Dalla democrazia in Europa al costituzionalismo mondiale di R.LaValle

Si è tenuta il 12 aprile a Roma un’Assemblea promossa da ECONOMIA DEMOCRATICA, SBILANCIAMOCI e COMITATI DOSSETTI PER LA COSTITUZIONE, per chiedere che il prossimo Parlamento europeo, che sarà eletto il 25 maggio, sia investito di funzioni costituenti per la stesura e la promulgazione di una Costituzione europea che stabilisca condizioni di ”EGUAGLIANZA E INCLUSIONE IN ITALIA E IN EUROPA”.

La proposta è stata illustrata e dibattuta tra gli altri da Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Claudio Gnesutta, Piervirgilio Dastoli, Roberto Schiattarella, Felice Pizzuti, Pierluigi Sorti, Umberto Baldocchi. È stato approvato il manifesto che illustra le motivazioni e le finalità della proposta, e ne sono state sviluppate molteplici implicazioni e linee di azione.

In particolare si è affermato che una Costituzione europea è necessaria per integrare in un disegno costituzionale democratico un ordinamento europeo che di fatto già opera come un ordinamento federale ma senza le garanzie che tale forma politica richiede, e che riduce tutta la legislazione a una “lex mercatoria”.

Si è convenuto che l’obiettivo di un costituzionalismo europeo, muovendo da una forte ripresa della democrazia nei singoli Paesi membri dell’Unione e in particolare in Italia, deve inserirsi nella prospettiva di un inedito costituzionalismo sul piano mondiale, che vincoli la globalizzazione a un sistema di garanzie e di diritti universalmente affermati e sanciti, a cominciare dal diritto di comunicazione e di migrazione teorizzati già all’inizio della modernità, e tenda alla istituzione di autorità politiche democratiche riconosciute e condivise da tutti i membri della comunità internazionale.

Si è osservato come a tale costituzionalismo mondiale possa oggi fornire un potente impulso nella coscienza popolare la scelta universalista e la critica del sistema economico dominante espresse dal pontificato di papa Francesco, novità questa che la politica farebbe male a ignorare. È stato osservato che ad attribuirsi poteri costituenti per la formulazione di una Costituzione europea dovrebbe essere lo stesso Parlamento europeo, non potendo essere i governi a conferire al Parlamento un tale mandato, ed è stato affermato che la Costituzione europea dovrebbe essere poi approvata da tutti i cittadini dell’Europa mediante un referendum paneuropeo.

Riguardo alle politiche economiche e sociali che la Costituzione dovrebbe imporre all’Europa di perseguire, esse dovrebbero essere soprattutto volte a creare condizioni di piena occupazione, essendo il lavoro il bene, anche dal punto di vista costituzionale, più necessario e prezioso; e una politica del lavoro non può essere una politica congiunturale e a breve termine ma comporta nuovi modelli di produzione.

È stato anzi argomentato e sostenuto, su un piano di teoria economica generale, che la stessa scienza economica e l’economia politica, sulla scia dell’insegnamento di Federico Caffè, non dovrebbero riconoscersi alcun altro obiettivo che quello del lavoro e della piena occupazione.

Su questi temi l’assemblea si è augurata che si sviluppi un’ampia riflessione e un dibattito che, prendendo occasione dalle elezioni europee, sia in grado però anche di andare al di là delle contingenze politiche più immediate.

Pubblichiamo di seguito il “Manifesto” di convocazione dell’Assemblea, e la relazione introduttiva di Raniero La Valle. Le altre relazioni e interventi si potranno ascoltare tra qualche giorno sul sito www.economiademocratica.it

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Manifesto

Le elezioni per il Parlamento europeo avvengono nel segno di un rovesciamento. Il sogno dell’Europa unita si sta trasformando in un incubo. In Grecia le famiglie devono scegliere se comprare la luce, il cibo o le medicine. In Italia imprenditori si suicidano perché nessuno paga i loro crediti. In Francia e in altri Paesi fondatori della Comunità europea il principale emigrante è diventato il lavoro, che va dove è più abbondante ed è meno pagato e non ha alcun diritto. L’ideale politico dell’Europa unita, che avrebbe dovuto realizzarsi col superamento degli Stati nazionali e l’instaurazione della pace, è naufragato in un arretramento della politica che ha ceduto all’economia, alla finanza e al denaro, nel frattempo diventato euro, il governo della società e la sovranità che dai popoli europei avrebbe dovuto passare al popolo dell’Europa.

