Oman. Attese, speranze, problemi del sultanato

Michele Lipori e Luigi Sandri
www.confronti.net

Ad aprile si è svolto un seminario itinerante organizzato da Confronti in collaborazione con il centro interreligioso «al-Amana» di Muscat. Abbiamo incontrato esponenti delle diverse comunità di fede e della società civile, per comprendere la particolare situazione dei cristiani nel paese e le questioni sociali e geopolitiche.

Scende rapida la notte al Tropico del Cancro, che lambisce Muscat, la capitale del sultanato dell’Oman, e quando arriviamo sulla collina dove sono concentrate le chiese cristiane è buio, ma le scarse luci ci permettono di avere una idea delle persone – circa settemila – convenute, parte già stipate negli edifici sacri, le più nel grande spiazzale antistante, per celebrare la Pasqua. Un evento del tutto normale in molte parti del mondo ma qui, in questo spicchio di penisola arabica, a ridosso del regno saudita, singolare per molte ragioni. Che si chiariscono se inquadriamo brevemente la storia di questo paese, ove gli autoctoni sono massicciamente musulmani ibaditi, e i lavoratori stranieri in gran parte cristiani.

Tra Sindbad, portoghesi, ottomani, inglesi, Qabus bin Said

La leggenda dice che fosse omanita Sindbad, il marinaio protagonista di imprese avventurose, che costeggiò l’Africa orientale e, in Asia, si spinse fino alla Cina. Racconti epici a parte, sembra accertato che molti secoli prima che europei sbarcassero da queste parti, gli omaniti avessero fiorenti commerci con l’India, Ceylon (Sri Lanka) e Canton: caricavano le loro navi di datteri, incenso, pelli, e laggiù scambiavano i loro prodotti con spezie, vasellame, minerali. Se si guarda la carta geografica si comprende subito come ciò fosse possibile, naturalmente avendo un grande coraggio e notevolissime conoscenze nautiche.

Navigando lungo le coste africane gli omaniti trovarono particolarmente interessante Zanzibar: per la ricchezza che dava il commercio dei chiodi di garofano, per il commercio degli schiavi, e per la posizione strategica dell’isola. L’intreccio fu così grande che nel secolo XIX i sultani omaniti per un certo tempo fisseranno la loro residenza nell’isola! Agli inizi del Cinquecento i portoghesi occuparono le coste omanite, tappa preziosa nella rotta per le Indie, e le tennero per centocinquant’anni. Ad essi subentreranno poi i turchi ottomani, e a fine Settecento gli inglesi, che faranno del sultanato una sorta di protettorato.

L’attuale dinastia omanita degli Al Bu Said è al potere dal 1741: ma per quasi due secoli è stata controllata dagli inglesi. Nel giugno del 1970 il sultano Said bin Taymur è stato detronizzato dal figlio Qabus bin Said che, con un colpo di stato, ha preso il potere, saldamente tenendolo fino a tutt’oggi. Con il nuovo sultano – guida di una monarchia assoluta, in un paese dove non esistono partiti politici – l’Oman ha visto cambiamenti radicali: con i proventi del petrolio, Qabus ha fatto costruire numerose moschee, tra le quali la Grande moschea di Muscat, stupefacente per la ricchezza delle decorazioni dei lampadari e dell’enorme tappeto nella sala principale; una rete efficiente di strade, prima inesistenti; creato scuole anche nei villaggi più sperduti, aperto l’università e le professioni anche alle donne (per fare un paragone: nella confinante Arabia Saudita le donne non possono nemmeno guidare l’auto!), costruito ospedali. I lavoratori non pagano tasse – richieste solamente a quanti abbiano delle industrie che raggiungano una certa quota di reddito. L’immagine del sultano è ovunque, negli alberghi come nelle strade. E, per favorire lo sviluppo economico del paese, egli da una parte ha offerto borse di studio ai giovani omaniti per studiare anche all’estero e tornare poi in patria per formare i quadri dirigenti, dall’altra ha favorito moltissimo l’entrata di stranieri – sia quadri dirigenti che manodopera – in Oman. Nel quale, vasto come l’Italia, ma in gran parte desertico, gli omaniti sono 2,3 milioni, gli stranieri 1,7: una presenza, quest’ultima, proporzionalmente altissima. Gli stranieri provengono soprattutto dal sud-est asiatico e in particolare dall’India (a Muscat sono numerosissimi i ristoranti e i negozi indiani; anche al suq la loro presenza è prevalente). Tra gli stranieri, vi sono musulmani, cristiani (cattolici, delle Antiche Chiese orientali, anglicani e protestanti), indù, buddhisti, shintoisti, taoisti, sikh.

Proprio a proposito dei lavoratori stranieri in Oman, ci fornisce dati interessanti M.K.K. Mohamed, un indiano da vent’anni nel paese, direttore generale dell’agenzia di viaggio Mark tour, secondo il quale «il governo omanita ha da anni adottato una politica di investimento nell’industria del turismo e, più in generale, sui campi alternativi a quello petrolifero». «Tale politica – continua Mohamed – ha fatto sì che lavoratori stranieri potessero portare il loro contributo allo sviluppo del paese e alle possibilità di arricchimento individuale. Il personale è selezionato all’origine, dato che è praticamente impossibile entrare nel paese senza un contratto di lavoro, e questo – secondo il nostro interlocutore – è garanzia di crescita professionale per tutto il team di lavoro».

