Prima che la montagna ci frani addosso

Giorgio Cattaneo
http://megachip.globalist.it/

La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta.

La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.

Merci letteralmente scomparse dalla tratta, dove peraltro Italia e Francia sono già perfettamente collegate dalla ferrovia Torino-Modane che attraversa la valle di Susa, appena ammodernata con 400 milioni di euro per consentire ai treni di caricare anche i Tir e i grandi container navali. La montagna è la fatica che occorre, ogni volta, per spigare che i container navali sbarcati a Genova ormai evitano il Piemonte e la Francia e corrono verso Rotterdam attraverso i valichi del nord. Mentre per i Tir – lungi dal caricarli sui treni – si sta scavando il secondo traforo autostradale del Fréjus, sempre in valle di Susa, cioè nel territorio a cui, per buon peso, si vorrebbe infliggere anche l’Armageddon di vent’anni di cantieri Tav, coi paesi devastati e la popolazione minacciata da pericoli per la salute (cancro, causa polveri con amianto e uranio) ammessi dagli stessi tecnici della grande opera, che riconoscono che i lavori potrebbero anche aprire serie incognite idrogeologiche.

Un’impresa folle, sempre più improbabile e irreale per tutti – docenti universitari compresi – tranne che per i decisori politici, i parlamentari a corto di informazioni che però vanno in televisione e scrutano i No-Tav come animali strani, un po’ naif, forse affetti dalla sindrome Nimby, evidentemente non credibili, persino quando ricordano palesi verità ormai incresciosamente ufficiali come quelle provenienti dalla Francia: al netto delle rituali cortesie diplomatiche con l’Italia, Parigi ha infatti stabilito definitivamente che il capitolo Torino-Lione verrà riaperto, eventualmente, solo a partire dal remotissimo 2030.

La montagna è impervia: ci sono voluti anni prima che Santoro, paladino di tante cause civili, si decidesse a spedire il fido Ruotolo nella valle in rivolta: accadde nel 2012, quando il contadino anarchico Luca Abbà precipitò (folgorato) dal traliccio su cui si era inerpicato per protesta, tallonato da un poliziotto. Rivisto un anno dopo, sempre grazie a Ruotolo, Luca Abbà non denuncia gli oscuri attentati incendiari che hanno colpito le imprese collegate al cantiere, ne prende nota e rivendica in linea di principio il diritto di ricorrere anche al sabotaggio come strumento legittimo di lotta.

È esattamente questo atteggiamento, diffuso in larghi settori del movimento “ribelle”, che spinge il procuratore Caselli a chiarire che – dal punto di vista della legge – non sono ammissibili infrazioni alla legalità, specie se violente come l’intimidazione o il lancio di sassi e petardi contro operai e agenti. Per contro, lo stesso Ruotolo mette a fuoco le aziende colpite dagli incendi: alcune hanno alle spalle vicissitudini giudiziarie, qualcuna è stata addirittura sfiorata da indagini dei Ros sul rapporto opaco tra politica, affari e ‘ndrangheta.

Anche questo fa parte della montagna grigia, in una serata in cui Beppe Grillo tuona da Trento contro il presidente Napolitano, che il giorno dopo il blitz al Senato per disinnescare l’antifurto della Costituzione, l’articolo 138, a tarda ora ha convocato al Quirinale i partiti delle larghe intese per “invitarli” a cestinare finalmente l’impresentabile legge elettorale, tanto vituperata quanto cara ai privatizzatori della democrazia.

La montagna è questa deriva infinita, nella quale gli italiani – valsusini e non – hanno ormai la certezza di non contare più niente, e di non sapere neppure più bene come arrivare alla fine del mese. La soluzione, dice Giorgia Meloni, non può essere che la partecipazione democratica: rifiutare il vittimismo passivo e scendere in campo direttamente per cambiare le cose, nonostante l’insormontabile muraglia del patriziato economico, dell’oligarchia finanziaria, della lebbra partitocratica.

E anche della catastrofe nazionale dell’informazione: su questo versante, almeno, Santoro e Travaglio hanno accorciato le distanze, recuperando terreno prezioso. Certo, c’è voluta la manifestazione di Roma. Tutti i civili appelli all’ascolto, rivolti dalla valle di Susa alle maggiori istituzioni, erano sempre caduti nel vuoto – lettera morta anche per giornali e televisioni.

La montagna è ancora lì. Si chiama Troika, rigore, Fiscal Compact, pareggio di bilancio, tetto del deficit al 3% del Pil. Politici sintonizzati? Zero: non pervenuti. Aspettano che la montagna ci frani addosso?

