E la democrazia in Italia? di M.Vigli

Marcello Vigli
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Dalla seconda fase del recente appuntamento elettorale, pur se ben diversa dalla prima per importanza e numero di votanti, si possono trarre ulteriori elementi di riflessione significativi, pur se meno chiari, sugli sviluppi del sistema politico italiano. Nello stesso giorno si è votato per eleggere il Parlamento europeo e per rinnovare due assemblee regionali e oltre cento Consigli comunali, alcuni di particolare importanza, dopo una campagna elettorale, all’insegna della scelta fra paura e speranza proposta dal Pd.

Dopo due settimane più della metà degli aventi diritto, non avendo più il proprio candidato in lizza, ha disertato le urne rendendo le percentuali dei voti espressi difficili da confrontarsi. Altrettanto difficile è diventata una corretta interpretazione dell’orientamento dei votanti perché molti degli elettori, che non si sono sottratti al ballottaggio, lo hanno usato come occasione di rivincita indiretta votando “contro”. Si è tornati, perciò, alle polemiche di sempre che consentono ai contendenti di trovare fra i tanti risultati quello utilizzabile per negare la propria sconfitta, per attribuirla all’avversario, per vantare successi compensativi.

In verità, se ci si limita alla valutazione del numero dei Comuni conquistati o persi, sono confermati il successo del Pd, la disgregazione della destra, la scomparsa del centro tradizionale, lo stallo del M5S che, non avendo maggioranze comunali da perdere e pochi candidati giunti al ballottaggio, non può essere dichiarato perdente.

Ben diversa la valutazione politica se si contestualizzano i risultati.

Resta l’immagine di un Pd ormai egemone e imbattibile, accreditata da molti suoi esponenti e suffragata dai media, pur se un po’ appannata, ma si è confermata l’esistenza di una situazione interna non risolta. Sono anche apparsi più chiari i sintomi dell’isolamento sul territorio prodotto dalla disponibilità di tutte le altre forze a coalizzarsi, pur se in conflitto fra loro, per ridimensionare, almeno a livello locale, il partito di maggioranza.

Clamorosi sono stati i casi di Livorno dove il candidato del M5S nel ballottaggio grazie a quella coalizione ha recuperato il divario di 20 punti di percentuale nei confronti di quello del Pd, pari di 20 punti il recupero del candidato di centrodestra a Perugia, di 30 punti a Potenza. A Padova il Pd diviso al suo interno non ha retto la pressione della Lega, forte del sostegno di tutti gli altri.

Questi risultati non svalutano la portata del successo del partito, ma costituiscono motivo di preoccupazione sulla sua capacità a fronteggiare l’isolamento all’esterno e la fragilità della coesione interna nella fase di rilancio del programma di riforme.

Lo ha riconosciuto implicitamente lo stesso Renzi nel proclamare da Pechino che “nessun veto” di singoli parlamentari può valere più del “voto elettorale”.

Senza rilevare la gravità della neppure troppo nascosta contrapposizione in questo slogan fra piazza e Parlamento, fra cittadini e istituzioni mi pare che non ci sia piena consapevolezza che la ormai inequivoca volatilità del voto elettorale, in aggiunta al permanere del forte astensionismo, non garantisce la stabilità del governo fondata sul consenso popolare più che sulla certezza del voto parlamentare.

Ad aggiungere motivi di incertezza contribuisce la scoperta della corruzione dilagante negli apparati pubblici subito dopo le giornate elettorali.

Ha inferto un duro colpo alla fiducia dei cittadini nel sistema democratico per il coinvolgimento di settori istituzionali: dalla magistratura alla Guardia di finanza. Al tempo stesso ha lasciato emergere la latente endemica ostilità della politica nei confronti della magistratura espressa nell’approvazione, all’interno di un disegno di legge di altra natura, dell’emendamento del leghista Gianluca Pini, che ha riesumato la responsabilità civile dei magistrati proprio mentre alcuni di loro sono impegnati nella lotta contro la corruzione.

Nel voto si sono coinvolti molti deputati del Pd in contrasto con le direttive della segreteria del partito e incuranti del suo valore antigovernativo.

Parimenti in contrasto col governo e con le scelte del partito si sono espressi i tredici senatori che si sono autosospesi dal Gruppo parlamentare in disaccordo con la scelta di Renzi di sostituire, nella Commissione Affari costituzionali del Senato, Corradino Mineo che continua ad opporsi al suo disegno di legge per la riforma.

Renzi mostra fiducia nella possibilità di vincere queste resistenze nei gruppi parlamentari all’interno della più generale manovra che avvierà, a partire dall’Assemblea di sabato 14 luglio, per ricostruire l’unità del Partito, auspicata anche da molti dei suoi avversari per utilizzare al meglio l’eccezionalità del risultato elettorale.

Non è possibile in questa sede prevederne gli esiti, mentre si può guardare con preoccupazione alle sorti di un sistema politico in cui, alla fragilità di questo Pd da tutti considerato il cardine della stabilità del Paese e della stessa conservazione del sistema democratico in Italia, si accompagnano condizioni di instabilità se non di crisi non solo dei possibili interlocutori alla sua sinistra, ma anche delle altre due forze politiche concorrenti.

Non offrono prospettive di collaborazione sia le polemiche sorte all’interno del promettente esperimento di convergenza a sinistra, rappresentato dalla lista Tsipras, per la scelta di Barbara Spinelli di recedere dalla sua scelta di non accettare il seggio al Parlamento europeo, sia le fibrillazioni all’interno dell’apparato di Sel alla vigilia di importanti decisioni sul suo futuro.

Dall’altra parte non sembra avere sbocchi unitari e quindi politicamente significativi, la crisi del centro destra sia nei settori che, pur se con intenti diversi, si affidano alla ripresa di una rinnovata guida berlusconiana, sia nei gruppi impegnati in tentativi di costruire nuove aggregazioni.

Maggiori capacità di recupero sembra avere il M5S. Provato ma non disperso dalla sconfitta elettorale, ne ha tratto una forte sollecitazione di ripensamento del modo di essere di agire a partire dall’analisi delle ragioni che l’hanno provocata. Sembra chiaro, però, che la rete si è dimostrata insufficiente ad evitarla confermando i dubbi sulla sua possibilità di costituire la forma alternativa a quelle assunte fin qui dalla democrazia in Italia.

Rifiutato il modello costituzionale, fondato sull’esistenza di partiti suffragati dal voto popolare espresso col sistema proporzionale; verificato il fallimento del sistema personale affermatosi con Berlusconi; non è ben chiaro, in questa fase caratterizzata da un sistema semi presidenziale a conduzione Napolitano, quale modello intende sperimentare Renzi data l’impraticabilità di quello previsto nell’assurdo progetto di legge elettorale combinato con Berlusconi e approvato dalla Camera.

Certo, con il programma di rendere sempre più “leggero” il partito e con il tentativo di realizzare il primato dell’esecutivo sul legislativo con la sostanziale eliminazione del Senato, non lascia sperare in un rilancio di un reale sistema rappresentativo, pur corretto, quale previsto nella Costituzione.