Gli ibaditi: tra sunniti e sciiti

Gli omaniti, che erano idolatri, ancora vivente Muhammad accolsero l’islam. Dopo che nel 632 dell’era cristiana il Profeta morì, ben presto il mondo musulmano si divise aspramente tra «sunniti» (i quali ritenevano che il capo della umma, la comunità musulmana, dovesse essere scelto dai fedeli) e «sciiti» (che invece ritenevano che la umma dovesse essere guidata da un discendente di sangue di Muhammad). In tale contesto, alcuni non si sentirono ben rappresentati da nessuno dei due gruppi: tra gli scontenti, i kharigiti, dai quali deriverebbero gli ibaditi, seguaci di Abd Allah ibn Ibad al-Tamimi. Se assai complicata è l’origine storica di questo gruppo, si sa che esso ebbe una grande diffusione nel Nordafrica ma, a poco a poco, in quella zona rimasero (e rimangono) solo piccole oasi, mentre infine l’unico paese musulmano che oggi sia a gran prevalenza ibadita è l’Oman.

Tutti i musulmani sono uniti dalla comune adesione ai cinque «pilastri» dell’islam – professione di fede («Non vi è Dio all’infuori di Allah, e Muhammad è il suo profeta), preghiera cinque volte al giorno, elemosina, digiuno nel mese di Ramadan, pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita). Ma, ci spiega Ali Abdullah Said Al-Saif, giovane imam di Nizwa, gli ibaditi divergono dagli altri su alcune questioni teologiche: ad esempio, mentre i sunniti ritengono che nell’aldilà i salvati vedranno Dio, gli ibaditi affermano che non è sicuro che vi sarà una tale visione; e mentre gli sciiti affermano che i membri della famiglia di Muhammad non avevano difetti, gli ibaditi affermano che anch’essi possono aver sbagliato. In concreto, l’ibadismo si è sviluppato come un islam tollerante.

Una fortissima presenza cristiana

Questi dati sugli aspetti geopolitici e religiosi dell’Oman, qui velocemente riassunti, hanno aiutato anche il gruppo di Confronti, che dal 18 al 27 aprile ha visitato il sultanato, a comprendere la singolarissima situazione dei cristiani nel paese. E, altra premessa, per «situare» nel contesto arabico tale presenza, va ricordato che in Arabia Saudita (2,1 milioni di kmq – circa sette volte l’Italia – e 29 milioni di abitanti) lavorano circa 2,5 milioni di cristiani, provenienti soprattutto dal sud-est asiatico: ebbene, questi cristiani non hanno diritto ad avere nemmeno una chiesa; e chi sbarcasse a Riyadh con una Bibbia nella valigia, potrebbe avere serissimi problemi. Nel sultanato, invece, Qabus ha adottato una politica diametralmente opposta: tutti i gruppi religiosi stranieri di una qualche consistenza hanno i loro templi e le loro chiese: sempre e solo per loro, perché, ci viene detto, non esiste nessun omanita che non sia musulmano, e ai cristiani (o a fedeli di altre religioni) è assolutamente proibito fare proselitismo o comunque attirare qualche persona omanita alla loro fede.

In questo quadro, e con tali ferree limitazioni, ai cristiani stranieri (ma anche agli induisti: visitiamo a Muscat un loro bel tempio) è garantito l’esercizio della fede avita. In una zona della capitale – che parlando tra noi abbiamo denominato «La collina delle chiese» – Qabus ha donato il terreno dove i vari gruppi cristiani, con i loro mezzi ma anche con l’aiuto del sultano, hanno costruito le loro rispettive chiese: i latini, i siro-ortodossi malankaresi (indiani del Kerala), i protestanti (anglicani e altre Chiese legate alla Riforma utilizzano a turno una chiesa).

La notte di Pasqua la «collina» offriva uno spettacolo davvero straordinario: gremita la chiesa dei siro-ortodossi, straripante la chiesa latina (data la folla, nella piazza antistante erano sistemate centinaia di sedie, e la gente seguiva da maxischermi la cerimonia che si svolgeva all’interno), gremita una grande tenda per i copti egiziani… Settemila cristiani che, ciascuno con i suoi riti (come l’accensione di candele che illuminavano la notte) e le sue lingue (in inglese i latini, in malayalam gli indiani del Kerala…) annunciava Cristo risorto. Non era – purtroppo – una concelebrazione: era la simultanea, vicina ma separata, celebrazione della stessa Pasqua. Colpiva l’intensità di fede dei partecipanti; ma, di per sé, e al di là della buona volontà dei singoli, appariva – a chi riflettesse su quanto stava accadendo, e nel cuore di un paese musulmano – una contro-testimonianza, perché ogni Chiesa ha celebrato per conto suo. Contigui, ma separati, e con l’eco dei canti di una assemblea che il vento portava nella adiacente assemblea. Le divisioni, le lacerazioni e l’eredità della storia hanno impedito la celebrazione di una Pasqua condivisa, spezzando insieme il pane e bevendo lo stesso calice. Non che sia un’eccezione: ovunque è così, tra i cristiani divisi, con Pasque accostate ma non condivise. Ma nella notte pasquale di Muscat questa realtà ci è parsa insopportabilmente triste e scandalosa.