In questo contesto le politiche antisociali di rigore imposte dagli organi comunitari in ossequio ai mercati finanziari stanno producendo, in gran parte dell’Unione, una recessione che pesa interamente sui ceti più deboli, provocando un aumento della povertà e della disoccupazione e una riduzione delle prestazioni dello Stato sociale. Ne risulta minato il processo di integrazione, ben prima che sul piano politico e istituzionale, nella coscienza e nel senso comune di gran parte delle popolazioni europee. L’unità del nostro continente richiede infatti lo sviluppo di un senso di appartenenza a una medesima comunità, quale solo può provenire dall’uguaglianza nei diritti, oggi smentita dalla crescente diseguaglianza tra popoli del nord e popoli del sud dell’Europa, non soltanto nei diritti sociali, garantiti ai primi e sempre meno ai secondi, ma anche nei diritti politici, essendo incomparabile il peso, ai fini del governo dell’Unione, del diritto di voto nei Paesi più ricchi e in quelli più poveri.

Proprio in questi ultimi Paesi, nei quali fu più entusiasta e pressoché unanime l’adesione all’Unione, sta perciò sviluppandosi un antieuropeismo rabbioso, che si manifesta in una crescita delle destre xenofobe e populiste, nel rifiuto dell’integrazione, nella richiesta di uscita dall’eurozona oppure, nel migliore dei casi, in una disincantata delusione. Sta così accadendo che il mercato comune e la moneta unica, che i padri costituenti dell’Europa concepirono e progettarono come fattori di unificazione, sono oggi diventati, in assenza di politiche economiche comuni e solidali, altrettanti fattori di conflitto e di divisione.

L’identità europea perciò sta cambiando natura: non più l’Europa sociale dei diritti, fino a pochi anni fa percepita in tutto il mondo come un modello di civiltà, bensì un’Europa indebolita economicamente e politicamente e in preda, di nuovo, agli egoismi nazionalistici, alle pretese egemoniche, ai populismi, ai reciproci rancori che hanno sostituito l’originario spirito unitario e impediscono ogni contributo europeo alla crescita di un vero umanesimo mondiale.

Di fronte al precipitare di questa crisi verso esiti imprevedibili e infausti, la sola alternativa, a noi, cittadini italiani e europei, appare la rifondazione costituzionale di un’Europa federale e sociale. Per questo, in vista delle prossime elezioni del Parlamento europeo, chiediamo a tutte le forze politiche che hanno a cuore il futuro dell’Unione di promuovere l’attribuzione di funzioni costituenti al nuovo Parlamento, quale Assemblea Costituente Europea.

Il compito di tale Parlamento costituente dovrebbe essere quello di dotare l’Unione di una Costituzione che, nel quadro delle garanzie nonché dei limiti e vincoli ai poteri, ben noti alla tradizione costituzionale europea, stabilisca l’eguaglianza nei diritti e nei doveri di tutti i cittadini europei, così realizzandone una vera unità politica. Si tratta da un lato di riprendere e finalmente portare a buon esito l’antica lotta per l’eguaglianza, irrinunciabile obiettivo non solo di ogni sinistra ma di ogni umanesimo, dall’altro di intraprendere la nuova lotta per l’inclusione politica economica e sociale di grandi masse di popolazione oggi emarginate, scartate, tenute fuori dal lavoro, dal godimento dei beni comuni, dai confini ideali o fisici dell’Europa e dalla stessa vita.

La Carta dovrebbe disegnare altresì le istituzioni della Comunità, interdire indebite sovranità a cominciare da quelle del denaro, della finanza e dei mercati, e stabilire una gerarchia delle norme per la quale tutta la legislazione europea e gli stessi Trattati derivino la propria legittimità dalla conformità alla Costituzione e siano soggetti al controllo di costituzionalità.

