Anni ’40 – ’50: Resistenza e ricostruzione nel quotidiano delle donne

Rosanna Marcodoppido
www.womenews.net

Testo di riferimento scritto per l’incontro a Bolsena (2 giugno 2014) nell’ambito delle celebrazioni per il 70° della Liberazione della zona. La presenza di donne e uomini avanti con gli anni e di ragazzi della scuola Media che li hanno intervistati sull’esperienza della guerra in un video presentato dopo il mio intervento introduttivo, ha suggerito una scelta tra le cose da dire e un diverso stile comunicativo

Alcuni dati generali sulla Resistenza in Italia

Uomini: uccisi 44.700; mutilati e invalidi 21.20
Civili deportati: 40.000 tra cui 7.000 Ebrei (2.000 rastrellati dal ghetto di Roma di cui solo 11 tornati vivi; 207 erano bambini, nessuno di loro si è salvato)
Vittime di rappresaglia: oltre 10.000 donne, uomini, bambini.
Donne: 122 Condannate dai Tribunali speciali prima dell’occupazione tedesca di cui 2 morte in carcere; 35.000 Partigiane combattenti; Gruppi di Difesa della Donna 70.000 (di cui 53 arrestate e torturate, 2750 deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate); 20.000 patriote con funzioni di supporto; 2.900 giustiziate o uccise in combattimento; 2.750 deportate in Germania; 512 Commissarie di guerra; 19 decorate di medaglia d’oro e 17 di medaglia d’argento.

Sono dati approssimativi, e lo sono ancora di più quelli riguardanti le donne sia per la specificità del loro contributo alla lotta antifascista, tra varie forme di Resistenza, sia perché la maggior parte di loro è stata a lungo dimenticata e vedremo in seguito perché.

Donne e storiografia

Dobbiamo tenere presente che per troppo tempo la Resistenza è stata raccontata accentuando la retorica della lotta armata, soprattutto quella maschile, e rendendo quasi ininfluente il ruolo delle donne, impegnate invece più in quelle forme di resistenza senza armi che, come ormai è ampiamente riconosciuto, hanno reso possibile la lotta partigiana e la vittoria sul nazifascismo. Secondo alcune ricerche sarebbero state circa due milioni le donne che parteciparono in tutta Italia alla lotta di Liberazione: contadine, operaie, studentesse, impiegate, casalinghe. Non è un caso a mio avviso che “Bella ciao”, la più nota canzone della Resistenza, sia stata scritta sulle note di un preesistente canto di lotta delle mondine.

La sottovalutazione delle donne nel racconto storico non riguarda ovviamente solo la Resistenza, ma attraversa tutta la storiografia, erroneamente considerata “storia umana” e che, al contrario, è stata scritta per millenni solo dalla parte maschile dell’umanità. Nel 1974, ad appena 24 anni, la storica Annarita Buttafuoco così scriveva “La donna, che ha tessuto nella storia il quotidiano, dagli storici è stata rifiutata.” Il quotidiano, dunque, “ Quel tempo che agli storici finora è sfuggito e che si può ritrovare solo cercando la donna nella storia. Anzi, è solo così che si può parlare legittimamente, scientificamente di storia: solo quando nella “conoscenza del passato umano” avremo inserito anche la conoscenza del passato della donna, di colei che col suo apparente immobilismo ha reso possibile la storia stessa” (Annarita Buttafuoco “Riflessioni sul mestiere di storica” DWF n°1 – 1975). La Storia come disciplina, con i suoi contenuti e le sue categorie, è stata costruita infatti a partire dal punto di vista degli uomini sulle vicende umane che essi hanno ritenuto rilevanti. La lettura dei fatti perciò è segnata pesantemente da uno sguardo consolidatosi nei millenni nella convinzione della inferiorità del genere femminile e del suo disvalore politico e sociale. Oggi, grazie alla inedita soggettività di tante donne a seguito delle lotte per l’emancipazione e la libertà, la ricerca storiografica tende sempre più a raccontare e significare l’esperienza storica di entrambi i generi sia nella sfera pubblica che in quella privata, a diventare cioè una storia compiutamente umana. E’ evidente da quanto detto finora che la cancellazione delle donne dalla narrazione storica non rappresenta solo un vuoto di conoscenza da colmare, ma impone una radicale rifondazione della disciplina, l’utilizzo di nuove categorie: una rifondazione che determina, ad esempio, il crollo della artificiale frattura tra pubblico e privato, mette in luce altri aspetti fondamentali della vita e dello svolgimento delle relazioni umane, pone l’accento sul ruolo dei sentimenti in quanto potenti motori dell’agire. Come vedremo, l’esperienza resistenziale delle donne, se raccontata nella sua verità e complessità, dimostra in maniera emblematica tutto questo.

