Svizzera: no al malloppo minimo

Carlo Musilli
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Sul piatto c’erano più di 3.200 euro al mese, ma gli svizzeri hanno detto no. Lo hanno fatto con una percentuale quasi bulgara: il 76,5% degli elettori che lo scorso weekend si sono recati alle urne ha bocciato il referendum d’iniziativa popolare “per la protezione di salari equi”. Il progetto, sostenuto dai sindacati e osteggiato da governo e imprenditori, prevedeva uno stipendio minimo legale a livello nazionale di 22 franchi l’ora (18 euro), ovvero circa 4mila franchi al mese (poco meno di 3.300 euro) per un impiego a tempo pieno di 42 ore settimanali. A conti fatti, sarebbe stato lo stipendio minimi più alto del mondo, eppure è stato respinto in tutti i 26 cantoni e semi-cantoni.

È la terza volta in poco più di un anno che gli svizzeri sono chiamati a votare sul capitolo remunerazioni: lo scorso novembre avevano respinto con circa il 65% di voti contrari l’iniziativa “1-12 – Per salari equi”, la quale prevedeva che in ogni impresa il salario più alto non potesse superare di oltre 12 volte quello più basso; nel marzo 2013, invece, avevano approvato con oltre il 67% di schede favorevoli il referendum contro le paghe esorbitanti dei manager.

Ora, finché si parla degli eccessi riservati a pochi eletti, il rifiuto è comprensibile. Ma come si spiega che più di tre persone su quattro abbiano respinto una manna dal cielo nelle tasche dei lavoratori più umili? Secondo Johann Schneider-Ammann, ministro dell’Economia, l’innovazione avrebbe causato una perdita di occupazione (anche se, ad oggi, il tasso di disoccupazione svizzero è pari al 3,5%, uno dei più bassi al mondo), e a risentirne maggiormente sarebbero stati proprio i lavoratori meno qualificati e quelli attivi nelle zone periferiche.

La sua posizione è la stessa della destra svizzera e dell’intera classe imprenditoriale del Paese, che di fronte alla prospettiva di dover mettere mano al portafoglio aveva agitato perfino lo spauracchio della delocalizzazione. Certo, se il primo criterio per scegliere dove produrre fosse il costo del lavoro, è evidente che con o senza referendum a nessuno verrebbe in mente di aprire un’azienda in Svizzera. Peccato che si debba tener conto anche di fattori come la logistica, i tempi della giustizia e – soprattutto – il fisco.

Se si guarda oltre l’orizzonte degli stipendi, si nota che il contesto svizzero nel suo complesso rappresenta una dorata eccezione nel panorama europeo. Sono del tutto improponibili i paragoni con la Francia (dove il salario minimo è di poco più di 9 euro l’ora) o la Germania (che ha recentemente introdotto un tetto minimo di 8,5 euro l’ora, in vigore dall’anno prossimo). Eppure la differenza macroscopica fra il salario chiesto dal referendum e quello garantito nelle prime due economie dell’Eurozona deve aver indotto diversi lavoratori a temere davvero di perdere il posto.

Un’eventualità che secondo i sindacati e i partiti di sinistra non si sarebbe mai realizzata. Perché? Semplice, perché la Svizzera è straricca. Nelle imprese private lo stipendio medio è di 6.118 franchi lordi al mese, mentre i lavoratori che guadagnano meno di 4mila franchi rappresentano solo il 10% e sono perlopiù concentrati in settori come il commercio al dettaglio, la ristorazione e l’agricoltura. In uno scenario di questo tipo, considerando anche un costo della vita impensabile per un europeo medio, la tesi dei promotori del referendum era che pagare qualcuno meno di 22 franchi l’ora fosse semplicemente vergognoso.

E’ probabile che i sindacati e la sinistra non siano stati sconfitti solo dalla campagna di terrore degli oppositori, ma anche da quel non so che di xenofobo che serpeggia nel dna del loro Paese. Gli svizzeri, mediamente, non vedono di buon occhio gli immigrati, considerando che in passato hanno proibito la costruzione di minareti sul territorio nazionale, approvando invece un referendum “per l’espulsione degli stranieri che commettono reati”.

Lo scorso gennaio è passato addirittura un referendum per l’introduzione di quote che limitino il numero di lavoratori stranieri ammessi in Svizzera (il ddl dovrebbe essere presentato a breve). Una decisione che ha danneggiato i rapporti fra Berna e Bruxelles, poiché di fatto restringe arbitrariamente gli accordi per la libera circolazione nell’area Schengen.

Insomma, non serve cercare troppo nelle pieghe della giurisprudenza elvetica per sapere con quanta acredine vengano accolti molto spesso i nostri connazionali frontalieri, ovvero gli italiani che ogni giorno vanno in Svizzera per lavorare e ogni sera tornano a casa al di qua delle Alpi. E non serve un genio per capire che con un salario minimo di quel tipo si sarebbero moltiplicati. Lo hanno capito persino più di tre svizzeri su quattro.