Bergoglio, un anno ad ostacoli di L.Sandri

Luigi Sandri
Il Trentino, 13 marzo 2014

“Fratelli e sorelle, buona sera”: queste furono le prime parole che presentandosi alla folla assiepata in piazza san Pietro disse Jorge Mario Bergoglio, appena eletto, come egli stesso precisò, “vescovo di Roma, venuto dalla fine del mondo”. Era il 13 marzo 2013, un anno fa: e quelle parole, tanto semplici eppure così intense, furono la “ouverture” di un modo diverso dal passato di essere, appunto, il “vescovo che presiede alla carità” della “ekumene”.

Cosa è cambiato, da allora, nella Chiesa cattolica romana, e nella stessa percezione che gran parte dell’opinione pubblica mondiale ha del papato? E’ cambiata la prospettiva: affermazioni fatte mille e mille volte anche nel recente passato – diciamo dai papi che si sono succeduti nel post-Vaticano II: Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI – con Francesco hanno assunto un’inedita risonanza.

Quando parla dei “pastori”, i ministri ecclesiali, il vescovo di Roma usa una parola logorata dai secoli, che non dice più niente a nessuno; ma quando egli precisa che “il pastore deve conoscere l’odore delle pecore”, ecco che quella parola diventa un paradigma interpretativo che affascina ed interpella tutti, e non solo i cattolici.

E quando parla dei poveri, altro tema scontato nell’ordinaria predicazione, ecco che Francesco fa balenare una rivoluzione, nella mente di molti, con quelle parole: “Ah, come vorrei una Chiesa povera, e per i poveri!”. Questo dipende dal fatto che la gente ha “sentito” che quelle parole traducevano una vita vissuta; non erano chiesastiche, ma evangeliche, punta di iceberg di un’esistenza che le incarnava rendendole carne e sangue.

Questa, ci sembra, la chiave per comprendere l’eco travolgente che ha suscitato papa Francesco. Il quale, da parte sua, a scanso di equivoci continua a ripetere di voler mantenere saldissima la “dottrina” cattolica, mentre vuole però cambiare la “pastorale”, cioè l’atteggiamento con cui preti e vescovi debbono invitare i fedeli a vivere con coerenza la vita cristiana.

Dunque, precisa Bergoglio, “misericordia” per i divorziati che, fallito il primo matrimonio, ne intraprendono un secondo; dunque, “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?”. Ma questa distinzione tra “dottrina” e “pastorale” – la prima intangibile, la seconda da variare secondo le circostanze che il “pastore” deve conoscere – non è così ovvia, almeno così ci pare.

Esemplificando: non è una questione di maggiore o minore “comprensione” dire ad una persona divorziata e risposata che può o non può risposarsi in chiesa, ma una serissima domanda dottrinale: di fronte a Dio, può la Chiesa dire un “sì” o un “no”?

Se per Gesù è “no”, non c’è modo ecclesiale né scorciatoia buonista per trasformarlo in “sì” . Ora, il Concilio di Nicea del 325 – il primo Concilio “ecumenico”, e come tale riconosciuto anche oggi da tutte le Chiese – ritenne che anche le persone divorziate e risposate potessero, dopo adeguata penitenza, essere ammesse, come coppia legittima, all’Eucaristia.

In altri termini: Nicea affermò due princìpi “dottrinali”: 1/ l’ideale proposto da Gesù è che i coniugi non si separino, e grave responsabilità è quella di chi distrugge il patto matrimoniale; 2/ ove però accada questo peccato, il Signore allarga la sua misericordia al peccatore e, senza inchiodarlo alla sua colpa, lo sollecita a vivere con responsabile amore la nuova unione.

Dunque, non sembra sostenibile l’insistenza con la quale Francesco e il suo cardinale di fiducia, su tale tematica, Walter Kasper (il quale auspica che il prossimo Sinodo sulla famiglia ammetta le persone divorziate e risposate all’Eucaristia), ribadiscono che, in caso, cambierà la “pastorale” della Chiesa, ma non la sua “dottrina”; essa ci appare piuttosto un modo per indorare la pillola a quei vescovi che, dopo avere per una vita ribadito un “no” dovranno, se il Sinodo farà suo l’insegnamento del primo Concilio ecumenico, dire “sì”.

Del resto, qualcuno ha mai sentito un vescovo italiano che, prima dell’avvento di Francesco, abbia ardito, citando Nicea, opporsi pubblicamente ai solenni “no” di papa Wojtyla e di papa Ratzinger? Anzi, stante alla guida della Conferenza episcopale italiana – per tre mandati – il cardinale Camillo Ruini, fu messo nel dimenticatoio Giovanni Cereti, il teologo italiano che aveva osato esporre la tesi del Concilio del 325, ignorate purtroppo da secoli da una Chiesa che pur afferma di essere fedele alla “Tradizione”.

Questo solo esempio (altri ne potremmo citare) fa intuire come il cammino intrapreso da Francesco porti a radicali cambiamenti nella Chiesa cattolica romana. Intuizioni e prospettive cruciali elaborate dal Vaticano II – il primato del “popolo di Dio”, la collegialità episcopale, la Chiesa dei poveri, il primato della coscienza, l’ecumenismo, l’apertura al popolo ebraico e alle altre religioni – tradotte in scelte concrete e in mutamenti istituzionali conseguenti sconvolgeranno sempre più lo status quo, e turberanno oltremodo quei gruppi e quei prelati che si considerano i “Custodi del Tempio” e i “Guardiani dell’ortodossia”.

Altri temi – i ministeri femminili, e le questioni bioetiche, cinquant’anni fa ignorati o inesistenti – premono, ed esigono arditissime decisioni. Se così sarà, la fronda dell’establishment ecclesiastico contro Francesco, oggi carsica, si farà più evidente. I poteri economici forti, da lui, profeta che viene dal Sud del mondo, fustigati, non rimarranno silenti.

D’altronde, nella stessa Chiesa romana impresa titanica è il cambiamento di mentalità che il papa “gaucho” presuppone; essa richiede tempo, come accadde al Vaticano II per i vescovi che, da tranquilli “conservatori”, si convertirono poi anche a tesi ardite prima per essi stessi inconcepibili.

Per tale motivo la strada aperta esige che prima o poi si apra un confronto corale, appassionato e forse aspro. Sarà il tempo, speriamo non lontano, di un nuovo Concilio generale della Chiesa romana.