Il “Primato” dell’ecumenismo. Intervista a Luigi Sandri sull’incontro tra il Papa e Bartolomeo I

Ingrid Colanicchia
Adista Notizie n. 21/2014

Per quanto le questioni politiche abbiano tenuto banco durante la visita del papa in Terra Santa (v. notizia precedente), Francesco, di ritorno dal suo viaggio, ha ribadito, confermando quanto detto prima di partire, che momento culminante della sua visita è stato l’incontro a Gerusalemme con il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I. D’altronde, che il viaggio volesse porsi come momento fecondo di dialogo ecumenico e interreligioso, lo dimostrano, oltre all’incontro con Bartolomeo I – a 50 anni dallo storico abbraccio tra Paolo VI e Atenagora che avrebbe condotto l’anno successivo alla revoca delle reciproche scomuniche – quello con il gran muftì e i rabbini capo di Gerusalemme, nonché la scelta di farsi accompagnare da due suoi amici dai tempi di Buenos Aires, il rabbino Abraham Skorka e l’islamico Omar Abboud.

Abbiamo approfondito questi aspetti con Luigi Sandri, vaticanista di lungo corso, già corrispondente dell’Ansa da Mosca e Tel Aviv.

Il viaggio del papa in Terra Santa è iniziato nel segno del dialogo interreligioso scegliendo come compagni di viaggio un rabbino e un dignitario musulmano… Quali, a tuo avviso, i momenti più salienti sotto questo profilo?

Da un punto di vista simbolico, il momento forse più pregnante è stato quando, dopo aver visitato la Spianata delle Moschee, il papa si è recato al Muro del Pianto, dove, dopo aver deposto in una fessura del muro un biglietto con il Padre nostro in spagnolo, è stato avvicinato da Skorka e Abboud e i tre si sono stretti in un abbraccio. Un istante – così ho pensato – presagio di cose belle.

Cuore di questo viaggio sotto il profilo religioso è stato l’incontro tra papa Francesco e il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I. Che bilancio si potrebbe fare?

L’incontro tra il papa e il patriarca Bartolomeo I giunge dopo cinquant’anni scanditi da tutta una serie di passi di riavvicinamento tra le due Chiese. Dopo il loro incontro del 1964 nella Città santa, Paolo VI e Atenagora cancellarono le reciproche scomuniche che i capi delle loro Chiese si erano scambiati nel 1054. Nove secoli prima! Nel 1967 si visitarono nelle rispettive sedi. Nel 1980 vide la luce la Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra le due Chiese che, negli anni, ha raggiunto chiarificazioni sui problemi relativi alla Trinità e ai sacramenti. Nel 2007, a Ravenna, la Commissione ha approfondito lo studio sul modo in cui era inteso il primato petrino nel primo millennio della Chiesa: è arrivata ad alcune convergenze, senza però risolvere il nodo centrale. Infatti, gli ortodossi hanno riconosciuto che, allora, il vescovo di Roma aveva un primato di onore nella Chiesa universale, ma hanno negato che esso avesse – come i cattolici ritengono – un primato di giurisdizione. Per i bizantini, insomma, il vescovo di Roma era patriarca dell’Occidente, e non il capo di tutta la Chiesa.

In quella stessa occasione uno scontro verbale assai accalorato ebbe luogo tra il rappresentante della Chiesa ortodossa russa e quello del patriarcato di Costantinopoli, perché Bartolomeo I aveva invitato alla riunione anche rappresentanti della Chiesa ortodossa estone che Mosca considera invece un suo territorio canonico. Quest’ultima accusò quindi Costantinopoli di voler interferire nei propri affari interni e, per protesta, abbandonò i lavori. Perciò alla fine il documento di Ravenna fu firmato da Costantinopoli ma non da Mosca: mancava, dunque, la firma della Chiesa russa, la quale, con i suoi 100 milioni di fedeli, è la più forte, numericamente, dell’Ortodossia!

