Dove va la Chiesa Italiana?

Marcello Vigli

martedì, 27 maggio 2014

Per la prima volta nella storia della Cei la prolusione introduttiva dell’assemblea annuale è stata pronunciata dal papa. Fra le altre anomalie del nuovo papa, questa assume un valore particolare per la Chiesa italiana perché conferma non risolto il problema delle divergenze fra il suo episcopato e la Santa Sede particolarmente in merito alle innovazioni da introdurre nell’elezione del Presidente della Cei.

Come è noto questa è l’unica il cui Presidente non viene eletto dai suoi membri ma è nominato dal papa. La soluzione di compromesso concordata in questi giorni – il papa sceglierà da una terna di nomi indicata dal voto dei vescovi – sarà discussa ed approvata dall’Assemblea nella riunione straordinaria di novembre.

Senza entrare nel merito si può affermare che la dirigenza della Chiesa italiana non è pronta ad affrontare la crisi culturale, etica e sociale, che attraversa la società, ed è inadeguata ad accogliere la nuova linea proposta da papa Francesco. I vescovi sono impreparati e divisi nell’affrontare: in politica, il passaggio dall’interventismo ruiniano alla pratica del dialogo e della mediazione; e nel che fare sul territorio, l’assunzione della piena e diretta responsabilità anche per la pressante richiesta del papa di ridurre il numero delle diocesi.

A questa sostanziale impotenza si aggiungono il disorientamento dell’associazionismo ufficiale, il travaglio dell’Opus Dei e di Comunione e Liberazione, i due potentati di cui è forte l’influenza nella società italiana, e l’inconcludenza nella Comunità ecclesiale dell’arcipelago dei gruppi di base pur in presenza di un discreto attivismo convegnistico e di una forte partecipazione sociale.

In questa prima metà del 2014 sono stati organizzati, infatti, interessanti convegni e incontri di studio: fra gli altri due sono stati promossi da comitati rappresentativi di quel vasto e variegato mondo di cattolici conciliari che hanno ritrovato speranza nel rinnovamento della Chiesa con l’avvento di papa Francesco.

Il primo si è tenuto a Napoli a marzo – sesto della serie degli incontri nazionali della rete di gruppi Il Vangelo che abbiamo ricevuto – l’altro nel maggio a Roma come terza delle Assemblee promosse dal comitato “Chiesa di tutti. Chiesa dei poveri. I due temi prescelti Il Vangelo è annunciato ai poveri. Con Francesco nelle periferie dell’esistenza” e “Dio: un nuovo annuncio? La coscienza umana e le comunità cristiane si interrogano a 50 anni dalla Lumen Gentium”, testimoniano una volontà di rinnovamento.

Nelle relazioni introduttive e ancor più nei dibattiti è emersa la consapevolezza che i laici non possono esimersi dal proporsi come promotori del cambiamento, oltre che nelle forme di presenza nella società anche nel modo di essere Chiesa.

Ci si limita, però, a denunce, richieste e proposte ma si evita di interrogarsi sulla necessità di costruire un soggetto propositivo che rappresenti collettivamente i laici convinti che l’evangelizzazione debba seguire vie nuove e l’Istituzione ecclesiastica debba rinnovarsi.

Non è certo la prima volta nella millenaria storia della Chiesa che le forme di presenza cristiana nelle società sono apparse sclerotizzate: talvolta le resistenze clericali al cambiamento sono state superate senza traumi altre volte sono nati scismi ed eresie.

Nel secolo XIX, all’indomani della fine dello Stato pontificio, i laici italiani si diedero una struttura organizzata per avanzare le loro proposte contro il temporalismo. Furono vincenti, finché non si lasciarono irretire in dispute teologiche, producendo le condizioni perché la gerarchia fosse costretta a rinnovarsi: vissero la separazione dallo Stato come una liberazione che Pio XI, complice il fascismo, si affrettò ad annullare con il regime concordatario.

Quello spirito d’iniziativa animato da senso di responsabilità è sembrato rinascere dopo il Concilio, ma ben presto è stato soffocato più che dagli interventi della gerarchia dal mal-inteso senso di obbedienza che induce intellettuali e cattolici adulti a non passare dalle denunce, talvolta coraggiose oltre che puntuali, ad azioni conseguenti per contestare nei fatti lo strapotere della gerarchia. Prevale una sorta di timore reverenziale e si guarda con sospetto a chi propone di liberarsene per diventare cittadine/i del Popolo di Dio riconosciuto dal Concilio.

Non si tratta di impegnarsi in dispute per tradurre in lingua moderna incomprensibili o antiquate formule teologiche, né pretendere impossibili riconoscimenti di pratiche liturgiche più coerenti: sarà il tempo a risolvere le une o imporre gli altri. Celibato e sacerdozio esclusivamente maschile sono accessori di un modo di essere del sistema: non val la pena di rivendicarne l’abrogazione che non servirebbe a metterlo in crisi e ottenerne una radicale riforma.

Non si tratta, neppure, di introdurre pratiche democratiche nella Chiesa, ma di chiamare a raccolta i cattolici fedeli al Concilio per rivendicare il diritto/dovere di avviare collettivamente ed esplicitamente prassi più autenticamente evangeliche e ispirate alla povertà, mentre la gerarchia si arrocca nella difesa di valori irrinunciabili per imporre la presenza cristiana nella società secolarizzata.

In questa fase di riassetto degli equilibri interni all’episcopato le responsabilità del laicato aumentano.
Nel prossimo Incontro nazionale delle cdb sarà forse opportuno porre il problema e discuterne con quanti sono disponibili ad assumerle.