«Lo stupro è crimine contro l’umanità, crimine di genere e crimine contro l’infanzia»

Gianni Sartori
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Verso la fine del mese scorso, l’Alto Commissariato forniva dati inquietanti sugli stupri nei campi dei rifugiati somali mentre alcune Ong denunciavano l’esercito congolese per le violenze nel nord-est della Rdc. La situazione è sempre più drammatica anche per le donne siriane, vittime sia dei soldati governativi che dei combattenti ribelli: stando alle dichiarazioni dei medici, negli ospedali libanesi sono in continuo aumento gli arrivi di quelle incinte, altrimenti lo stupro subito rimane una «vergogna» privata. Ne abbiamo parlato con Bruna Bianchi, docente di Storia contemporanea all’Università Cà Foscari di Venezia.

– A quasi 40 anni dalla pubblicazione di «Against our will» di Susan Brownmiller che denunciava lo stupro come «arma repressiva» nei confronti delle donne, le cose non sembrano essere cambiate. Un suo parere…

«Lo stupro è onnipresente, non solo nelle situazioni citate, tanto in pace quanto in guerra. Le donne migranti che dal Messico cercano di attraversare illegalmente la frontiera con gli Stati Uniti, prima di partire prendono anticoncezionali sapendo che quasi certamente verranno violentate. In tutte le guerre civili contemporanee, il cui scopo è di distruggere un’organizzazione sociale, sradicare o annientare una comunità, gli stupri hanno raggiunto un’ampiezza e una ferocia estrema. Le donne, soprattutto in tempo di guerra, mantengono i legami della famiglia e della comunità e quindi occupano un posto particolare in questa logica della distruzione. Ucciderle e degradarle si è rivelata una strategia militare efficace per diffondere il terrore, costringerle alla fuga e rendere impossibile il ritorno».

– Che cosa ha rappresentato, anche simbolicamente, lo stupro in situazioni di conflitto come i Balcani, il Ruanda o la Repubblica democratica del Congo?

«Violentare, occupare il corpo della donna significa conquistare simbolicamente un territorio: lo stupro conquista, degrada, ripulisce lo spazio. Nei Balcani degli anni ‘90, tutti i gruppi etnici se ne sono resi colpevoli. L’opinione pubblica è rimasta particolarmente colpita dall’orrore dei “campi di stupro” organizzati dai serbi con lo scopo di far nascere “piccoli cetnici” da donne bosniache musulmane in base al pregiudizio che solo gli uomini possono trasmettere l’etnia. Si contava sul fatto che le donne, considerate “contaminate”, sarebbero state rifiutate dalla loro comunità e i figli abbandonati a un destino di marginalità. In Ruanda molti bambini nati da stupro sono stati arruolati nell’esercito. In Congo il fattore determinante è il controllo delle risorse minerarie e, quindi, lo sfruttamento del territorio. Gli stupri esprimono volontà di terrorizzare, umiliare, imporre il senso dell’inesorabilità di un destino di sottomissione totale manifestandolo attraverso l’umiliazione e la disumanizzazione della donna. Lo stupro inoltre rafforza lo spirito di complicità maschile, esalta il potere e l’autorità come valori inscritti nella virilità. Perciò oggi si parla di stupro come crimine contro l’umanità, di genere e contro l’infanzia. Nella cultura dominante il corpo femminile è una risorsa da sfruttare: pensiamo anche al traffico di ragazze a scopo matrimoniale, al turismo sessuale o alla prostituzione».

– Sulla prostituzione, anche in ambito femminista, non c’è sempre pieno accordo, o sbaglio?

«La prostituzione è una forma estrema di sfruttamento e oppressione, un turpe mercato alimentato da povertà e discriminazione che riduce ogni anno in schiavitù sessuale cinque milioni di donne, di cui un milione di bambine, inviate per lo più nei paesi occidentali dove l’accesso a prestazioni sessuali a pagamento ha avuto una crescita esponenziale. È considerata una servitù irrinunciabile e socialmente accettata, coperta dai media che riducono la questione alle “donne sfruttate” da un lato e a “pochi sfruttatori” che gestiscono i traffici. Una parte significativa della giurisprudenza femminista considera la prostituzione come tortura in quanto l’uso del corpo delle donne a fini di piacere rientra nei “trattamenti disumani e degradanti”. Secondo un’altra corrente di pensiero femminista si parla invece di sex work, pensando di sottrarre le donne alla svalorizzazione».