A questo proposito segnalo Diario partigiano scritto da Ada Gobetti su sollecitazione del filosofo Benedetto Croce e pubblicato per la prima volta nel 1956. E’ un libro dove, attraverso appunti di diario scritti quasi ogni giorno dal 43 al 45, la vita quotidiana e le emozioni private di una madre e di un figlio diciottenne si intrecciano all’impegno antifascista. Ne esce una figura femminile straordinaria e uno spaccato lucido, di acuta intelligenza e sensibilità, di cosa concretamente è stata la Resistenza a Torino e dintorni per donne e uomini.

Resistenza armata, Resistenza civile, Resistenza privata

A partire dagli anni settanta, per merito soprattutto di ricerche e studi di storiche femministe, è iniziato un lavoro storiografico che ha messo bene in evidenza la presenza e il ruolo delle donne in quel tragico periodo della nostra storia. Oggi si parla non solo di Resistenza armata ma anche di Resistenza civile e di Resistenza privata e si è in questo modo cominciato a dare il giusto riconoscimento alle tante figure femminili finora dimenticate o svalutate: é la Resistenza taciuta, come recita il titolo di un bel libro su cui tornerò.

Sono soprattutto le biografie a rappresentare le fonti preziose a cui attingere per ricostruire gli eventi e dare senso all’esperienza resistenziale femminile. Ma anche le interviste, che hanno forzato il muro di silenzio che spesso le stesse donne hanno alzato per troppa modestia e/o per difendersi da un maschilismo diffuso; muro che è per fortuna poi crollato in una relazione comunicativa capace di accogliere con attenzione e delicatezza il loro racconto e di condividerne senso ed emozioni.

Cominciamo dalla testimonianza di Tersilla Fenoglio, partigiana comunista, nome di battaglia Trottolina: “… alla sfilata non ho partecipato: ero fuori ad applaudire. Ho visto passare il mio comandante, poi ho visto Mauri, poi tutti i distaccamenti di Mauri con le donne che avevano insieme. Loro sì che c’erano. Mamma mia, per fortuna non ero andata anch’io! La gente diceva che eran delle puttane e i compagni hanno fatto bene a non farci sfilare: hanno avuto ragione.” (A. M. Bruzzone, R. Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi Bollati Boringhieri 2003).

Dunque per una donna partecipare alla lotta armata o fare la staffetta camminando di giorno e di notte per strade di montagna, dormire in luoghi di fortuna con i compagni significava sottoporsi anche al sospetto di essere poco seria, al punto che la Liberazione per molte di loro ha coinciso con il nascondimento di sé e il silenzio.
Dobbiamo considerare il fatto che nei venti mesi dal 43 al 45, per la prima volta nella storia, una o più ragazze si sono trovate spesso insieme a molti uomini, in zone lontane dai centri abitati, in situazioni di promiscuità normalmente considerate disonorevoli per le donne. Per questo molte di loro hanno preferito tacere su questa esperienza che per i compagni invece si ammantava di eroismo pubblicamente riconosciuto.

Marisa Ombra in Libere sempre (Einaudi 2012) scrive che per quaranta anni non ha mai parlato della sua esperienza di staffetta, attiva nella zona del Monferrato e delle Langhe. Quando venne invitata per la prima volta a raccontare, si rese conto che ricordava cose diverse rispetto ai suoi compagni di allora che parlavano con entusiasmo e nei minimi dettagli di battaglie, agguati, vittorie, ritirate. Lei custodiva e custodisce in memoria di più le facce, le atmosfere, i discorsi, piccoli abbozzi di riflessione sul senso di certe cose “perché erano in sé importanti” al di là delle necessità del momento e della logica della lotta; così scopre che la memoria delle donne, in buona parte, è diversa da quella degli uomini, guidata da uno specifico valore femminile tanto che così conclude: “Direi quasi che l’attenzione verso il mondo e verso gli altri, e quindi verso se stessi, è il primo requisito per imparare ad essere liberi”

A questo proposito sono illuminanti le parole di Lucia Ottobrini, prima nell’esperienza dei Gap a Roma e in seguito nella lotta partigiana ai Castelli romani, che ricorda che aveva “maturato la consapevolezza della profonda ingiustizia di questa guerra, tutti questi giovani, soldati, costretti poi a nascondersi, a fuggire. Ma anche quando ho visto un camion pieno di giovani tedeschi, che cantavano “A casa, a casa, che lì staremo meglio”. Potevano avere tra i sedici e i diciotto anni. Come se li avessi sentiti figli miei. Tu lotti per una cosa e improvvisamente trovi un fratello che lotta dall’altra parte.” (Simona Lunadei, Lucia Motti, Donne e Resistenza nella provincia di Roma. Testimonianze e documenti, Provincia di Roma 1999). Questa difficoltà per le donne di stare in una rigida logica di guerra, di contrapposizione amico-nemico è, a quanto ne so anch’io direttamente stando nell’Udi, abbastanza diffusa tra le testimoni che hanno parlato di sé. Anche questo ha reso difficile la presa di parola in un contesto di celebrazione spesso retorica, segnata dalla esclusiva esaltazione del pur necessario e inevitabile conflitto armato.