Il 9 marzo scorso si sono riuniti al Fanar (la residenza, ad Istanbul, del patriarcato di Costantinopoli) quasi tutti i patriarchi ortodossi, compreso Kirill di Mosca, decidendo di convocare, per il 2016, il Santo e Grande Concilio pan-ortodosso in preparazione da cinquant’anni. Ma che i rapporti tra la Chiesa russa e quella di Costantinopoli non siano ancora del tutto sereni, lo dimostra il fatto che al “vertice” del 25 maggio a Gerusalemme il patriarcato russo non ha inviato un esponente di alto rango. Certo, formalmente Mosca non era tenuta a farlo; però l’occasione era straordinaria, e il fatto di averla mancata è molto significativo.

Nella loro dichiarazione comune Francesco e Bartolomeo I ribadiscono l’impegno a continuare a camminare insieme verso l’unità. Quali sono le prospettive?

La dichiarazione comune è senz’altro un fatto positivo e importante; resta però da vedere come si evolveranno in concreto sia i rapporti Roma-Costantinopoli che quelli intra-ortodossi. Se è vero che la questione del primato petrino divide l’Ortodossia da Roma – perché per la prima la massima autorità nella Chiesa universale è il Concilio ecumenico, e non il papa – è anche vero che lo stesso ruolo del patriarca di Costantinopoli, primus inter pares tra i gerarchi ortodossi, è interpretato assai diversamente: mentre Bartolomeo I cerca di ampliarne i termini, Kirill li restringe.

Nonostante quello di Francesco fosse un viaggio fondamentalmente religioso, era inevitabile che le questioni politiche, e soprattutto il confitto israelo-palestinese, assumessero forte rilevanza. Pensi che, in merito, il papa avrebbe potuto fare di più?

Alcuni cristiani arabi si aspettavano che il papa fosse esplicito nel sottolineare i diritti dei palestinesi violati da Israele; altri, come il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, hanno invece ritenuto che abbia fatto il massimo possibile. Sulle questioni geopolitiche Francesco è rimasto sulle generali, senza addentrarsi nei problemi concreti, ma invitando – come nel caso della Siria – a rinunciare alla violenza e a cercare soluzioni politiche attraverso trattative diplomatiche. Perciò non ha ricordato i nodi cruciali (i profughi, l’occupazione israeliana, gli insediamenti…); si è espresso in modo formale solo su un punto, ribadendo, in merito, quella che da anni è la linea vaticana: l’attuazione del principio “due popoli – due Stati”.

Su un punto particolarmente sentito – il muro costruito da Israele con lo scopo dichiarato di impedire l’entrata nel suo territorio di uomini-bomba, ma che di fatto pesa moltissimo sulla vita quotidiana dei palestinesi – a Betlemme molti erano rimasti sconcertati che quel “peso” fosse stato ignorato dal papa, nel discorso al presidente Mahmud Abbas e nell’omelia durante la messa. Ma, dopo la liturgia, la macchina papale è stata fatta passare – con il consenso del papa, o mettendolo di fronte al fatto compiuto? – accanto al muro: Francesco è sceso dalla vettura, si è accostato alla barriera, l’ha toccata con il volto e con la mano, pregando per alcuni minuti in silenzio. Un’immagine che ha visto il mondo intero, e dato conforto ai palestinesi. Ma in Israele quel gesto inatteso è stato ritenuto così urtante che il premier Benyamin Netanyahu ha vivissimamente chiesto a Francesco (lo ha scritto la stampa israeliana) di fare un gesto “imprevisto” per “bilanciare” quello di Betlemme. E così l’indomani,il papa è stato portato al vicino memoriale delle vittime del terrorismo anti-ebraico nel mondo, dove, improvvisando, ha espresso una ferma condanna di ogni atto terroristico.

Infine, con decisione singolarissima, ha invitato “a casa mia”, a Roma, Abbas e il presidente israeliano Shimon Peres a pregare per la pace. I quali hanno accettato: segno che ritengono Francesco un amico affidabile.