Questa è la vera, nuova, grande opportunità che si apre. Non è vero che dopo la crisi dell’euro e dopo il governo Renzi non resta che il diluvio. Dopo la transizione oggi in atto in Europa e in Italia, resta da rilanciare la Costituzione, resta da passare alla democrazia.

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La relazione di Raniero La Valle

Cari amici,

se noi volessimo mettere una frase in esergo al nostro dibattito di oggi, penso che potremmo mettere una frase che abbiamo letto ieri del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz: festeggiare perché dopo quattro anni di crisi un “bond”, un titolo finanziario greco, torna sul mercato, senza discutere della devastazione che resta nella vita delle persone, è semplicemente criminale. Questo giudizio di Stiglitz fa pensare a una denuncia analoga che si trova in un antico commento rabbinico sul racconto biblico della torre di Babele: se nel costruire la torre un mattone di argilla cadeva e si rompeva tutti facevano un grande pianto; ma se dall’impalcatura un operaio cadeva e moriva, nessuno se ne preoccupava. Questo era il peccato. L’Europa che vogliamo è un’Europa in cui non avvengano più queste cose.

Ringraziamo tutti quelli che sono venuti oggi a discutere questi temi. Questi sono tempi difficili per chi vuole discutere, per chi vuole prendersela a cuore, per chi vuole che ci sia pensiero, dialogo e confronto prima di decidere. La nuova cultura che ci viene proposta è invece che la decisione precede il pensiero, il trofeo precede la caccia, il potere precede la sua legittimazione. Noi continuiamo con speranza e caparbietà a voler giudicare, discutere e decidere. E se oggi lo vogliamo fare per quanto riguarda l’Europa, è perché non abbiamo rinunciato a farlo per quanto riguarda l’Italia.
Ora, sia per quanto riguarda l’Europa, sia per quanto riguarda l’Italia, la nostra è una rivendicazione molto elementare e molto semplice. Se noi non siamo solo degli individui isolati, ma siamo un popolo, vogliamo vivere come un popolo, libero e sovrano.

E questo vale qualunque sia la dimensione della comunità politica alla quale apparteniamo. Quando le nostre comunità politiche erano i Comuni, ci siamo inventati i liberi Comuni, quando era un Regno, ne abbiamo fatto una Repubblica, e se ora è l’Europa vogliamo che abbia una Costituzione democratica. Cioè vogliamo la democrazia in Europa e non vogliamo perdere la democrazia in Italia. E ormai abbiamo capito che una cosa non va senza l’altra. Giovedì scorso, il 10 aprile, in un seminario del Centro per la Riforma dello Stato, ad opera del relatore Mario Dogliani, di quelli che qualcuno chiama “professoroni”, e poi di molti altri, si è detto che in Italia non c’è solo un pericolo di “svolta autoritaria”, ma è già in atto una “fuoruscita” dalla democrazia. (Per ascoltarlo: http://www.libera.tv/audios/183/convegno-crs–riforme-costituzionali-e-qualita-della-democrazia.html). Se riconosciamo che la diagnosi è vera, non dovremmo pensare ad altro.
In effetti in Italia, come in Europa, il problema è la democrazia. In Italia si smantellano la Costituzione e le istituzioni democratiche, in Europa non si sono ancora costruite.

La democrazia vuol dire che il sovrano è il popolo. Pertanto in Europa il sovrano è, dovrebbe essere, il popolo europeo. Ma occorre che ci sia un popolo europeo, e se non c’è deve venire alla luce, se no la democrazia non si può fare.
Quando i Padri costituenti posero mano a fare l’Europa, pensarono che un popolo europeo ci fosse, che ci fosse un diritto pubblico europeo, e che l’ultima grande guerra europea, quella scatenata da Hitler, fosse stata in realtà una guerra civile. In attesa che questo popolo si manifestasse, fecero un accordo tra sei Stati, la cosiddetta piccola Europa. Ma quando, rimosso il muro di Berlino, l’Europa davvero poteva cominciare a nascere, cambiarono gli equilibri politici; e mentre nuove nazioni si affollavano per entrare nel mercato comune e al centro dell’Europa si ristabiliva la sovranità del popolo tedesco, si vide che con quell’irrompere di nuove identità un popolo europeo non c’era. Ma allora, siccome non può esserci una comunità politica senza sovrano (e molti erano contenti che questo sovrano non fosse il popolo) si è pensato di dare all’Europa un altro sovrano: il denaro. E c’è stato anche uno spostamento semantico: Eurolandia, Eurozona è venuto a significare non la terra degli europei, ma la terra dell’euro. E i custodi e i reggenti dell’euro sono diventati i gran sacerdoti e i luogotenenti del regno.