In quali forme e modi le donne hanno partecipato alla Resistenza

Il 25 luglio del 43 il Gran Consiglio del fascismo votò a maggioranza una mozione di sfiducia a Mussolini e il re affidò il governo al maresciallo Badoglio che aspettò fino all’8 settembre prima di firmare un armistizio con gli alleati: questo consentì ai Tedeschi di organizzarsi per dare inizio all’occupazione massiccia dell’Italia e ai fascisti di dare vita il 23 settembre del 43 alla repubblica di Salò. Il movimento antifascista presto riunì le sue varie anime in un Comitato di Liberazione Nazionale, il CLN, dando inizio alla Resistenza. Con la caduta del fascismo escono dal carcere le prigioniere politiche, tornano le antifasciste dal confino e fanno ritorno dall’estero le donne dell’emigrazione antifascista di cui parla Nadia Spano, una delle Costituenti, nel libro Esperienza storica femminile nell’età moderna e contemporanea (a cura di A. M. Crispino – Circolo Udi “La Goccia” 1988). Saranno tutte importanti figure della Resistenza.

Subito dopo l’8 settembre, alcune appartenenti ai partiti presenti nel CLN decisero di costituire una associazione di sole donne, i “Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai Combattenti della libertà” (GDD) collegati al CLN che li riconobbe come sua articolazione fondamentale. Nel loro atto costitutivo i Gruppi di Difesa della Donna scrivono che intendono lottare contro nazisti e fascisti repubblichini diffondendo tra le donne la persuasione alla lotta, raccogliendo danaro, viveri e indumenti per i combattenti internati in Germania e i prigionieri, sabotando la produzione, salvando renitenti alla leva e civili ricercati. Ma, nello stesso tempo, chiedono diritti per il proprio genere come il voto, la parità salariale, i permessi pagati per gravidanza e parto, l’ istruzione e la partecipazione piena alla futura vita democratica del Paese. Il loro giornale è “Noi donne” diffuso clandestinamente casa per casa per informare e formare le donne ad una coscienza civile, persuaderle alla partecipazione alla lotta nelle sue varie articolazioni e necessità.

Una figura straordinaria appartenente fin dal primo momento ai GDD è senza dubbio Joyce Lussu per il carattere cosmopolita (la madre era inglese) della sua formazione e per la complessità internazionale della sua attività resistenziale per la quale ha ottenuto la medaglia d’argento. Nel 24, a dodici anni, è costretta con la sua famiglia antifascista a lasciare Firenze e l’Italia, dopo il gravissimo pestaggio del padre e del fratello da parte dei fascisti. Studia in Svizzera, poi in Germania, insegnando lingue per mantenersi agli studi e tornando in Italia dai nonni durante l’estate. Nel 28 è già schedata come antifascista, nel 30 è in Libia come istitutrice. Nel 32 va a trovare il fratello al confino a Ponza, arrestato in quanto facente parte del movimento antifascista “Giustizia e libertà” a cui aderirà anche lei. In questo periodo cominciano gli incarichi per tenere i collegamenti tra i vari esponenti dell’antifascismo in Italia e all’estero. Incontra nel 33 a Ginevra Emilio Lussu, del partito d’azione, che poi diventerà suo secondo marito e da cui avrà un figlio. Intanto i genitori dopo quasi nove anni di esilio tornano in Italia, nelle Marche, e la loro casa diventa punto di riferimento per molti antifascisti tanto che nel 41 la madre a 65 anni verrà arrestata e mandata al confino in un paese dell’Abruzzo. Nel 34 Joyce si sposa e segue il marito in Kenia, divorzia dopo due anni per divergenze politiche, ma non può tornare in Italia in quanto ritenuta una sovversiva; si reca a Ginevra dove ritrova Emilio Lussu e con lui va a vivere a Parigi. Si iscrive alla facoltà di lettere alla Sorbona vivendo nella clandestinità in contatto con l’emigrazione antifascista. All’inizio della guerra, con l’arrivo dei Tedeschi in Francia, lei ed Emilio sono costretti a fuggire e riparano a Lisbona dove lei frequenta l’università per completare i suoi studi. Ottengono nel 42 il passaporto inglese, arrivano a Londra e subito Joyce si arruola in un campo militare per soldati che saranno paracadutati nelle zone occupate: è l’unica donna e impara ad usare le armi, la ricetrasmittente, i segreti degli inchiostri simpatici. Tornano in Francia e lei riesce a salvare alcuni antifascisti, tra cui Saragat, ricercati dalla gestapo, accompagnandoli in Svizzera con documenti falsi confezionati da lei. L’8 settembre, al momento dell’armistizio, è in missione a Sanremo, ma viaggia due giorni per raggiungere Roma dove prende contatti col nascente Comitato di liberazione nazionale, a cui aderisce fin dal primo momento e da cui ha l’incarico di andare al sud per creare un collegamento. Attraversa a piedi le linee tedesche e a Gifoni (Salerno) trova gli Americani e può mandare per radio ai compagni del Cln il primo messaggio dall’Italia liberata all’Italia occupata. Il 6 giugno del 44, in una Roma finalmente libera, Joyce ed Emilio si sposano civilmente per poter entrambi riconoscere il figlio che sta per nascere. Joyce è tra le fondatrici dell’Unione Donne Italiane. Nella sua lunga vita ha continuato a viaggiare lottando sempre a fianco dei popoli oppressi. Ha scritto libri di poesie (le prime scritte e pubblicate quando aveva dieci anni) di narrativa e saggistica.

