) operativi in Italia. Di questi solo la metà (4.015) sono stati effettivamente rimpatriati con un tasso di efficacia (rimpatriati su trattenuti) del 50,54% e pari al 1,2% del totale degli immigrati irregolari presenti sul territorio italiano.

Si conferma dunque la sostanziale inutilità dell’estensione della durata massima del trattenimento da 6 a 18 mesi (giugno 2011) ai fini di un miglioramento nell’efficacia delle espulsioni, dal momento che il rapporto tra i migranti rimpatriati rispetto al totale dei trattenuti nei Cie è incrementato di appena il 2,3% rispetto al 2010, anno in cui il limite massimo per la detenzione amministrativa era ancora di sei mesi. Rispetto al 2011, poi, l’incremento del tasso di efficacia nei rimpatri è risultato addirittura irrilevante (+0,3%). Per di più, se si compara il numero effettivo di rimpatri effettuati nel 2008 (anno in cui i termini massimi di trattenimento erano ancora di 60 giorni) con quello del 2012, si registra una flessione da 4.320 a 4.015. Il numero complessivo dei migranti rimpatriati attraverso i Cie nell’anno 2012 risulta essere l’1,2% del totale degli immigrati in condizioni di irregolarità presenti sul territorio italiano (326.000 secondo le stime dell’ISMU al primo gennaio 2012).

Per Miraglia dell’Arci, «se questi dati vengono confrontati con quelli relativi al 2010 (quando ancora il periodo massimo di trattenimento era di sei mesi) si scopre che l’incremento dei rimpatri è di circa il 2%, mentre nel 2008 (quando il periodo massimo di detenzione era ancora di 60 giorni) il numero assoluto dei rimpatri è stato addirittura superiore». Si conferma, dunque, l’inutilità della misura di progressiva estensione della durata massima da 6 mesi a 18 mesi (giugno 2011) del trattenimento rispetto al fine dichiarato, e cioè il miglioramento dell’efficacia delle espulsioni. E infatti, sottolinea l’Arci, «il numero complessivo dei migranti rimpatriati attraverso i Cie nel 2012 risulta pari all’1,2% del totale degli immigrati irregolari presenti sul territorio italiano». «E’ invece purtroppo dimostrato -sottolinea l’Arci- che l’allungamento dei tempi di detenzione nei Cie ha reso drammaticamente peggiori le condizioni di vita dei migranti trattenuti. Lo testimoniano le associazioni a cui è stato concesso di accedervi e molti degli enti gestori, che denunciano l’aggravarsi dei problemi organizzativi, logistici e sanitari. Ma lo testimoniano anche le tante, fughe e rivolte scoppiate nei Centri, per chiedere condizioni di vita realmente dignitose e fondate certezze sul proprio futuro.»

In molti casi i Cie attuano puro controllo sociale, costituiscono una doppia pena per chi ha commesso un reato, magari connesso al suo status giuridico. E così può succedere che, dopo aver scontato una pena in carcere, l’immigrato venga privato nuovamente della sua libertà e rinchiuso in un carcere per stranieri (il Cie appunto) in attesa di una improbabile identificazione ed espulsione. La stagione del diritto speciale per i migranti deve finalmente chiudersi ed il primo atto concreto in questa direzione dev’essere la soppressione dei Cie.

 

 

I costi dei CIE sono di tre tipi: costruzione/ristrutturazione delle sedi, gestione dei centri, spese per i rimpatri.

Per quanto riguarda le spese di costruzione/ristrutturazione (che sono spese una tantum in conto capitale) occorre tenere presente il fatto che si tratta quasi sempre di ex-caserme ristrutturate. Considerando, a titolo di esempio, il caso ben documentato di Torino, e prendendo a riferimento, come base di calcolo, i 78.000 €  per posto letto indicati dalla locale Prefettura per il CIE cittadino, e moltiplicando direttamente per 1.900,  numero totale medio dei posti a disposizione nei tredici (13) Centri presenti in Italia, otteniamo una spesa una tantum di circa 148 milioni di euro.