– A suo avviso è possibile tracciare una linea di demarcazione tra i metodi adottati dagli eserciti, o da milizie legate al potere di gruppi etnici dominanti per fini economici, e quelli dei “movimenti di liberazione”? Ho in mente i gruppi guerriglieri latino-americani del secolo scorso o le milizie libertarie nella guerra civile di Spagna che semplicemente fucilavano gli stupratori, soprattutto quando provenivano dai loro ranghi?

«Ritengo che quando si prendono le armi sia difficile sfuggire allo spirito del militarismo. In Guatemala, a esempio, sia l’esercito sia i gruppi paramilitari e i guerriglieri che si resero colpevoli di stupro condividevano la stessa immagine della donna, simbolo della terra e oggetto sia di appropriazione che di protezione. Le donne riproducono la nazione fisicamente e simbolicamente, incarnano la moralità di una comunità, mentre gli uomini la proteggono, la difendono e la vendicano. Il corpo femminile è il luogo simbolico del territorio della nazione, sia per lo stato sia per i movimenti identitari, oggetto della protezione o dell’esecrazione maschile. La concezione maschile della vergogna e dell’onore è un nodo cruciale per comprendere le dinamiche degli stupri di massa. Si pensi alla Partizione dell’India quando tra settantacinquemila e centomila donne furono rapite e violentate e molte altre uccise, o spinte dai propri famigliari a togliersi la vita per non essere stuprate dagli uomini dell’altro gruppo religioso». (…)

– Volendo individuare i fattori economici all’origine dell’oppressione subita dalle donne, contro chi punterebbe il dito?

«Tra le opere che hanno dato un contributo decisivo alla conoscenza della posizione delle donne nella società antica non si può non menzionare The living goddesses dell’archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas. L’opera dimostra che nell’Europa antica nell’arco di alcuni millenni (dal 7000 al 3000 a. c.) si erano sviluppate diverse società matrifocali nelle quali la donna in quanto madre, associata alla natura portatrice di vita e di morte, aveva un ruolo fondamentale a livello simbolico e religioso nella pratica sociale. La studiosa descrive queste culture, poi sopraffatte dalle invasioni delle popolazioni indoeuropee, come pacifiche, prive di gerarchie e di forti differenze di classe. Altri studi hanno disegnato un quadro che in parte rientra nelle linee tracciate da Engels; l’egualitarismo originario e la condizione delle donne iniziarono a declinare quando esse persero l’autonomia economica e quando il loro servizio, inizialmente pubblico nel contesto delle comunità o dei villaggi, fu trasformato in un servizio privato nei confini della famiglia».

– Tale trasformazione è da considerare più un frutto della natura umana o della cultura?

«Come femminista rifiuto la dicotomia tra natura e cultura. Il femminismo, e in particolare l’eco-femminismo, hanno criticato il pensiero oppositivo. È impossibile separare la natura dalla cultura; si pensi alle prime relazioni delle donne con l’ambiente naturale: spinte dalla volontà di nutrire e proteggere i figli, le donne svilupparono la prima vera relazione produttiva con la natura; in questo processo esse acquisirono una conoscenza profonda delle forze generative delle piante, degli animali, della terra e la tramandarono, ovvero crearono la società e la storia».

– E per il futuro? Vede qualche possibile alternativa allo stato di cose presente?

«Il futuro di una comunità veramente umana richiede che gli uomini, per preservare la loro stessa umanità e dignità, vogliano e sappiano riconoscere e far propri i valori della produzione e del sostegno della vita, cambiare il modo di pensare, di essere nel mondo e nella relazione con le donne, rifiutare la violenza. Per quanto riguarda i movimenti: al momento attuale manca la connessione tra femministe, pacifisti, ambientalisti, antispecisti (ma penso anche a chi si batte per i diritti dell’infanzia, contro lo sfruttamento minorile, in difesa delle minoranze, degli indigeni…). Da questo punto di vista il caso del Congo, da cui erava- mo partiti, appare emblematico: di fronte alla violenza sugli inermi, sulle donne e sui bambini, alla distruzione delle foreste, all’estinzione degli animali, alla tragedia dei profughi non è più consentito avere sguardi parziali, occorre connetterli, sia a livello teorico che pratico».