Troviamo molte donne anche nelle varie brigate, nei Gap (gruppi di azione patriottica) e Sap (squadre di azione patriottica) che operavano armate e che si sono distinte con atti di eroismo al pari degli uomini. Tra di loro mi soffermerò brevemente solo sulla figura di Carla Capponi, medaglia d’oro al valor militare, la quale l’8 settembre è presente come volontaria nella battaglia presso la basilica di San Paolo per la difesa di Roma. Si iscrive al partito comunista e apre la sua bella casa al centro di Roma alle riunioni di attivisti antifascisti. Si ribella ai compagni che vogliono assegnarle un ruolo sussidiario e si rifiutano di consegnarle una pistola. La ruba perciò ad un milite in un autobus affollato. Partecipa alla Resistenza nel Gap Centrale ed è protagonista di varie azioni di sabotaggio tra cui l’attentato di via Rasella che costò la vita a 32 soldati tedeschi e che provocherà poi la reazione feroce dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Nell’aprile del 44 è nelle formazioni partigiane della campagna romana e, con il grado di capitano, viene nominata vicecomandante di una unità partigiana che opera a sud di Roma. Nel 53 è eletta nelle liste del PCI e rieletta ancora nel 72. Poco prima di morire, nel 2000, ha pubblicato “Con cuore di donna” , un libro di memorie prezioso, in cui racconta la sua esperienza.

Un discorso a parte meritano le staffette: per lo più giovani e giovanissime che, servendosi in genere della bicicletta, portano -nascosti sotto i vestiti o sotto gli ortaggi in bella vista nella cesta- cibo, armi, stampa clandestina e comunicazioni ai gruppi di partigiani sulle montagne passando ai posti di blocco col respiro sospeso, spesso salvando la vita a tanti compagni, ma rischiando ogni volta la propria. Ha ragione Carla Capponi quando afferma che hanno pagato più le staffette che le combattenti armate, le quali potevano difendersi, e il rischio maggiore per loro era quello di morire in combattimento o fucilate sul posto. Quando invece una staffetta veniva catturata doveva saper tacere anche sotto le più atroci torture perché lei era depositaria di informazioni su luoghi e persone. Il suo compito delicatissimo consisteva nel garantire il collegamento tra il centro e la base sparsa su tutto il territorio: se avesse parlato sarebbe crollata tutta l’organizzazione e molti sarebbero stati catturati, uccisi, imprigionati.

Marisa Ombra ricorda ”La guerra partigiana fu essenzialmente movimento, attacchi e fughe, colpi di mano e ricerca di nascondigli. [Il lavoro di staffetta] era qualcosa da inventare e praticare giorno per giorno, se non momento per momento. Per dire che ci si muoveva nella provvisorietà più assoluta (…..). Lavoro solitario, dunque. Nessuno a cui chiedere consiglio (…). Non hai esperienza alle spalle, tutto è nuovo e misterioso. Non puoi immaginare quale sarà l’esito di ciò che deciderai di fare, ma devi scegliere. Devi provarci. C’è la paura di sbagliare” ma c’è anche, come lei poi aggiunge, una sensazione di potenza e di libertà, un forte senso di sé in quanto donna. C’è da sottolineare che in questo stravolgimento della normalità del quotidiano gli effetti si ripercuotevano nel corpo e nelle sue funzioni riproduttive: molte donne hanno perso le mestruazioni per tutto il periodo ( questo è successo anche nei campi di concentramento). E’ stato indubbiamente un momento duro, tragico, ma anche un vero e proprio apprendistato per la maturazione di una coscienza civile e politica delle donne le quali poi, a liberazione avvenuta, come vedremo, giustamente non vorranno tornare nel ruolo tradizionale in situazione di subalternità e di discriminazione.

