Droni, il videogioco mortifero degli Stati Uniti

Enric Llopis
www.rebelion.org Traduzione di Flavia Vendittelli

Nabila Rehman, una bambina di 9 anni del nordest del Pakistan, è stata ferita in un attacco con aerei statunitensi comandati a distanza nella località di Ghundi Kala. «Prima non avevo paura dei droni, ma ora, quando li vedo volare, mi chiedo: sarò la prossima vittima?», ha dichiarato davanti al Congresso degli Stati Uniti. Suo fratello, di 13 anni, è rimasto ferito, e sua nonna, di 68, è morta con il corpo distrutto dall’impatto di un missile.

Si tratta di una delle brevi testimonianze raccolte dal giornalista Roberto Montoya nel libro “Drones. La muerte por control remoto” (Droni. La morte per controllo a distanza), che la collezione “A Fondo” di Akal, diretta da Pascual Serrano, ha appena pubblicato. Oltre ad essere un inviato specializzato in giornalismo internazionale, Montoya è autore di opere come “L’Impero globale” e “L’impunità imperiale”.

Le parole di Nabila non costituiscono solo una vivida testimonianza della cruenta e spietata realtà susseguente ad un attacco con droni. Testimoniano, inoltre, la regolarità di un modo di operare che si ripete. L’attacco ha avuto le caratteristiche di sempre: primo si lancia un missile, che in questo caso ha preso in pieno la nonna dei bambini, e immediatamente dopo si lancia un secondo missile, quando negli Stati Uniti il pilota del drone, comodamente seduto in poltrona a migliaia di km di distanza, vede che varie persone vanno a soccorrere il “bersaglio”, spiega Roberto Montoya. Sono rimasti feriti nove bambini.

Nonostante la propaganda imperiale e gli interessi della grande industria bellica, durante un discorso Obama ha ammesso che in questa guerra da videogioco «a volte ci sono vittime civili». Ma questo «a volte», segnala Roberto Montoya, in realtà è «molte volte», o «quasi sempre», come si evidenzia in Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia e in molti altri paesi. Secondo la New America Foundation (ente specializzato nel computo di vittime), solo il 2% delle vittime di droni erano quadri di Al Qaeda o altre organizzazioni terroristiche. La maggioranza delle vittime corrisponde alla categoria di militanti di base, collaboratori, maestri o religiosi che si richiamano alla jihad. Il restante 15%, civili, bambini, uomini e donne di tutte le età.

Al di là delle statistiche, il giornalista – ex-corrispondente da Londra, Roma e Parigi – riporta una conversazione tra Obama e il vice-direttore della CIA, Steve Kappes, che illustra la tragedia meglio di qualsiasi cifra. «Signor Presidente, identifichiamo il nostro bersaglio quando rileviamo che in un determinato posto ci sono gruppi di uomini in età di leva (16 anni), uomini che sicuramente sono legati all’attività terrorista, però le devo dire che non sempre sappiamo chi sono». La bizzarra citazione appare nel libro di Daniel Klaidman “Kill or capture”.

Il libro “Droni. La morte per controllo a distanza” smaschera l’Obama progressista, Premio Nobel della Pace (a pochi mesi dall’arrivo alla Presidenza) e ammiratore di Martin Luther King. Montoya ricorda che durante gli otto anni di Bush al potere ci sono stati 48 attacchi con aerei comandati a distanza, mentre al quinto anno di mandato Obama già superava i 390 attacchi in Pakistan, Iraq, Afghanistan, Yemen o Somalia, causando tra i 4.000 e i 5.000 morti (in buona parte civili). La conclusione è lapidaria: «Obama ha creduto di trovare nei droni la formula ideale per dare continuità alla guerra contro il terrore di Bush, ed evitare il disgusto sempre maggiore provocato negli Stati Uniti dalla morte di migliaia di giovani soldati in Iraq e Afghanistan».