Per le spese di gestione dei servizi all’interno dei Centri è stata considerata una media ponderata di 45 € al giorno a persona (con i nuovi bandi al ribasso si scende a 28,50 €) che per 1.900 posti significa un totale di 31 milioni di euro l’anno (quando si completeranno i nuovi bandi: 20 milioni circa). Dividendo i 31 milioni per tutti i 1.900 posti dei CIE si ottengono 16316 € pro-capite all’anno. Con i bandi al ribasso si scenderebbe a 10.000 € pro-capite all’anno.

Infine ci sono le spese per i rimpatri: per ogni cittadino straniero rimpatriato, lo Stato italiano paga 5 biglietti aerei, quello dello straniero e quelli di andata e ritorno per i due agenti che lo scortano. Il dato è contenuto nel Rapporto della Commissione diritti umani del Senato su carceri e Centri di trattenimento per migranti senza permesso di soggiorno. Se lo straniero senza documenti viene identificato nel Cie ed il suo paese accetta di riprenderlo, viene organizzato il volo di rimpatrio coatto. La scorta sugli aerei è molto numerosa e rappresenta un costo perché gli agenti si sottopongono ad una formazione specifica ed a continui aggiornamenti. Abbiamo in Italia circa 600 operatori delle forze dell’ordine abilitati. Per farsi un’idea della spesa complessiva, si può ricorrere al dato del 2010: i dati di quell’anno ci dicono che sono state espulse 3.399 persone. Calcolando 10 mila euro a persona (carburante vettore + biglietti aerei per la persona espulsa e i due agenti di custodia che l’accompagnano all’andata con rispettivo viaggio di ritorno per entrambi), si arriva ad una cifra di circa 34 milioni di euro. Si usano aerei di linea oppure charter appositamente organizzati dall`Italia, o con altri paesi membri dell’Unione attraverso l’agenzia delle frontiere, Frontex. Occorre sottolineare che molti accordi di riammissione che garantiscono i rimpatri (come nel caso di Egitto, Tunisia e Nigeria) violano il regolamento Frontiere Schengen e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Con l’avallo dei consolati, consentono, infatti, delle vere e proprie espulsioni collettive, senza il riconoscimento individuale, ma solo con la generica attribuzione della nazionalità.

Nel pieno di una crisi economica che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, la legge di bilancio 2012 ha previsto un aumento delle risorse destinate alla attivazione, alla locazione e alla gestione dei Centri di identificazione e espulsione (Cie) per stranieri irregolari. I 103 milioni di euro stanziati nelle previsioni assestate per il 2011 sono diventati più di 174 nel 2012 (cap.2351) e oltre 216 per il 2013 e per il 2014, superando tutti i valori previsti negli allegati della finanziaria 2011. Consideriamo quindi solo la spesa corrente all’interno dei centri. Per un simbolico confronto, utilizziamo i dati della spesa sociale dei comuni italiani (Istat) nello stesso anno 2010, per le politiche di integrazione sociale degli immigrati (corsi di lingua italiana, mediatori culturali, ecc…). Questo tipo di spesa è stata di 200 milioni di euro nell’anno di riferimento. Al di fuori di essa vi sono solo i fondi europei per l’asilo ed i fondi del FEI (Fondi europei per l’integrazione) assegnati all’insegnamento dell’italiano, (entrambi gestiti dal ministero degli Interni).

Dividendo per i 100.000 ingressi del decreto flussi del dicembre 2010, otteniamo una spesa teorica di 2.000 € pro-capite all’anno,  per le politiche di integrazione, cifra che si commenta da sola.

Come spesa pro-capite, il rapporto tra spesa nei Cie e politiche di integrazione, è quindi di 8,3 ad 1 (16.666 : 2.000). Con i bandi al ribasso si scenderebbe a 5,3 ad 1 (10.555 : 2.000). Sono cifre che dovrebbero far riflettere sull’utilità di questi Centri. Il rapporto tra queste due voci chiave è quindi di circa 8 a 1.