Tra le tante combattenti senza armi mi ha molto colpito la figura di Norma Parenti Pratelli, di Massa Marittima su cui ho avuto modo di leggere alcuni documenti nell’Archivio Centrale dell’Udi. Nonostante la gravidanza avanzata, dopo l’8 settembre del 43 inizia a collaborare con le prime bande di partigiani sorte in Italia rifornendo i combattenti di viveri e munizioni, volantini e stampa clandestina nascosti dopo la nascita del figlio anche nella carrozzina. Diffonde tra la popolazione, incurante del pericolo, la propaganda del CLN della sua città. Rifiuta l’ospitalità e il lavoro che le offrono le suore clarisse quando la sua attività diventa nota a tutti. Quando a Massa nel 44 un giovane partigiano viene ucciso, trascinato per le vie della città e abbandonato sulla piazza del Duomo, tutti fuggono inorriditi; Norma è lì e con l’aiuto di due donne ricompone il corpo martoriato, cerca un carro, fa avvisare i genitori del ragazzo a Radicondoli e li ospita nella sua casa fino alla tumulazione della salma nel cimitero, nonostante il fermo e minaccioso divieto del capo fascista della Provincia. La sua lotta non ha sosta: rifocilla, cura e accudisce i soldati russi e polacchi prigionieri dei Tedeschi e li aiuta a fuggire e a unirsi ai partigiani (le testimonianze parlano di 60 uomini salvati da lei), provvede personalmente alla stampa dei manifestini del CLN con una rudimentale macchina tipografica installata nella soffitta della sua abitazione. Il 23 giugno del 44, mentre stanno per arrivare gli alleati, Norma, di nuovo incinta, viene presa e il figlio che viene brutalmente allontanato. Prendono anche la madre e le fucilano entrambe tra i campi. La madre riesce a salvarsi perché si finge morta e perché proprio in quel momento sulla strada cade il primo colpo di cannone dell’artiglieria americana che fa scappare gli aguzzini. Norma muore: aveva appena 23 anni. Su richiesta del marito e anche delle donne dell’Udi è stata insignita della medaglia d’oro al valore militare.

E’ soprattutto nel quotidiano fluire della vita che tantissime donne, isolate o in gruppo, hanno saputo dare un contributo essenziale alla Resistenza. Immaginate una ragazza di fronte alla espulsione dalla scuola di una sua cara compagna solo perché Ebrea, o a un suo parente o conoscente torturato, perseguitato. Immaginate donne che vedono tanti giovani soldati italiani sbandati, braccati da soldati Tedeschi, tra rastrellamenti, arresti, deportazioni. Immaginate madri e sorelle di fronte alla fame di tutta la famiglia. Allora cosa fanno, ora che la guerra è dappertutto, entra anche nelle case e distrugge cose e persone? Molte per paura tacciono e restano a guardare, ma tante reagiscono e consapevoli dei rischi che corrono nascondono gli Ebrei, riforniscono di abiti civili i soldati sbandati che non vogliono combattere a fianco di repubblichini e nazisti. Portano, ad esempio, sulla strada cibo e vestiti ai mille marinai che da La Spezia vanno verso Castelfranco Emilia; soccorrono i feriti, danno sepoltura ai partigiani fucilati e impiccati; fermano, come accadde a Carrara, la deportazione in massa in Germania degli uomini; rispondono all’appello dei Gdd che organizzano gli scioperi nelle fabbriche e gli assalti ai forni. E, ancora, mettono a disposizione le loro case, le cosiddette “case di latitanza”, in città e nelle campagne, fornendo riparo, cibo e cure ai partigiani, ma anche a numerosi soldati alleati. Anche le suore danno il loro contributo: aprono i loro conventi e nascondono, accudiscono, curano

La storica Anna Bravo chiama tutto questo “maternage”: secondo lei la più grande operazione di salvataggio della nostra storia (Archivio Centrale “I Gruppi di Difesa della Donna 1943-1945” Unione Donne Italiane, 1995). Questa è la Resistenza civile, un modo di resistere e lottare che si pone nell’incerto confine tra pubblico e privato e nasce innanzitutto dal bisogno di rimanere umani, salvaguardare la propria e altrui dignità comunque, continuare a prendersi cura degli altri anche in tempi segnati dal’orrore, dalle bombe, dalla morte. Anche la resistenza privata espone a pericoli e si esprime nel tentativo, ad esempio, di alleviare la fame dei propri cari, soprattutto i bambini, anche a costo della vita, come è successo a Roma dove dieci donne vengono fucilate dopo aver sottratto farina bianca al forno che la riforniva in esclusiva ai Tedeschi.

