La dimenticabile enciclica firmata papa Francesco, ma targata Ratzinger

Valerio Gigante
Adista Notizie n. 27 del 20/07/2013

Ratzinger «aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi».

Scrive così papa Francesco nella enciclica Lumen fidei, a proposito dell’apporto dato dal suo predecessore alla elaborazione di questo primo documento del suo pontificato. Il grosso dell’impianto, insomma, l’attuale pontefice lo ha trovato già pronto. Poteva farlo pubblicare così com’era dalla Libreria Editrice Vaticana, a nome di Joseph Ratzinger, ma avrebbe così tolto il crisma papale alla terza fatica del suo predecessore che, dopo l’enciclica sulla speranza (Spe Salvi) e quella sulla carità (Caritas in Veritate) intendeva chiudere la “trilogia” con una riflessione sulla fede.

Poteva allora firmare l’enciclica apponendo accanto al nome di Francesco anche quello del vescovo emerito di Roma. Ma il gesto è apparso a Bergoglio forse troppo “rivoluzionario” rispetto alla tradizione ed alla secolare prassi ecclesiastica. Finisce così che a portare la sola firma di Francesco è un documento che per esplicita ammissione dell’autore è stato in gran parte concepito e scritto da qualcun altro. I “riduzionisti” sostengono addirittura che l’intervento di Francesco sia limitato ai soli capitoli dal 55 al 60. Resta comunque difficile ipotizzare che Francesco abbia portato correzioni sostanziali a ciò che Ratzinger aveva già compiutamente scritto.

Al di là del numero di capitoli, o passaggi, attribuibili all’uno o all’altro, l’enciclica – 91 pagine per 58 paragrafi – evidenzia in ogni caso che, a scapito della firma in calce, la mano prevalente è quella del pontefice tedesco e non di quello argentino, che assume così in modo pressoché totale l’orizzonte teologico e pastorale del suo predecessore. Ci sono i riferimenti a Martin Buber, Rousseau, Wittgenstein, Dostoevskij, Eliot, quelli al teologo tedesco Romano Guardini, c’è il “pallino” di Nietzsche tanto caro (in senso oppositivo, ovviamente) alla teologia di Benedetto XVI; ci sono paragoni come quello tra la fede e le cattedrali gotiche, dove «la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra»: tutti elementi che denotano chiaramente l’identità dell’estensore.

Più in generale la Lumen fidei denuncia la teologia ratzingeriana soprattutto nella contrapposizione tra fede cristiana e mondo moderno, nella polemica contro il relativismo, nell’ancorare la ricerca teologica all’obbedienza al Magistero. Insomma, il testo che doveva essere insieme il testamento spirituale di Ratzinger e il programma pastorale di Bergoglio, non pare un testo destinato a passare alla storia.

Altra questione non secondaria, quella dei diritti d’autore. Sotto Benedetto XVI, nel 2006, la Segreteria di Stato pose il copyright sui discorsi e gli scritti del papa: più onerosi i diritti sugli scritti solenni come le encicliche, meno quelli su Angelus, catechesi del mercoledì, allocuzioni varie. Ma da allora ogni testo che ha per autore il papa o un qualsiasi dicastero della Santa Sede può essere pubblicato solo dalla Libreria Editrice Vaticana o su sua autorizzazione. Che può essere concessa a terzi in via non esclusiva e previo pagamento di una cifra che oscilla tra il 3 e il 5% del prezzo di copertina, con anticipo da concordare caso per caso in base alla tiratura (ad es.: encicliche 5%, altri documenti 4%, raccolte di discorsi 3%). All’epoca (v. Adista n. 9/06), commentammo: «Vi immaginate le prime comunità cristiane che si vedevano arrivare le lettere degli Apostoli o a pezzi e bocconi, o solo per pochi in grado di versare sonanti sesterzi?». Ecco, almeno su questo aspetto papa Francesco avrebbe forse potuto dare un segnale di discontinuità. Invece, nulla.

Il buio e la fiaccola

Entriamo nel merito del testo. Anzitutto, la spiegazione del titolo: «La luce della fede» non è altro che la riproposizione della metafora attraverso cui la Chiesa ha proposto nei secoli ai suoi fedeli la fede, fiaccola che disperde le tenebre dell’ignoranza e del peccato, che “illumina” il cammino di ogni credente; certo, con l’avvento della modernità la fede «ha finito per essere associata al buio», è diventata sinonimo di oscurantismo: «Si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere».