 

 

Vorrei infine analizzare come è stata affrontata l’emergenza Nord Africa negli ultimi due anni. Nel 2011 dalla Tunisia e dalla Libia l’emergenza profughi ha portato sulle nostre coste 60 mila persone. Profughi, accolti come tali dall’Italia o emigrati in fretta nel resto d’Europa: solo 21 mila sono rimasti a carico della Protezione civile. Ma l’assistenza a questo popolo esausto e senza patria è stata gestita nel caos, dando vita a una serie di raggiri e truffe. Con un costo complessivo impressionante: la spesa totale è costata complessivamente un miliardo e 300 milioni di euro a fine 2012, in pratica 20 mila euro a testa per ogni uomo, donna o bambino approdato nel nostro Paese ma non ha risolto nulla dato che i soldi non sono andati a loro ma ai businessmen dell’accoglienza. Se qualcuno ha ricavato un profitto economico, infatti, queste sono state le cooperative, le associazioni nate all’improvviso o anche solide organizzazioni come la Croce Rossa e addirittura alberghi, agriturismi e case vacanze che, approfittando del panico del ministero dell’Interno, hanno firmato contratti di accoglienza nel momento in cui i profughi giunti a Lampedusa, in un impeto di federalismo, venivano “distribuiti” equamente nelle diverse regioni d’Italia. In sintesi una manna per affaristi d’ogni risma, cooperative senza scrupoli, albergatori spregiudicati. Per ogni profugo lo Stato ha sborsato fino a 46 euro al giorno, senza verificare le condizioni in cui viene ospitato. Inoltre la spesa sostenute dai Comuni per l’accoglienza dei minori nel 2012 stimata a 30 milioni di euro è rimasta totalmente a carico dei Comuni a cui va aggiunto un ammanco di circa la metà per il 2011. Dalle Alpi a Gioia Tauro, gli imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati a spese dello Stato. Le convenzioni non sono mai un problema: vengono firmate direttamente con i privati, nella più assoluta opacità. Grazie a questo piano, ad esempio, 116 profughi sono stati spediti, in pantaloncini e ciabatte, dalla Sicilia alla Val Camonica.

Il 28 febbraio scorso è scaduta la proroga per l’emergenza Nord Africa, decretata dopo l’arrivo nel 2011 di oltre 62mila migranti in fuga dalle rivolte della “Primavera araba”. I profughi rimasti in Italia devono ora lasciare le strutture che li hanno accolti. Si tratta di circa 13mila persone. Per ognuna di loro è prevista una “buonuscita” di 500 euro, come stabilito dal ministero dell’Interno. Per i migranti in uscita dai centri è prevista anche la concessione di un titolo di viaggio (un documento equipollente al passaporto), assieme al permesso di soggiorno per motivi umanitari. Una decisione del Viminale, questa, alla quale sono seguite le proteste di molte associazioni, Arci in testa. In data 1° marzo una nuova circolare del ministero dell’Interno riapre le porte dell’accoglienza prorogandola di altri sei mesi per tutti coloro che non sono andati via dai Centri per l’emergenza Nord Africa. Per capire la portata della nuova circolare, il Consiglio italiano per i rifugiati (CIR) fa le valutazioni seguenti: «Mettendo insieme i 7.400 profughi ancora in attesa di essere sentiti dalle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, i circa 1.100 profughi appartenenti a gruppi vulnerabili, le famiglie con bambini, un numero stimato di 1.300 persone in attesa di ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari e infine quelli che – e dovrebbero essere pressoché la totalità – attendono il rilascio del titolo di viaggio, si arriva alla popolazione quasi complessiva dei profughi che risultavano a febbraio ancora in accoglienza. E per queste categorie l’accoglienza viene prolungata dalla circolare. Si deve però togliere a questi il numero di quelli che con la buonuscita di 500 euro a persona, o in attesa di tale pagamento, sono andati via dai Centri a cavallo tra Febbraio e Marzo 2013 e che magari adesso si sentono ingannati considerando che quest’ultimo provvedimento del ministero dell’Interno è arrivato solo successivamente alla loro partenza». È un esempio eclatante, l’ultimo d’una  tragica serie, di caos legislativo; infatti nell’arco di due anni non è stato fatto abbastanza per garantire una reale integrazione di queste persone, uno sbocco lavorativo o la possibilità di ricongiungersi con i propri familiari, anche al di fuori dei confini italiani. Ci si è limitati a sistemarli in strutture d’accoglienza e a passargli una paghetta, circa 40 euro al giorno per persona, oppure somministrargli una sommetta, 500 euro a testa, ed una pacca sulle spalle, seguendo sempre la logica del sussidio. Ma le mancette con relativa pacca non risolvono alcun problema come dimostra l’occupazione avvenuta a Torino ai primi d’Aprile di quest’anno dell’ex Villaggio Olimpico da parte di oltre trecento tra profughi e rifugiati.