Per di più, il conflitto bellico è ormai impensabile senza droni per la potenza imperiale. E questi costituiscono solo una parte della guerra robotica. Nel 2001 gli Stati Uniti hanno destinato 667 milioni di dollari del Budget Federale alla produzione di aerei comandati a distanza, cifra che nel 2013 è arrivata a 26.600 milioni di dollari. Ufficialmente, nel 2014 gli Stati Uniti dispongono di 12.000 aerei guidati da comando a distanza. In sostanza, morti digitali e omicidi “selettivi”, commessi dalla CIA o dalle forze armate di Stati Uniti o Gran Bretagna, vengono monitorati da una base militare a 10.000 km di distanza. Come riconosce un pilota delle Forze Aeree Statunitensi (USAF), «vedere sullo schermo come vengono eliminati i cattivi e andare a mangiare al ristorante all’angolo risulta un po’ surrealista».

Roberto Montoya insiste nella natura imperialista che c’è dietro agli attacchi con droni, visto che «Washington ha ripetutamente ignorato le istanze dei governi di Pakistan, Afghanistan e Iraq perché cessassero gli omicidi selettivi in questi paesi». Ma questa è una realtà da cui non sfuggono neanche i cittadini di nazionalità statunitense, come il religioso mussulmano Anwar al Awlaki, suo figlio Abdulrahman al Awlaki, di 16 anni, Samir Khan e Jude Mohammed, tutti vittime di esecuzioni extragiudiziali con droni in territorio straniero. I mezzi di comunicazione statunitensi hanno messo in discussione la legalità di questi omicidi, e familiari e organizzazioni a tutela dei diritti civili hanno denunciato Obama, il direttore della CIA e il segretario della Difesa ai Tribunali Federali, perché cancellassero al Awlaki e Khan dalle “kill list”. Ma senza successo.

Il libro entra, inoltre, nel dettaglio e nella complessità dei retroscena di quello che alla fine sarà un missile lanciato da un aereo comandato a distanza. Ad esempio, i contrasti tra la CIA e il Pentagono. Obama ha preferito da subito che la CIA avesse la parte del leone, dato che per sua propria natura, è sottoposta a minor controllo da parte del Congresso e del Dipartimento di Giustizia. Di fatto, ricorda Roberto Montoya, «la legislazione statunitense tutela il segreto di operazioni occulte come gli attacchi con droni». Ma «Obama ha deciso di restituire alla CIA le sue attività di indagine e spionaggio», aggiunge. E che le operazioni con aviazione virtuale venissero dirette dal Pentagono, cosa che ha scatenato accese discussioni nel Congresso.

Un altro elemento di analisi trattato da Montoya è la cooperazione istituzionale svolta in modo che gli omicidi “selettivi” con droni abbiano successo. Un caso noto è quello della NSA (l’Agenzia della Sicurezza Nazionale, implicata in pratiche di spionaggio di massa su scala mondiale). Secondo quanto rivelato nel sito web “The Intercept” da Glenn Greenwald, massimo collaboratore di Edward Snowden, mediante il programma “Geo Cell” la NSA aiutava la CIA e il JSOC (Comando Congiunto di Operazioni Speciali) ad intercettare chiamate telefoniche e a localizzare telefoni mobili. Il procedimento consiste nel localizzare la carta SIM del cellulare della persona cercata da parte della NSA, cosa che consente a CIA e al JSOC di programmare i droni con le giuste coordinate. Si corre il rischio, tuttavia, che il procedimento dia luogo a drammatici errori, dato che è possibile che non sia il titolare ma un amico o un familiare ad utilizzare l’apparecchio al momento dell’attacco.

I droni occupano un posto di rilievo nella nuova guerra “intelligente”. Così, assicura Roberto Montoya, «Stati Uniti, Israele, Regno Unito o Pakistan hanno già inserito i droni armati di missili come arma essenziale e di uso quotidiano per abbattere i loro avversari». Altri quaranta paesi implementano modelli di aerei comandati a distanza, anche se non sempre sono armati. «Nelle fiere degli armamenti, i droni sono le vere stelle», afferma il giornalista. Nell’Unione Europea, 20 stati (tra cui la Spagna) hanno sviluppato 400 modelli diversi di aerei comandati a distanza. Però il dicembre 2013 segna un altro punto nella intra-storia di questi robot aerei, quando i 28 paesi membri della UE hanno deciso di cooperare nella loro produzione al fine di rompere la dipendenza da Stati Uniti e Israele.