Ma non è così. E il papa mette in guardia dal ritenere, sulla scorta del pensiero di Nietzsche, che la fede sia in contrasto con la ragione ed il pensiero critico: l’idea, cioè, che «la fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani». Al contrario, «la fede non è un fatto privato» e non è in contrasto con la ragione, anche se oggi viene spesso ridotta ad «autenticità soggettiva», perché la verità comune fa paura e viene identificata con l’imposizione intransigente dei totalitarismi. Qui probabilmente interviene Bergoglio: «Il credente – scrive infatti il papa – non è arrogante» e «la fede non è una verità che si imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo». Ai contemporanei, ai quali spesso «una verità comune fa paura», l’enciclica ricorda che «la fede risveglia il senso critico» e «allarga gli orizzonti della ragione». Ma non pretende di essere totalizzante: «Non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino».

Poi un’altra esortazione di Bergoglio (che Luigi Accattoli nel suo blog ha rilevato ripetere nella sostanza un testo dell’allora cardinale di Buenos Aires, Noi come cittadini noi come popolo, Jaca Book, 2013): «Non facciamoci rubare la speranza, non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino, che “frammentano” il tempo, trasformandolo in spazio. Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza».

C’è poi un riferimento critico alla secolarizzazione, che avrebbe promesso agli esseri umani una società migliore, impossibile però da realizzare senza Dio: «Nella modernità si è cercato di costruire la fraternità universale tra gli uomini, fondandosi sulla loro uguaglianza. A poco a poco, però, abbiamo compreso che questa fraternità, privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere». Fino a sostenere che «quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno».Altro pallino ratzingeriano, il riferimento al sacramento del matrimonio, terreno indispensabile dove far crescere e maturare la fede: «È come se nella famiglia – spiega il testo – si preannunciasse il tema musicale della fede, e ne venisse predisposta la sinfonia». «Penso anzitutto all’unione stabile dell’uomo e della donna nel matrimonio. Essa nasce dall’esperienza responsabile della bontà della differenza sessuale, per cui i coniugi possono unirsi in una sola carne e si rendono capaci di generare una nuova vita, riconoscendo la bontà del Creatore, la sua saggezza e il suo disegno di amore».

Di seguito proponiamo una rassegna di commenti italiani ed esteri all’enciclica Lumen fidei

Tina Beattie, direttora del Centro di Ricerca “Digby Stuart” per la Religione, la Società e la promozione della persona umana dell’Università di Roehampton (The Tablet, 6/7):

«Lumen Fidei è la prima enciclica ad essere promulgata sotto Papa Francesco, ma è un atto di ventriloquismo papale. Nello stile e nei contenuti questa è probabilmente l’ultima e più grande enciclica di papa Benedetto, sebbene in alcuni passaggi sia profondamente problematica. Chiede di essere letta non come la prima enciclica di un papa pastorale che rappresenta l’avvento del cattolicesimo mondiale, ma come l’ultimo fiorire intellettuale di un papato europeo isolato dalla complessa realtà moderna e immerso nelle sue istituzioni barocche. Ben organizzata ed erudita, è un’elegia ricca di eloquio, perfettamente calzante con questa grande tradizione. Ed è anche molto idealista sulla Chiesa e profondamente pessimista sulla società occidentale post-illuminista, che è al centro delle preoccupazioni del testo […]. E preoccupato non della sfida all’ingiustizia, alla violenza e alla povertà, ma del nichilismo esistenziale di una cultura che ha voltato le spalle a Dio. […] Si vede poco o nessun interesse per ciò che sta al di fuori della tradizione europea, né per coloro che chiedono l’elemosina sui marciapiedi e languono nelle prigioni e nei centri profughi delle società sempre più divise dell’Europa. Si cerca quasi invano la mano del pastore argentino di cui porta la firma.Saranno in molti ad accogliere positivamente questa enciclica con il suo elegante intreccio di temi biblici, teologici e filosofici, ma ho il sospetto che altri contrasteranno la sua visione desolante della società moderna e la sua visione romanzata della Chiesa».