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Tav, ridiscutere si può e si deve

Luca Mercalli
il Fatto quotidiano, 16 ottobre 2013

Le affermazioni del ministro Alfano in visita al cantiere Tav in Valsusa a settembre suonano sinistre in questi giorni di memoria del Vajont: “Nessuno potrà fermare un’opera che è stata decisa da uno Stato sovrano (…) Lo Stato difende quest’opera, ne assicura la realizzazione, lo fa con tutta la forza dello Stato, perché il mestiere dello Stato è difendere i cittadini e le opere che ritiene strategiche come questa”.

Avessero le nostre istituzioni governative una storia specchiata in fatto di opere giudicate strategiche e poi costruite a regola d’arte e rivelatesi tali alla prova dei fatti, si potrebbe anche accettare questo principio d’autorità. Avessero, le italiche istituzioni, adoperato lo stesso zelo per la messa in sicurezza sismica e idrogeologica, la lotta al consumo di suolo, l’efficienza energetica, il riciclo dei rifiuti, ci si potrebbe fidare. Ma l’elenco dei fallimenti voluti e difesi da questo nostro Stato è senza fine. Nel miglior caso, come il G8 alla Maddalena, si sono buttati via soldi pubblici, seguono i danni ambientali, fino alla perdita di vite umane causata da caparbia testardaggine contro l’evidenza dei fatti, di cui il Vajont è l’apoteosi.

E di nuovo, sul supertunnel ferroviario Torino-Lione, doppione di una linea esistente sottoutilizzata, lo Stato non accetta discussioni, assumendo d’imperio che la sua decisione sia quella giusta, affermando che la valutazione di merito è già stata fatta (ovviamente dando ragione a se stesso). Più nessuno discute dei motivi dell’opposizione, ma solo delle sue forme, pacifiche o violente che siano, comunque frustranti e preoccupanti per tutti. Per questo una folta rappresentanza di accademici italiani, già rivoltasi all’allora presidente del Consiglio Monti senza alcuna risposta, riprova con un appello al Capo dello Stato (www.forumfuturo.it). Che offre la via d’uscita più semplice e razionale: occuparsi di curar la malattia e non solo i sintomi, riprendere, una volta per tutte quell’analisi mai compiuta opportunamente dei dati tecnico-economici che secondo autorevoli fonti di scienza e di governo, italiane e francesi, renderebbero quest’opera ambientalmente deleteria e costosissima, un’inutile Fortezza Bastiani delle Alpi Cozie.

Si costituisca una commissione di valutazione imparziale e volontaria, sull’orma di quanto l’Ipcc ha realizzato verso le obiezioni sui cambiamenti climatici. Se lo Stato è sicuro della bontà delle proprie scelte, non avrà certo paura di difenderle con la ragione piuttosto che con i lacrimogeni, illustrarle in modo trasparente, metodologicamente rigoroso, scientificamente verificabile e socialmente condiviso. A quel punto si guadagnerà la fiducia dei cittadini – inclusi quelli della Valsusa, che le giustificazioni “strategiche” continuano a vederle fallaci – e acquisirà così il diritto di difendere anche con i blindati le sue decisioni sovrane, ma certificate da metodo oggettivo e non da principi assolutisti. Se viceversa, quelle promesse traballanti sul potere salvifico del colosso ferroviario non reggeranno alla prova della falsificabilità scientifica, allora sia lo Stato a fare un passo indietro, e per una volta eviti i danni prima che sia troppo tardi.

Risponderà il Presidente Napolitano? Costituirà una commissione super-partes, che è pure un modo per togliere ogni pretesto alla violenza? Non c’è nulla di male a rimettere in discussione un’opera di tali dimensioni: in caso di fallimento i costi sarebbero così elevati che una verifica aggiuntiva, ora che si è appena ai preliminari, denoterebbe prudenza e saggezza. Affermare, come Alfano, che “È un’opera strategica, è frutto di trattati internazionali, che hanno il bollo del Parlamento italiano”, è un po’ labile. La storia ci insegna a non fidarci molto di quel bollo, e – come cittadini e contribuenti – siamo legittimati a conoscere nei dettagli le motivazioni del supertunnel, argomentate con tonnellate di merci, cemento, acciaio, detriti di scavo, chilowattora, emissioni di CO2, debito pubblico, piano di rientro economico e piano B se qualcosa va storto, soprattutto con i tempi che corrono.

Invece nel decreto “femminicidio” passa l’emendamento che estende ai cantieri (alle cantiere?) controllati/e da pubblica sicurezza il reato di spionaggio politico o militare se fotografi o documenti. In mancanza di quella trasparenza necessaria alla valutazione razionale dell’utilità di una “grande opera”, l’imperiosa dichiarazione governativa suona simile a: “Il Tav si farà. A costo di trovare un motivo valido”. E di spazzar via chiunque pensi il contrario.