 

 

Attualmente la procedura di diritto d’asilo nei vari Paesi europei presenta disomogeneità nella sua applicazione e di fatto costituisce, per usare le parole del commissario europeo agli Affari Interni Cecilia Malmström, qualcosa non molto dissimile ad “una lotteria”. Nel 2012, su 268.495 richieste d’asilo ne sono accettate solo 71.580 (27%) – 196.920 quelle negate (73%).

Molto rigida la Francia: su 59800 richieste vi sono stati 51.145 dinieghi (solo il 14% le domande accettate). La più generosa risulta essere la Svezia che su 31.520 richieste ne ha accettato 12.400 (ossia ha detto sì al 39% dei rifugiati). L’Italia, invece, ha visionato 22160 richieste per respingerne 13.900 (8.260 persone sono state accontentate, il 37%, dato quasi equivalente a quello (35%)  dell’Inghilterra dell’ultraconservatore David Cameron). Da queste aride ma anche drammatiche cifre risulta evidente come un diritto fondamentale come quello d’asilo garantito dalla nostra Costituzione, come recita l’articolo 10 comma 3 in cui si dichiara Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge, venga sostanzialmente applicato in modo inadeguato. Ciò è dovuto anche al fatto che a tutt’oggi non esiste ancora nel Belpaese una legge nazionale organica su un tema tanto delicato e vitale che consenta di superare la vaghezza programmatica dell’attuale giurisprudenza ancorata al riconoscimento dello status di rifugiato basandosi sull’applicazione della Convenzione di Ginevra del 1951. La legge italiana non prevede forme di asilo umanitario per coloro i quali sono costretti a fuggire dal proprio paese in quanto vittime di persecuzione individuale ma per tutti i soggetti emigrati a causa di conflitti bellici, disastri naturali od eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti alla Comunità Europea; in tal caso però deve esserci l’emanazione di misure di protezione temporanea per decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Lo status di rifugiato è negato in base proprio alla generalizzazione delle cause che hanno indotto alla fuga ed alla ricerca di protezione, dinamica esplicativa meglio applicabile alle popolazioni che agli individui. In materia di riconoscimento dello status di rifugiato non esiste tuttora una legislazione organica; le Commissioni Territoriali per il riconoscimento Protezione Internazionale emettono troppo spesso dinieghi alle domande di riconoscimento, costringendo i richiedenti a far ricorso giurisdizionale per vedersi riconosciuto il loro status. Si rileva un’inadeguatezza pesante nel sistema generale di accoglienza, al di sotto degli standard minimi europei.

I respingimenti e le espulsioni notificati contro la legge, l’invio nei centri sulla base di criteri arbitrari, il trattenimento applicato in modo generalizzato e con forme illegittime, il sistema di accoglienza inadeguato rispetto alle esigenze reali, sono gli elementi di un quadro  particolarmente inquietante e il risultato di una procedura che presenta aspetti fortemente controversi, quando non anche incostituzionali.