Vittorio Bellavite, coordinatore nazionale della sezione italiana di Noi Siamo Chiesa (5/7):

«La riflessione dell’enciclica Lumen Fidei potrebbe essere importante se non fossero assenti questioni di tipo più pastorale che incombono sulla vita dei credenti e della Chiesa e che sono, mi sembra, condicio sine qua non per una nuova evangelizzazione all’inizio del terzo millennio. Provo ad elencarne tre, richiamandomi a riflessioni che “Noi Siamo Chiesa” fa da lungo tempo:– Come la fede di chi si riconosce nel Magistero della Chiesa Cattolica e nella successione apostolica (che l’enciclica richiama) può essere praticata e vissuta, verso l’unità nella diversità, con i tanti che fanno parte di altre Chiese che credono nell’Evangelo? Non c’è una fede che ci è del tutto comune?– Quale percorso si deve continuare nella direzione del riconoscimento, avviato da Giovanni Paolo II, che la fede cristiana nella storia è stata spesso assunta come ispirazione ideale per guerre di religione, per guerre contro gli “infedeli” e per la demonizzazione del popolo ebraico? Insomma qual è la nostra vera fede? Non è quella evangelica della nonviolenza e della convivenza con tutti? Di tutto ciò non si può tacere quando si parla di fede.– Quale “fede” ci è comune con l’essere umano che è in ricerca, che si dice non cristiano o agnostico, che si arresta di fronte al mistero del creato? O che appartiene ad altre religioni? E poi non è forse necessario anche un modo nuovo di pensare a Dio e di credere in lui di fronte ai nuovi problemi e alle nuove sensibilità poste dalla scienza, dalla bioetica, dalla sociologia, dalla ricerca filosofica? E anche il dubbio del credente deve essere interno al discorso sulla fede».

José Ignacio Calleja, docente di Morale Sociale Cristiana alla Facoltà di Teologia dell’Università di Vitoria-Gasteiz (Eclesalia, 9/7):

«Lumen fidei rappresenta la teologia della fede tipicamente universitaria e colta, ma idealista e disincarnata. […]. Fortemente inserita nella teologia biblica e sistematica europea postvaticana – neoscolastica moderata – profila una ricezione piuttosto insufficiente del valore salvifico della storia umana della giustizia, perché propone il Dio di Gesù senza passare per la vita del Gesù di Dio. E così, la sacra mentalità della storia, degli impegni liberatori, della primazia dei più poveri, della lotta per la giustizia a partire da loro e con loro, della sofferenza ingiusta per mano di altri umani, del peccato strutturale, dello stesso Dio che in Gesù non solo muore, ma muore ucciso per ambizione di potere degli umani più potenti, tutto questo all’enciclica sfugge.[…] In Lumen fidei la fede si definisce a partire da se stessa […] perché il Dio di Gesù non riceve chiarezza dal Gesù di Dio e il mondo reale non riceve chiarezza dalla dignità delle vittime dell’ingiustizia perpetrata da esseri umani potenti. E così non è possibile dare alla fede cristiana tutto il significato di Incarnazione. Vogliamo arrivare al cielo senza neanche passare per la terra, e questo non è più possibile che nella caverna di Platone. Francesco, abbiamo molti compiti da fare».

Vito Mancuso (la Repubblica, 6/7):

«Se l’enciclica è il documento più importante che un papa ha a disposizione, e se la prima enciclica rappresenta solitamente l’atto programmatico del nuovo pontificato, che significato occorre dare al fatto che papa Francesco ha scelto di fare suo un testo scritto quasi integralmente da papa Benedetto? Se Francesco avesse sempre seguito in tutto il suo predecessore la cosa sarebbe perfettamente coerente, ma egli finora ha fatto piuttosto il contrario. […] O forse l’assunzione del testo ratzingeriano sotto la propria firma è funzionale proprio al desiderio di papa Francesco di voler sottolineare, al di là di differenze contingenti, la totale consonanza dottrinale con papa Benedetto sulle cose fondamentali quali la fede e la morale? Io penso che a questa domanda occorra rispondere positivamente e che solo così si spieghi l’effetto un po’ stucchevole di vedere a firma di papa Francesco un testo integralmente ratzingeriano.[…] La Lumen fidei spiega l’origine della fede unicamente a partire dall’alto, riconducendola a Dio e dichiarandola “dono di Dio”, “virtù soprannaturale da Lui infusa”, “dono originario”, “chiamata” (il termine “dono” ricorre 21 volte, “chiamata” 11). La domanda sorge spontanea: chi non ha la fede non ha quindi ricevuto questo dono divino? E se fosse così, non si tratterebbe in questo caso di un’inspiegabile ingiustizia? […] Invano il lettore cercherebbe nell’enciclica dei due papi non dico la risposta, ma anche solo l’assunzione del problema […] problema che è poi l’espressione dell’inquietudine alla base della modernità. Come sempre nella teologia ratzingeriana, anche in questa enciclica la modernità diviene solo un avversario da combattere, non un interlocutore con cui istituire un dialogo fecondo. […] Se è tramite la fede in Cristo che ci si salva, chi è privo della fede in Lui è necessariamente destinato alla perdizione? I non credenti e i fedeli di altre religioni possono partecipare in qualche modo alla salvezza oppure ne sono necessariamente esclusi? La risposta dell’enciclica papale si configura all’insegna del modello teologico noto come “inclusivismo”, teso ad affermare che la fede “riguarda anche la vita degli uomini che, pur non credendo, desiderano credere e non cessano di cercare”. Il testo arriva a sottolineare che “nella misura in cui si aprono all’amore con cuore sincero già vivono, senza saperlo, nella strada verso la fede”. Si tratta in sostanza della teologia dei “cristiani anonimi” del gesuita Karl Rahner che papa Francesco (oppure papa Benedetto?) fa propria. Resta da vedere quanto questa posizione sia veramente rispettosa verso i non credenti o verso i fedeli di altre religioni: che cosa direbbe un cattolico di essere considerato un buddhista o un musulmano anonimo?».

