Un’altra politica abitativa oltre il ghetto dei campi nomadi

Ingrid Colanicchia
Adista n. 36 del 19/10/2013

«Non ce la facciamo più a vivere nei ghetti. Costringerci a farlo rappresenta per noi un atto di discriminazione». Scriveva così, in una lettera aperta dell’agosto scorso al sindaco di Roma, Sandor Dragan Trajlovic, portavoce della comunità rom di via Salviati – sgomberata poi a metà settembre – denunciando la segregazione spaziale, culturale e sociale che le comunità rom, sinti e camminanti che vivono in Italia sperimentano sulla propria pelle.

Posti ai margini delle nostre città, difficilmente raggiungibili, a volte piantonati dalle forze dell’ordine, i “campi nomadi” che il nostro Paese ha scelto e istituzionalizzato come soluzione abitativa per queste comunità hanno costi pesantissimi, non solo in termini “umani”, ma anche monetari e non costituiscono affatto, come si ripete a piè sospinto, la scelta più economica.

A portare alla luce la contraddizione di un Paese che asserisce di non avere risorse sufficienti per una politica abitativa differente e che poi spende milioni di euro per confinare in un non-luogo queste persone, configurando una “economia da ghetto”, è il Rapporto “Segregare costa. La spesa per i ‘campi nomadi’ a Napoli, Roma e Milano” che le associazioni Berenice, Compare, Lunaria e OsservAzione hanno diffuso il 25 settembre scorso.

«Segregare costa non è un rapporto neutro», spiegano le realtà promotrici. «La scelta di realizzarlo parte da una chiara ed esplicita premessa: è urgente e non rinviabile l’abbandono delle “politiche dei campi” da parte degli attori istituzionali nazionali e locali. L’Italia non è l’unico Paese europeo nel quale i rom vivono nei campi, ma è l’unico Paese europeo che ha istituzionalizzato il sistema dei “campi nomadi” scegliendolo come modalità ordinaria di intervento per gestire la presenza dei rom e dei sinti nelle nostre città e coinvolgendo nel sistema economico che attorno ai campi si è generato molte organizzazioni della società civile. Le risorse pubbliche destinate a “favorire l’inclusione abitativa e sociale” dei rom sono infatti per lo più investite nell’allestimento e nella gestione dei “campi” e nel finanziamento di interventi sociali che hanno i “campi” come loro baricentro».

Obiettivo del Rapporto è evidenziare «lo spreco di risorse pubbliche che il mantenimento del sistema dei campi comporta»: «Ricorre infatti sia tra gli attori istituzionali chiamati a definire le linee di indirizzo delle politiche “a favore dei rom”, sia nell’opinione pubblica, per lo più disinformata e spesso strumentalizzata da chi fa della xenofobia, del razzismo e dell’antiziganismo i principali argomenti della propaganda politica, una tesi che i dati contenuti in questo rapporto contribuiscono a decostruire».

Per giustificare il mantenimento dei “campi nomadi” e sostenere l’impossibilità di percorsi di inserimento abitativo e sociale alternativi dei rom e dei sinti si afferma spesso che “non ci sono risorse pubbliche sufficienti”: «In questo modo – si legge nel Rapporto – viene veicolato il messaggio secondo il quale “i campi” costituiscono la soluzione abitativa meno costosa che le amministrazioni pubbliche possono adottare per ospitare i rom nelle nostre città. Non è così».

Il rapporto mostra l’infondatezza di questa tesi: «Milioni di euro sono stati stanziati tra il 2005 e il 2011 per allestire, gestire e mantenere i campi a Napoli (almeno 24,4 milioni di euro), Roma (almeno 69,8 milioni ai quali si aggiungono almeno altri 9,3 milioni di euro stanziati per i progetti di scolarizzazione) e Milano (sono pari a 2,7 milioni di euro gli stanziamenti monitorati nel corso della ricerca, ma il dato è sicuramente parziale). Gli interventi sociali, di formazione e di inserimento lavorativo a questi collegati non hanno peraltro raggiunto risultati significativi nella direzione di una reale autonomizzazione delle persone coinvolte. Si tratta di soldi pubblici che potrebbero essere molto più utilmente impiegati in modo diverso».

Come dimostra, per esempio, il progetto “Città Sottili” di Pisa, varato dalla Conferenza dei Sindaci della zona pisana nel 2002. Il programma, realizzato con finanziamenti provenienti dai singoli comuni e dalla Regione Toscana, si poneva l’obiettivo del superamento dei “campi nomadi” attraverso una serie di interventi diversificati: alloggi in affitto, edilizia popolare, auto-recupero, villaggio in muratura, e a lungo termine. Il progetto è terminato nel 2009, ma il Rapporto Regionale 2009-2010 sulla situazione degli insediamenti toscani riporta già due risultati significativi: «Il notevole aumento del numero delle persone in possesso del permesso di soggiorno dal 2002 al 2008 (+ 25% sul totale delle persone censite) e il numero consistente di rom che hanno ottenuto l’inserimento abitativo (più del 55% delle persone inserite nel programma Città Sottili vivono oggi in alloggio)».

Le alternative possibili sono dunque molte: dal sostegno all’inserimento abitativo autonomo in abitazioni ordinarie, all’inserimento in case di edilizia popolare pubblica, all’housing sociale, alla promozione di interventi di auto-recupero di strutture pubbliche inutilizzate. «Ciò che è certo – sottolineano le associazioni – è che senza il diretto coinvolgimento dei rom e dei sinti nessuno dei percorsi scelti può avere successo. E il “successo” per noi significa creare le condizioni affinché i rom e sinti che oggi vivono nei campi possano definitivamente fare a meno dell’assistenza (pubblica o privata che sia) che perlopiù ostacola la costruzione di progetti di vita dignitosi, autonomi e indipendenti. Il che è possibile, come dimostrano le migliaia di rom e sinti che vivono nelle abitazioni da decenni e di cui, naturalmente, non parla nessuno».