Della maggior parte delle donne che giorno dopo giorno hanno fatto numerose e rischiose azioni di resistenza civile o privata non si sa nulla, né hanno ottenuto riconoscimenti a liberazione avvenuta. Come non hanno ottenuto risarcimenti di guerra le 60 mila donne stuprate e infettate nel frusinate dalle truppe marocchine che risalivano la penisola con l’esercito degli alleati. La deputata Maria Maddalena Rossi, presidente dell’Udi, proverà per loro a chiedere nel 51 un indennizzo e al sottosegretario agli Interni che annunciava la bocciatura dell’interpellanza così risponde “Si vede che lei non è donna!”, mettendo in evidenza il significato politico e sociale della esigua presenza femminile nel Parlamento italiano a fronte di una massiccia presenza di uomini e ricordando a noi ancora oggi che la sessuazione dei soggetti produce differenze sostanziali che hanno tutte il diritto di essere adeguatamente rappresentate nelle assemblee elettive: questa è infatti la democrazia. Una delle donne violentate in una toccante intervista afferma “La Liberazione non l’ho mai festeggiata, perché sono ricordi che non posso scordà. (…) Che liberazione era quella?” (Perry Willson, Italiane. Biografia del Novecento Mondadori 2011). Anche alcune partigiane subiscono abusi sessuali durante le torture. Lo stupro e le strategie per evitarlo, nascondendo anche nelle caverne donne e bambine all’arrivo dei soldati, rappresentano un altro capitolo orribile nel quotidiano femminile di questa guerra, come d’altronde di tutte le guerre. Gli episodi di stupri e violenze sessuali furono purtroppo tanti, anche ad opera dei soldati fascisti e tedeschi, violenze di cui solo alcune donne sono riuscite a dire e si capisce perché, in un tempo in cui la violenza sessuale era ancora, e lo sarà per molto fino al 1996, un semplice reato contro la morale pubblica e la donna finiva col diventare soggetto inessenziale o, peggio, la vera colpevole.

Mi fermo qui, troppi sarebbero gli eventi e le figure da ricordare, mi preme però nominare almeno alcune che, oltre a Luciana Viviani e Marisa Ombra, ho conosciuto nell’Udi : Marisa Rodano, Lidia Menapace, Maria Michetti e Giovanna Marturano (la “Bimba col pugno chiuso” di un recente documentario), donne di grande valore umano e politico.

La Ricostruzione

Finalmente la guerra nel 45 finisce lasciando morti, mutilati, vedove, orfani e case, fabbriche e ponti distrutti, strade dissestate, scuole occupate dagli sfollati, fame e miseria. Bisogna ricostruire il Paese nei suoi aspetti materiali e nel suo tessuto affettivo, sociale e politico, in un clima difficile, segnato da vendette e ritorsioni che provocarono anche numerose vittime.

Molte donne, che durante la guerra avevano sostituito gli uomini nelle fabbriche e negli uffici, devono lasciare il posto ai reduci. Il messaggio rivolto loro anche dalla Chiesa è tornare a casa, ai doveri familiari. Le tante che avevano sperimentato la funzione di capo famiglia in un inedito rapporto con la burocrazia, che avevano viaggiato da sole e con mezzi di fortuna per procurarsi medicine, carbone e cibo si ritrovano non solo risospinte nel ruolo tradizionale, ma anche impegnate a ritessere relazioni con mariti, figli e padri feriti nel corpo e nell’anima dopo anni di prigionia, deportazione o lotta clandestina. Compito difficile quello di elaborare i lutti, cercare i superstiti ancora non tornati, dare sepoltura alle salme man mano che arrivavano, aiutare a trovare una umanità in gran parte perduta a quanti troppo a lungo erano vissuti tra obbedienza cieca agli ordini ed esperienze indicibili che spesso pesano sulla coscienza. Nonostante queste difficoltà molte si impegnano per cambiare la società e costruire una democrazia che le comprenda; iniziano le prime grandi manifestazioni di massa di sole donne nella storia della Repubblica per fare fronte alle tante necessità vitali: esempi di una partecipazione nuova, importanti tasselli per la nascita di una convivenza civile dopo venti anni di fascismo. Pur ridimensionate come protagoniste della vittoria sul nazifascismo e nonostante una cultura patriarcale diffusa e ostinata, cominciano da subito a porre le basi per una piena cittadinanza femminile. (Michetti, Repetto, Viviani, Udi laboratorio politico delle donne, Cooperativa Libera stampa 1985).