È lì che il sogno dell’Europa unita si è trasformato in un incubo, come dice il documento di convocazione di quest’assemblea.

Uscire dall’incubo

Come si manifesti, e in quali dolori miserie ed esclusioni si traduca quest’incubo, sarà oggetto dell’analisi che sarà fatta questa mattina. Ma certamente l’obiettivo, la posta in gioco è di uscire dall’incubo.

Ed è una posta alta: perché per uscire dall’incubo non basta salvare il salvabile, non basta battere i pugni, cosa che del resto ci si guarda bene dal fare, non basta ottenere che Draghi allenti il cordone della borsa o che Bruxelles sia un po’ più flessibile sul 3 per cento o che la Merkel chiuda un occhio sull’obbedienza al Fiscal compact. Tutto questo, come con sempre profonde analisi ci spiegano i compagni di Sbilanciamoci, non basta.

Però dobbiamo anche dire che, almeno nelle intenzioni di chi ha promosso quest’assemblea, uscire dall’incubo non vuol dire uscire dall’euro; quello che vogliamo dire è invece che occorre deporlo o rovesciarlo dal trono, e occorre dare la sovranità al popolo europeo perché la eserciti nelle forme e nei limiti della Costituzione che l’Europa dovrà darsi e che il Parlamento dovrà dare all’Europa.

Tanto meno la soluzione per uscire dall’incubo è quella di uscire dall’Europa. La soluzione invece è di tornare dall’incubo al sogno.

Il sogno non era un sogno di grandezza. La propaganda ufficiale, come si vede in uno spot trasmesso dalla RAI per conto del governo o non so di quali altre istituzioni per spingere la gente a votare il 25 maggio, pensa ancora all’Europa in termini di potenza. Dice che l’Europa “è l’economia più grande del pianeta”, che la sua qualità della vita “è tra le più alte del mondo”, che se fosse uno Stato “sarebbe la prima alle Olimpiadi”.

Ma il sogno dell’Europa non era un sogno di grandezza. Era invece un sogno di unità e un sogno di gioia. L’inno alla gioia veniva adottato come inno ufficiale dell’Unione Europea, e per la prima volta dopo la dichiarazione di indipendenza americana un documento politico faceva della felicità il fine di una grande comunità politica, faceva cioè della felicità un fine politico (altro che 68!), il che vuole dire, per stare alla definizione di don Milani, che è un fine che non può raggiungere ciascuno da solo, ma si può raggiungere tutti insieme.

È evidente peraltro che la felicità non può essere data da nessuna comunità politica e tanto meno può essere il frutto di una elargizione del potere. Però la comunità politica, come dice la Costituzione italiana, deve “rimuovere gli ostacoli” e creare le condizioni “di fatto”, anche sul piano economico e sociale, perché essa possa essere cercata e ogni persona possa perseguire il suo pieno sviluppo.

Lo strumento di questa ordinazione della comunità politica alla gioia, ossia a un’alta qualità della vita, è il costituzionalismo. La prima condizione è naturalmente la libertà, e quindi la democrazia. Ma il costituzionalismo postbellico, come continua a insegnarci Luigi Ferrajoli, è andato oltre la garanzia dei diritti e della libertà, e ha posto come obbligo e limite di tutti i poteri, sia pubblici che privati, il perseguimento del bene comune, anche oltre i vecchi limiti dello Stato sociale; ed è compito della politica arricchire questo bene comune di sempre nuovi contenuti, come già avviene nello sviluppo del costituzionalismo di molti Paesi, soprattutto in America Latina. Una Costituzione europea, come noi la chiediamo, che deponga il denaro e i suoi ministri dal trono e passi la sovranità dall’euro agli europei, deve inserirsi in questo filone del costituzionalismo.