Per capire l’espansione dei droni è importante osservare due tendenze. In primo luogo, uno scenario in cui si impone un nuovo tipo di guerra con armi “intelligenti”. Di fatto, in pochi anni il Pentagono avrà più droni da combattimento che cacciabombardieri e l’esercito sarà formato da sempre meno effettivi umani (il piano di riduzione del Pentagono annunciato a febbraio 2014 fissava una riduzione dagli attuali 570.000 soldati a circa 450.000). Ovvero, si tratta di dare priorità a unità delle forze speciali, con mezzi estremamente sofisticati ed enormemente precisi di attacco e vigilanza. A differenza dei tradizionali gruppi di pressione del complesso militare-industriale, prendono piede i centri destinati a produrre armamenti con alto valore tecnologico. “Libellule” di 45 cm, mini-droni delle dimensioni di un insetto, fucili intelligenti, robot fuoristrada o camion militari comandati a distanza fanno parte di questa nuova realtà.

La seconda grande tendenza osservata da Roberto Montoya è la mancanza di copertura legale con la quale si stanno producendo e utilizzando i droni. Per di più, sono anni che le grandi organizzazioni a tutela dei diritti umani denunciano l’uso dei droni da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Israele. Il relatore dell’ONU sulla questione, Christof Heyns, ha definito i droni come «robot assassini». Inoltre, dato che formalmente gli Stati Uniti non sono in guerra con Pakistan, Afghanistan, Iraq, Yemen o Somalia, la grande potenza imperiale ritiene di non dover rispettare le Convenzioni di Ginevra, dell’Aja (1907) o qualsiasi altro quadro regolamentare. Né di dover tenere presente che i droni e la guerra robotica in generale, come assicura in un rapporto Christof Heyns, «molte volte non possono distinguere se la vittima è un bambino, una donna, un anziano, se indossa l’uniforme o se si sta arrendendo». Una guerra da videogioco, più economica, con poche vittime e, soprattutto, impune.

Roberto Montoya, Drones. La muerte por control remoto, Akal, 2014

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USA, la polizia va alla guerra?

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Nel corso di questi ultimi anni le forze di polizia, in ogni angolo degli Stati Uniti, stanno ricevendo in maniera costante forniture di armi ed equipaggiamenti militari dal Pentagono che apparentemente sembrano avere ben poco a che vedere con le normali funzioni di mantenimento dell’ordine ad esse attribuite.

A rivelare questo flusso di materiale, più adatto ad un teatro di guerra che alle esigenze di sicurezza delle città o della provincia americana, è stato un articolo apparso qualche giorno fa sul New York Times e poco o per nulla notato dal resto della stampa d’oltreoceano. Nell’indagine viene descritto come, durante gli anni dell’amministrazione Obama, i dipartimenti di polizia americani abbiano ottenuto, tra l’altro, “centinaia di migliaia di mitragliatrici, quasi 200 mila caricatori, migliaia di capi di abbigliamento mimetici ed equipaggiamenti per la visione notturna, centinaia di silenziatori, autoblindati, elicotteri e velivoli” vari.

Significativamente, il reporter del Times afferma che la fornitura di tutto questo materiale proveniente dalle forze armate si è accompagnato al crescente impiego delle squadre speciali della polizia denominate SWAT (Special Weapons and Tactics). Queste squadre vengono usate solitamente per interventi in situazioni critiche, come la liberazione di ostaggi o nei casi di terrorismo, ma negli ultimi tempi operano sempre più anche in situazioni di routine.

In maniera inquietante, il Times cita due episodi nei quali il ricorso ai team SWAT è sembrato del tutto fuori luogo, come in un’operazione condotta nel 2006 in un nightclub della Louisiana nell’ambito di un’ispezione sulla vendita di alcolici e in alcuni negozi di parrucchiere in Florida nel 2010 per verificare la regolarità delle loro licenze. In molte occasioni, inoltre, gli SWAT irrompono in abitazioni private alla ricerca di sospettati per crimini trascurabili, con modalità violente che hanno già causato svariati decessi.