Leonardo Boff (6/7):

«L’enciclica non porta nessuna novità spettacolare che possa richiamare l’attenzione della comunità teologica, dell’universo dei fedeli o del grande pubblico. È un testo di alta teologia, ricercato nello stile e colmo di citazioni bibliche e dei Santi Padri. […]. Si vede chiaramente la mano di Benedetto XVI nelle argomentazioni raffinate, di difficile comprensione anche per i teologi […]. È un testo rivolto all’interno della Chiesa. Parla di luce della fede a coloro che già si trovano nel mondo illuminato dalla fede. È, cioè, una riflessione intrasistemica.Inoltre, il linguaggio di questa enciclica è tipicamente occidentale ed europeo. Nel testo sono citate solo autorità europee. Non si prende in considerazione il Magistero delle Chiese continentali con le loro tradizioni, teologie, santi e testimoni della fede. Bisogna sottolineare questo solipsismo, giacché in Europa vive solo il 24% dei cattolici. Il resto è fuori: il 62% nel cosiddetto Terzo e Quarto mondo. Mi immagino un cattolico sudcoreano o indiano o angolano o mozambicano o anche un andino a leggere questa enciclica: capiranno molto poco. […]Si constata nell’Enciclica una dolorosa lacuna che le sottrae gran parte di rilevanza: non affronta le crisi della fede dell’essere umano di oggi, i suoi dubbi, le sue domande cui neanche può rispondere: dov’era Dio quando lo tsunami o Fukushima hanno trinciato migliaia di vite? Come credere ancora, dopo i massacri di indigeni fatti dai cristiani, dopo le migliaia di torturati e assassinati dalle dittature militari degli anni ’70-’80?».

Rodrigo Olvera, avvocato dei diritti umani, (Atrio, 8/7):

«Quando ho letto l’enciclica Lumen Fidei, la prima cosa che mi è venuta in mente è che riflette perfettamente i suoi autori: il già noto settarismo e pessimismo antropologico di Ratzinger con un po’ di devozionismo di Bergoglio. […].La considerazione principale è che le presunte luci della società contemporanea, specialmente a livello di filosofia e di scienza, sono in realtà elementi di oscurità. Solo la fede illumina realmente (dove per fede si intende quella cattolica, o almeno cristiana; il testo riflette un’arroganza intollerabile nel considerare solo la fede in Cristo quando parla di fede, como se la fede in Buddha o quella in Kwan Yin non esistessero ugualmente). In questo senso, è realmente un Manifesto Antimodernista. […].C’è una considerazione secondaria: la ricerca di libertà e di autonomia è negativa e pregiudiziale. Questo è uno degli aspetti più nocivi del documento. Insiste sul fatto che si deve rinunciare alla pretesa di autonomia e accettare la perdita di libertà (lo dice rispetto a Dio, ma facilmente si arriva all’autorità e al “Magistero” vaticano); ma affermando che realmente i limiti alla libertà personale imposti dalla fede non sono una perdita».

José Ignacio González Faus (Miradas Cristianas, 7/7):

«Avventure “nel segno della liberazione” o nel senso che “conoscere Jahvé è praticare la giustizia” o ancora nel senso di apprendere quello che significa “misericordia voglio e non sacrifici” restano fuori dalla prospettiva di questo testo. Così, finisce per essere un’enciclica destinata ad offrire una buona coscienza illuminata ai settori più conservatori, senza esigere da questi alcun cambiamento di direzione come quello di Zaccheo. Buonissima coscienza, in quanto il testo è intellettualmente molto ricco, chiaro ed erudito […]. In ogni modo, mi resta il significato migliore dell’enciclica: il gesto delicato di Francesco nei confronti del suo predecessore, assumendola come propria affinché il lavoro non vada perduto. Questo sì che significa “la verità nella carità”».