Dalla democrazia in Europa al costituzionalismo mondiale

Naturalmente noi sappiamo che la battaglia sarà durissima: e per quanto l’Europa sia il terreno immediato di questa battaglia, forse dovremo accorgerci che questa battaglia non si può combattere solo in Europa e che la sua vera dimensione, già oggi, è una dimensione mondiale.

Dobbiamo avere ben presente che la crisi europea è parte della crisi mondiale, che la sudditanza dell’Europa al denaro è analoga alla sudditanza del mondo intero al denaro e che la perdita di ogni idea regolatrice della politica in Europa non è che un caso di specie della perdita di ogni regola prodotta dalla globalizzazione. Quindi il vero problema, in prospettiva, è quello di una lotta per un costituzionalismo mondiale.

I tempi non sono maturi, si dirà, per aprire una simile prospettiva. E in ogni caso il pensiero della crisi, che sembra attanagliare la politica ad ogni livello, e il pessimismo antropologico che da decenni sembra dominare la nostra cultura persuadendoci che non c’è niente da fare, non sono tali da incoraggiare a perseguire progetti più alti e ad alzare il livello delle nostre speranze.

Ma è proprio così? Nel nostro documento abbiamo scritto che proprio la gravità della crisi può spingere milioni di persone a concepire la necessità di un cambiamento radicale. Ma poi ci sono altri segni che depongono a favore del fatto che grandi novità sono possibili, e che ci inducono se non all’ottimismo almeno alla speranza.

Uno lo abbiamo già citato, è l’apparire di un nuovo costituzionalismo che va oltre la lezione europea, in Paesi del Sud del mondo, in particolare in America Latina.

Un altro segno è che una tendenza sembra essersi manifestata a porre un limite allo scialo di guerra. Negli ultimi mesi due grandi guerre, in cui sarebbero state coinvolte le grandi Potenze, sono sembrate prossime a scatenarsi, e non ci sono state. Una è stata la guerra per la Siria – “la mia amata Siria”, come dice il Papa – per la quale già rullavano i tamburi sui ponti delle portaerei, e che non è stata fatta. L’altra è la guerra per la Crimea e la nuova guerra fredda con la Russia, che Stati Uniti e Occidente hanno minacciato ma si sono tenuti ben lontani dal fare. Così le grandi guerre convenzionali – come quelle fatte per l’Iraq, per la Iugoslavia, per l’Afghanistan – non sembrano più tanto ovvie; e quanto alla guerra atomica siamo riusciti a bloccarla, quando era incombente, già nel secolo scorso. Dunque c’è un limite alla guerra.

La Chiesa di papa Francesco ripudia il sistema economico “che uccide”

E poi c’è un terzo segno, che non si è prodotto nel mondo laico, ma di cui il mondo laico farebbe male a non accorgersi e di cui farebbe male a non tener conto. È il passaggio di fase della Chiesa cattolica da un cupo pessimismo antropologico, propalato dai profeti di sventura, a una gioiosa (”Evangelii gaudium”!) voglia di riprendersi il futuro e di imprimere una svolta alla storia. È la novità portata da papa Francesco. Egli ha avuto il coraggio di delegittimare l’intero sistema economico mondiale definendolo come “un’economia che uccide”, e denunciandolo come un sistema che esclude grandi masse di uomini e di donne trattandoli come avanzi e come scarti (in Italia da tempo li chiamiamo esuberi); egli è andato così oltre la critica marxista dello sfruttamento, perché l’esclusione va oltre l’alienazione e lo sfruttamento.

Se il cristianesimo non è un gingillo per anime pie, che una tale cultura fosse fatta propria dalla Chiesa non potrebbe che avere enormi conseguenze politiche e storiche.

E tanto più una novità potrebbe prodursi perché nella predicazione di papa Francesco non c’è solo la denuncia, c’è un’analisi in positivo della situazione umana, c’è una prognosi favorevole della sanabilità della storia. In ciò papa Francesco opera la saldatura con la Chiesa del Concilio, chiude la parentesi del cinquantennale inadempimento e fa ripartire il giudizio sulla storia dal discorso che fece Giovanni XXIII in apertura del Vaticano II quando, in dissenso dai profeti di sventura che non vedevano altro che “prevaricazioni e rovine” e che annunziavano “eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo”, disse che nel presente momento storico la Provvidenza ci stava conducendo a “un nuovo ordine di rapporti umani che per opera degli uomini e per lo più al di là della loro aspettativa si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi”.