Nel 44, nel centro sud liberato i Gdd danno vita all’Udi-Unione Donne Italiane che fa uscire dalla clandestinità il giornale Noi donne e l’8 marzo e subito promuove la costituzione di un Comitato pro voto a cui aderiscono varie associazioni. Il 1° febbraio del 45 su proposta di De Gasperi e Togliatti un decreto riconosce il diritto di voto alle donne, diritto per il quale si erano battute tante Italiane ben prima dell’avvento del fascismo. L’Udi nell’ottobre del 45 svolge il suo primo Congresso a Firenze, con delegate di 78 province a rappresentare 400.000 iscritte. È la più grande, e lo sarà per molto, organizzazione femminile per l’emancipazione delle donne, unitaria nelle iniziali intenzioni, ma sempre più collocata a sinistra, a seguito della rottura del fronte antifascista. Dopo pochi mesi si costituisce il Cif-Centro Italiano Femminile, legato alla Democrazia Cristiana e alle gerarchie ecclesiastiche. Le due organizzazioni, pur nelle indiscutibili differenze, si troveranno in più di una occasione a collaborare per restituire dignità e libertà alle donne del nostro Paese.

Non c’è dubbio che il diritto di voto ha dato l’avvio a quella trasformazione delle donne da esseri inferiori e sotto tutela a cittadine. Votano per la prima volta alle elezioni amministrative del 46 durante le quali vengono elette 2000 circa tra consigliere comunali, assessore e sindache. All’Assemblea Costituente vengono elette 21 donne su 556 membri: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste, una qualunquista. Di fronte ad un forte e trasversale atteggiamento misogino, lavorano perché nella Carta Costituzionale venga riconosciuto alle donne il diritto alla parità nel lavoro, nella società e nella famiglia, di cui alcune criticano con competenza giuridica e perfino ironia l’impianto gerarchico. Grazie alla socialista Lina Merlin, altra grande resistente, fu la aggiunta la parola sesso nel primo comma dell’articolo 3 che recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua…”: il maschile plurale (“tutti i cittadini”) crea confusione in quanto non include esplicitamente le donne e fino ad allora erano considerati cittadini, come lei sottolinea, solo “gli uomini con i pantaloni”. A causa delle differenti concezioni tra le Costituenti non fu raggiunto un accordo per quanto riguarda l’art. 37 che subordina l’attività lavorativa per la donna, e solo per la donna, al suo primo dovere della cura della famiglia: come a dire che solo per lei quella funzione è prioritaria. La proposta della democristiana Maria Federici e di Maria Maddalena Rossi, comunista, di aprire la magistratura al sesso femminile fu respinta a scrutinio segreto: gravano da più parti pregiudizi maschili che oggi ci paiono assurdi. Nonostante tutto la Costituzione italiana contiene in sé quei principi che saranno poi punto di riferimento per la richiesta da parte delle donne e dei loro movimenti di leggi più rispettose della loro differente soggettività e del loro diritto alla autodeterminazione. Da allora è ripreso quel lungo, difficile esaltante cammino, iniziato alla fine del 700 e interrotto tragicamente dal fascismo, su cui mi soffermerò solo brevemente.

Nei primi anni del dopoguerra grande dappertutto è l’impegno delle donne per garantire ai bambini e alle bambine il diritto allo studio attraverso estenuanti trattative con le istituzioni per risolvere il problema degli sfollati e liberare così gli edifici scolastici. A Roma nel 46 almeno 20.000 bambini non possono frequentare per mancanza di aule: l’Udi riesce a far aprire scuole in alcuni quartieri come Torpignattara e Testaccio. Numerose sono le iniziative e le lotte contro il caro vita, la scarsità di cibo e dei servizi essenziali: in provincia di Enna 80 donne sono arrestate, compresa la segretaria del Circolo Udi, per aver protestato per il ripristino dell’acquedotto; a Torino 12 mila donne manifestano e ottengono che l’indennità di carovita sia uguale a quella degli uomini. Mentre i prezzi salgono, il cibo scarseggia e il mercato nero la fa da padrone, a Terni la donne dell’Udi e del Cif si organizzano per distribuire pacchi di viveri. L’Udi chiede e ottiene che si faccia il censimento dei bambini abbandonati (250 di cui 26 a rischio di tubercolosi), apre una lavanderia e destina il ricavato all’assistenza medica dei più piccoli (Regione dell’Umbria. Appunti per una storia delle donne democratiche in Umbria ). A Roma nei pressi di Porta Latina si inaugura il primo nido d’infanzia dove donne e ragazze dell’Udi prestano gratuitamente la loro opera. Iniziano le partenze dei bambini del centro-sud dalla fame e dalla miseria verso il nord, ospiti di famiglie modeste, ma generose: viaggi voluti e organizzati in primo luogo dall’Udi, che richiedono grandi capacità organizzative e politiche e un senso fortissimo di solidarietà.