L’indomani alla chiesa latina, dedicata ai santi Pietro e Paolo, incontriamo un francescano filippino e un prete maronita libanese, padre Emmanuel, inviato qui per dare una mano ai confratelli. I due ci raccontano del grande lavoro, la domenica, per fare la catechesi a ragazzi o anche agli adulti. «Nella stragrande maggioranza i nostri fedeli sono cittadini stranieri che risiedono in Oman per motivi di lavoro, per cui, anche se non ci è possibile praticare evangelizzazione o fare proselitismo, il nostro lavoro è molto importante per il compattamento della comunità e per offrire alle persone un sostegno umano, oltre che nei confronti della loro fede», ci dice padre Emmanuel.

Sul dialogo inter-religioso in Oman è Justin Meyers, della Reformed Church of America ad illustrarci la situazione. Esso negli ultimi anni è stato al centro degli impegni del sultano al fine di progredire nel processo di sviluppo, anche economico, del paese, dato che oltre il 40% degli abitanti è di origine straniera. Il pastore Meyers ci parla della storia della missione della Reformed church of America e di come essa sia stata la prima istituzione non-islamica, insieme alla missione della Chiesa anglicana, ad aver avuto un riconoscimento istituzionale da parte del sultano, grazie soprattutto al lavoro dei primi missionari che avevano istituito agli inizi del ‘900 i primi ambulatori, diventati successivamente degli ospedali. «Non bisogna dimenticare – ci dice il pastore Meyers – che prima che l’attuale sultano salisse al trono il paese era del tutto privo di strutture ospedaliere in senso proprio». Ora, però, il ruolo della missione e del centro interreligioso Al –Amana, presieduto dallo stesso Meyers, è sì di continuare nella cura ai bisognosi, ma anche di essere degli interlocutori ufficiali del sultano e di diffondere la conoscenza delle religioni e della cultura di cui esse sono portatrici, a tutti i livelli. «Il sultano – ci assicura il pastore Meyers – sta investendo molto sulla consapevolezza religiosa».

È quanto, dal suo punto di vista, ci aveva spiegato al Ministero per gli Affari religiosi Mohammed Al-Mamari, il quale ci ha illustrato i progetti (mostre, conferenze, pubblicazioni ecc.) portati avanti dal governo per promuovere l’incontro delle culture in Oman. «È necessario – dice Al-Mamari – investire molto su questo punto, perché è solo attraverso l’incontro che tutte le parti che compongono il complesso mosaico dell’Oman possono cooperare per il benessere del Paese. Altrettanto importante è far conoscere l’Oman e tutte le sue ricchezze culturali all’estero e mostrare la grande tradizione al dialogo e alla tolleranza che viene dalla nostra storia e dalla scuola ibadita».

In sostanza, se possiamo riassumere le impressioni del nostro viaggio, e senza la pretesa di esaurire i temi emersi o balenati, ci sembra che, dal punto di vista geopolitico, l’Oman potrebbe essere ad una svolta il giorno nel quale Qabus uscirà di scena. Il sultano non ha figli ma, ci dicono, ha predisposto le linee-guida per la successione. Ma se nascessero divergenze? D’altronde, oggi come oggi è difficile prevedere come nel giorno «x» si porranno Riyadh o Teheran. Separata dall’Oman dagli Emirati Arabi Uniti, ma appartenente ad esso, vi è la penisola di Musandam, che è come la chiave che apre e chiude lo Stretto di Hormuz. Basti questo solo particolare per evidenziare l’importanza strategica dell’Oman.

E dal punto di vista religioso? Il dialogo ad hoc, in Oman, e tenendo conto che tutti gli autoctoni sono musulmani, è visto come un mezzo per favorire la pacifica convivenza con gli stranieri, appartenenti a variegate fedi, ciascuno rispettando i limiti stabiliti ma, insieme, contribuendo alla costruzione del paese («Sul lavoro nessuno ti chiede di che religione sei» – ci aveva detto M.K.K. Mohamed, il responsabile dei lavoratori stranieri).

L’ultima sera del nostro viaggio l’abbiamo passata nel deserto, dormendo in piccole capanne o, chi voleva, all’aperto. Non turbata da nessuna luce, nella notte il cielo – di un blu profondo e luminosissimo – incombeva su di noi, e le stelle sembravano srotolarsi sulle nostre teste. Inevitabile, di pensiero in pensiero, chiederci quale sarà, nel prossimo futuro, il cielo politico-religioso del sultanato e, al di là di esso, dell’intera penisola arabica e dei paesi del Golfo. Ardua la risposta.