Su che cosa Giovanni XXIII fondava un tale giudizio? Non poteva trattarsi di una botta fugace di ottimismo, doveva trattarsi di un giudizio storico di lungo periodo. Oggi quel giudizio può essere ripreso, sapendo che il mondo può essere cambiato: non solo l’Italia, non solo l’Europa, ma il mondo. Da almeno 50 anni è all’ordine del giorno una grande opera riformatrice a livello mondiale, per trasferire il costituzionalismo postbellico sul piano mondiale e creare una comunità mondiale di diritto, poliedrica e policentrica, in cui il soggetto politico sovrano sia l’umanità stessa.

La comunità mondiale come soggetto giuridico

Il presupposto, l’orizzonte di un costituzionalismo mondiale è che sulla terra c’è un’unica famiglia umana, che è votata a essere anche un soggetto giuridico. Come tale è titolare della terra e dei suoi beni comuni, a cominciare dall’aria, dall’acqua, dai fondi marini, dallo spazio extraterrestre. Essa è gravida di diritti umani universali, e con ciò si torna alla grande intuizione giuridica da cui doveva nascere la modernità, si torna a quella concezione di una communitas orbis, di un totus orbis come soggetto di diritto che fu avanzata da Francisco de Vitoria e poi ripresa e sviluppata da Francisco Suarez, Alberico Gentili e Ugo Grozio; e il primo di questi diritti era il diritto di comunicazione e il diritto di migrazione. All’inizio (come ci ha ricordato Ferrajoli quando si trattò di celebrare i 500 anni dalla conquista dell’America) fu un diritto dei conquistatori spagnoli, ma doveva trattarsi di un diritto di tutti gli uomini Così oggi il primo diritto di un costituzionalismo mondiale, dovrebbe essere la libertà di ciascun membro della famiglia umana di muoversi dal luogo di nascita e di andare ad abitare e a vivere in qualsiasi parte della terra. Sarebbe questo un fattore potente di cambiamento, a favore dell’eguaglianza, contro le esclusioni, anche se certo non privo di rischi. E proprio per questo ci vuole la politica, ci vuole il diritto e ci vuole un costituzionalismo che dia luogo a una comunità democratica delle nazioni.

Già 50 anni fa nella “Pacem in terris” di Giovanni XXIII si costruiva la pace sull’ipotesi di un’autorità mondiale che avesse una competenza pari alla dimensione mondiale dei problemi (“il bene comune universale pone ora problemi a dimensione mondiale che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni, di poteri pubblici cioè che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale”, 11 aprile 1963); e nel 2011, in tempi non sospetti perché precedenti di due anni l’elezione al pontificato di Bergoglio, essendo dunque papa Benedetto XVI, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace pubblicava un documento indirizzato a tutti i poteri responsabili, “per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”.

In quel documento si giungeva a proporre un governo della globalizzazione attraverso un’autorità sopranazionale espressione della comunità delle nazioni e costruita attraverso progressivi accordi liberi e condivisi.

Tra gli obiettivi di questa autorità dovevano esserci un corpus di regole necessarie alla gestione del mercato finanziario globale, forme di controllo monetario globale fino a rimettere in discussione i sistemi di cambio esistenti, una Banca centrale mondiale, misure di tassazione delle transazioni finanziarie e altre misure volte – come gli stessi leaders del G 20 avevano chiesto nella loro sessione del 2009 a Pittsburgh – “a generare uno sviluppo globale solido, sostenibile e bilanciato”.

Dunque le cose da fare già si sanno. Ora ci vuole la volontà politica di farle. La Chiesa di Francesco ci mette l’idea che esse si possono e si debbono fare: e se questa idea esplodesse potrebbe mobilitare milioni di persone, ben oltre i confini della Chiesa cattolica. La proposta di una Costituzione europea si pone già in questa prospettiva.