Alcune protagoniste di allora, Miriam Mafai e Luciana Viviani, ce lo raccontano in un intenso documentario dal titolo “Pasta nera”. Insomma dappertutto le donne sono impegnate per migliorare la qualità della vita e costruire una società più giusta e solidale. Intanto nel 46 due esplosioni atomiche nel Pacifico fanno tornare la paura di una nuova guerra. L’Udi lancia una petizione nazionale contro gli armamenti atomici: 50.000 donne sfilano nel marzo del 47 a Roma fino al Quirinale per consegnare le firme al Presidente della Repubblica. Pochi mesi dopo a Ginevra una lunga fila di donne in delegazione consegnerà tre milioni di firme al segretario aggiunto delle Nazioni Unite, come si può ammirare in una emozionante immagine nel documentario “Viaggio nel ‘900 delle donne” prodotto dall’Udi Romana “La Goccia”.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro accenno solo alla lotta delle tabacchine, partita dal Salento dove 68.000 sono le operaie (100.000 in tutta Italia). A Pesaro nel 47 organizzano il loro primo Convegno nazionale in cui chiedono la costituzione di un loro sindacato unitario all’interno della CGIL, miglioramenti economici e assistenziali come l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e la sospensione dal lavoro per dodici settimane nel periodo di gestazione e puerperio. E’ con loro Adele Bei, una delle Costituenti, per anni in carcere e poi al confino, figura prestigiosa dell’antifascismo e del sindacalismo. Divenuta nel 52 segretaria del sindacato di categoria, si batte contro le difficili condizioni di lavoro delle tabacchine, costrette a respirare polveri tossiche in ambienti per lo più malsani.

Del 50 è la legge per la tutela della lavoratrice madre, promossa da Teresa Noce, altra grande protagonista della Resistenza che ha vissuto l’orrore dei campi di concentramento. La legge sancisce il divieto di licenziamento per le donne in gravidanza e un periodo di tre mesi di astensione dal lavoro con l’80% della retribuzione. Dopo un aspro dibattito dentro e fuori il Parlamento, puntualmente ricostruito dallo storico Sandro Bellassai nel suo libro La legge del desiderio, nel 58 viene approvata la legge Merlin che la senatrice aveva presentato già dal 48 e che pone fine alla prostituzione di stato restituendo dignità umana alle prostitute e liberandole da una schedatura a vita. Dello stesso anno è la legge che limita lo sfruttamento del lavoro a domicilio, per il 95% in mano alle donne.

Nel 59 esce il libo di Gabriella Parca, Le Italiane si confessano che spalanca le porte alla conoscenza delle sofferenze femminili nella sfera privata: tradimenti, violenze, prepotenze, infelicità coniugale di varia natura in soggetti tenuti dipendenti e senza libertà di decidere della propria vita. Da qui si ripartirà tra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta per ottenere il divorzio e un nuovo diritto di famiglia, conquistato grazie all’impegno del movimento delle donne e di alcune parlamentari democristiane, socialiste e comuniste.

Negli anni a venire, con la nascita e l’affermazione in tutto il Paese del neofemminismo, verranno imposti con determinazione all’agenda politica questioni prima innominabili, eppure facenti parte della vita quotidiana di tante: la violenza sessuale e l’aborto, fino ad allora clandestino e con i rischi per la salute fino alla morte. Ma questa è un’altra storia.

A rivedere il percorso fatto dalle donne del nostro Paese dal 45 fino ad oggi, le tante lotte di cui sono state protagoniste, possiamo dire che la Liberazione è stata per esse l’inizio di una seconda Resistenza. Una resistenza civile e privata, mai armata, tanto che le grandi trasformazioni operate grazie a loro nel ‘900 e che hanno posto con forza la necessità di una nuova civiltà nelle relazioni tra donne e uomini e una più compiuta democrazia, vengono considerate l’unica rivoluzione non violenta del secolo. Un secolo attraversato da guerre, genocidi, orrori e tragedie di ogni tipo che non vorremmo vedere mai più.

Bolsena, 2 giugno 2014