Oltre agli SWAT, in netto aumento sono poi anche le Unità Paramilitari di Polizia (PPU), secondo uno studio presenti in quasi l’89% delle città sopra i 50 mila abitanti già negli anni Novanta e oggi diffusesi addirittura a più dell’80% delle città più piccole degli Stati Uniti contro meno del 20% negli anni Ottanta.

Il caso della località di Neenah, nel Wisconsin, è estremamente significativo di questo stato di cose negli Stati Uniti. Con poco più di 25 mila abitanti, Neenah sembra essere la tradizionale cittadina della provincia americana, dove il livello di criminalità risulta ben al di sotto della media nazionale. Ciononostante, da qualche anno qui sono iniziati a giungere svariati veicoli anti-mina (MRAP) dell’esercito.

Se il capo della polizia locale sostiene che anche una “possibilità remota” di minacce di violenza estrema richiede precauzioni, è un residente di Neenah ad avere fornito una definizione pertinente di quanto sta accadendo nella sua città e in innumerevoli altre degli Stati Uniti, dove le forze dell’ordine, in realtà, “si stanno rafforzando [con equipaggiamenti militari] per fronteggiare una minaccia inesistente”.

Il trasferimento di attrezzature da guerra ai reparti di polizia locali era iniziato in America negli anni Novanta in seguito ad un’iniziativa del Congresso, ufficialmente per consentire alle città più grandi di fronteggiare la crescente intraprendenza delle gang della droga. Il programma garantisce oggi un numero senza precedente di armamenti pesanti alla polizia, nonostante sia la criminalità che gli episodi di terrorismo domestico negli USA siano crollati.

Le armi e gli equipaggiamenti da guerra scartati dall’esercito o in eccedenza vengono consegnati ai dipartimenti di polizia a titolo gratuito ma le maggiori città americane utilizzano spesso anche prestiti federali a fondo perduto per acquistare questo genere di materiale.

Nelle varie località americane oggetto dell’indagine del New York Times emerge l’atteggiamento ambiguo dei vertici delle forze di polizia nei confronti del programma del Pentagono. Soprattutto nelle città più piccole, infatti, appare chiaro come siano i militari a cercare di convincere le autorità locali della necessità di accettare equipaggiamenti utili solo in caso di guerra o gravi sommosse.

Pressoché invariabilmente, invece, i residenti delle città interessate manifestano il loro scetticismo o la totale contrarietà alla militarizzazione dei dipartimenti di polizia. In particolare, molti esprimono preoccupazione per le modalità con cui la polizia si approvvigiona di questo materiale, quasi sempre tenendo all’oscuro non solo la popolazione ma spesso anche i membri dei consigli comunali.

Lo scenario descritto dal New York Times è la conseguenza diretta del clima creato dalla classe dirigente americana dopo l’11 settembre del 2001, nel quale la minaccia terroristica percepita è stata aumentata esponenzialmente a fronte di un sensibile calo degli eventi effettivamente registrati.

La militarizzazione delle forze di polizia sembra rispondere perciò alla necessità delle autorità di far fronte a possibili minacce derivanti dalle enormi tensioni sociali che si stanno accumulando negli Stati Uniti, in una realtà segnata da gigantesche e insostenibili disuguaglianze sociali e di reddito, nonché da attacchi continui alle condizioni di vita di decine di milioni di americani delle classi più disagiate.

La vera minaccia che la polizia USA, sempre più simile a una forza paramilitare, deve fronteggiare è così quella del dissenso interno e di possibili rivolte derivanti dall’esplosiva situazione sociale prodotta dalla crisi terminale del capitalismo.

Non a caso, infatti, le cronache sui giornali d’oltreoceano riportano quasi ogni giorno gli esempi della violenza della polizia, diretta invariabilmente contro lavoratori, poveri, senza tetto o appartenenti a minoranze etniche.

Come conferma l’indagine del New York Times, in definitiva, i metodi e gli strumenti usati dall’imperialismo americano per reprimere ogni resistenza alle innumerevoli occupazioni militari di paesi sovrani vengono progressivamente importati in patria, dove allo stesso modo si sta intensificando l’opposizione nei confronti di un sistema oligarchico con caratteristiche sempre più compatibili con quelle di uno stato di polizia.