Alla luce di quanto detto se dal punto di vista della rilevanza dei numeri e dell’efficacia l’attuale detenzione amministrativa si conferma essere uno strumento sostanzialmente fallimentare nel contrasto dell’immigrazione irregolare, il prolungamento del tempo massimo di detenzione nei Cie, deciso a metà 2011, ha invece drammaticamente peggiorato, come s’è detto più volte, le condizioni di vita dei migranti all’interno di queste strutture. Tale evidenza è stata sistematicamente riscontrata dai team di Medici per i Diritti Umani (MEDU) durante le visite effettuate in tutti i Cie nel corso del 2012 e confermata dagli stessi enti gestori e, sovente, anche dai rappresentanti delle Prefetture. Una delle criticità più evidenti, come denunciato nel II rapporto di Medici senza frontiere sui centri per migranti: CIE, CARA e CDA (2010) è che «nei CIE convivono persone con status giuridici differenti e negli stessi ambienti si trovano vittime di tratta, di sfruttamento, di tortura, di persecuzioni, così come individui in fuga da conflitti e condizioni degradanti, altri affetti da tossicodipendenze, da patologie croniche, infettive o della sfera mentale, oppure stranieri che vantano anni di soggiorno in Italia, con un lavoro (non regolare), una casa e la famiglia o sono appena arrivati». Inoltre le ultime proposte di metà aprile 2013 sui Cie dell’ex governo Monti, nella fase dimissionaria, non paiono realmente costituire una via d’uscita per una realtà da sempre tanto tragica quanto fallimentare ma piuttosto intendono introdurre un pacchetto di misure per rendere più efficienti da un punto di vista repressivo e più economico in termini di spesa queste strutture, il tutto nell’ottica rigorosamente neoliberista che ha caratterizzato questo governo “tecnico” e come lascito avvelenato a quello, subentrato poi, delle larghe intese. Farò cenno soltanto ad alcune di esse: l’affidamento dei centri a un solo ente gestore su tutto il territorio nazionale; la riduzione del periodo massimo di permanenza da 18 a 12 mesi (vista la sostanziale inutilità del precedente prolungamento); maggiore autonomia decisionale dei prefetti

nella definizione delle modalità di accesso; l’applicazione di standard sanitari omogenei e migliori in tutte le strutture, anche allo scopo di non creare incentivi (!?) alla fuga; isolamento dei violenti e trattamento premiale per buona condotta; modifica del capitolato d’appalto con regolamento unico ed altre, ancora, su cui sorvolo…

L’analisi di questo pacchetto di misure svolta da studiosi ed attivisti quali Fulvio Vassallo Paleologo, Alessandra Ballerini, Fulvio Miraglia, ciascuno nel loro ambito di professionalità e competenza ma tutti caratterizzati da uno spirito d’umanità autentica, come ho potuto constatare per esperienza diretta, concordano nel sottolineare come si punti ad una maggiore funzionalità di suddetti Centri ma in un’ottica di riduzione delle spese e non di effettivo rispetto dei diritti umani, attuazione quest’ultima resa impossibile, pur dopo anni d’una sperimentata serie di violazioni e fallimenti, dalla mancanza di una normativa chiara  ed applicabile per usare le parole illuminanti dell’avvocato A. Ballerini.

Le associazioni ed i migranti non chiedono la luna ma semplicemente l’applicazione di quel diritto all’accoglienza sancito nelle carte delle Nazioni Unite, ma puntualmente e sistematicamente calpestata dalla politica di questo Paese. Al momento la normativa legale riguardante gli immigrati, pur con alcune modifiche nel corso degli anni più di facciata che di sostanza, non li tutela affatto per cui verrebbe di esclamare nella patria del diritto la frase riportata nella vignetta sottostante scelta dallo scrivente a chiusura del suo dossier sulle strutture d’accoglienza, meglio sarebbe definirle di non accoglienza, dato che rispecchia, dietro l’effetto immediato di boutade tra l’amaro ed il provocatorio, la drammatica realtà del presente…