Onora il Padre, non il padrino

Giuseppe La Pietra
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«In nome di Nostro Signore Gesù Cristo giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche il mio stesso sangue». Sono queste alcune delle parole che vengono pronunciate durante il giuramento, quando ci si affilia alla ’ndrangheta, mentre viene fatto bruciare il «santino» di S. Michele Arcangelo, protettore. Poche parole di alcuni riti ancestrali che possono dare l’idea di quanto sia ben radicato il rapporto fra l’uomo d’onore della ’ndrangheta e la fede in Nostro Signore Gesù Cristo. Nella prefazione di Acqua santissima – La Chiesa e la ’ndrangheta: storia di potere, silenzi e assoluzioni (Mondadori 2013), scritto dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, e dal giornalista Antonio Nicaso si legge: «A partire dall’ottocento e per decenni gli uomini della ‘ndrangheta hanno beneficiato del silenzio e dell’indifferenza (spesso interessati) della Chiesa».

E allora, rispetto all’episodio della statua della madonna portata in spalla davanti alla casa di un boss condannato all’ergastolo a Oppido Mamertina (Rc), dov’è la notizia?

Rispetto all’accaduto, sempre Gratteri ha sottolineato come la ‘ndrangheta si nutra di consenso popolare: «Il mafioso ama farsi vedere vicino al prete e al vescovo perché questa è una forma di esternazione del potere». Un potere soffocante. Ed è come se venisse a mancare l’aria, perché la mafia calabrese è stata capace di trasferire nel mondo globalizzato, integra e inossidabile, una forma organizzativa antica, fondata sui vincoli familiari. I capi della ‘ndrangheta parlano molte lingue, si muovono coi jet, trafficano dalla Colombia all’Australia, ma tutti venerano ancora la Madonna della montagna di Polsi. Oppido è a cinquanta chilometri dal santuario mariano, dove non più tardi di un anno fa il capo dei capi locale ridisegnava l’organigramma della sua associazione a delinquere: «Facciamo le cariche per la Madonna», si sentiva in una delle intercettazioni nei suoi confronti. Un potere radicato nella terra e nelle ritualità che lo hanno accompagnato e gli hanno consentito di crescere, spesso con la silente benedizione di vescovi e prelati compiacenti.

Per chiunque sarebbe difficile contare quante volte e da quanti anni durante le processioni, in Calabria e in altre parti del mondo dove la ‘ndrangheta è radicata, la statua della madonna o di un santo patrono venga fatta fermare dinanzi la casa di un capo bastone, dove ha chinato il capo e ha reso omaggio. In queste ataviche ritualità le processioni sono servite per presentare alla cittadinanza i nuovi affiliati alle cosche.

Perché stupirsi, quando il sindaco di Oppido annuncia che quello è il giro che la Madonna delle Grazie compie da anni? Sempre in quel posto è stata fatta sostare, sempre lì c’è la casa dell’uomo d’onore, lo zio del parroco di Oppido che ha guidato la processione insieme ad altri prelati devoti. L’episodio di rottura a Oppido non è arrivato né dal primo cittadino né dai prelati ma dal maresciallo dei carabinieri, segno che lo Stato c’è e si dissocia.

Perché tanto clamore, quando a distanza di pochi giorni, in un altro paese in provincia di Reggio Calabria, alla statua del santo patrono San Procopio è stato fatto ripetere analogo saluto dinanzi alla casa di un altro esponente di spicco della ‘ndrangheta? Il corteo col santo in spalla si è fermato, la moglie dell’uomo noto è uscita dall’abitazione e ha offerto un obolo. E il soldo ha toccato la cassetta e in tempo di crisi un posto non si nega a nessuno, tanto più in cielo.

Così la storia ci narra come, nella loro costante ricerca di consenso, le cosche calabresi sono spesso davanti all’altare, in prima fila, a trafugare simboli, riti e figure da proporre nelle cerimonie di affiliazione, a mescolarsi nelle processioni mettendosi in spalla santi e madonne, ad organizzare feste patronali. Il procuratore di Palmi, Giuseppe Creazzo, ebbe dire: «Il problema vero del quale si deve parlare, posto che la ’ndrangheta è e rimarrà davanti all’altare, è cosa fa l’altare dinanzi alla ’ndrangheta». E in modo più esplicito: «Ancora oggi alcuni sacerdoti in pubbliche interviste minimizzano il fenomeno mafioso.

Ancora oggi, nei processi contro le più agguerrite cosche di ’ndrangheta, vengono chiamati a testimoniare in difesa di imputati alcuni sacerdoti, i quali, come emerge dalle deposizioni rese, non testimoniano tanto su fatti concreti a loro conoscenza, ma si affannano a dare patenti di brave persone, peraltro processualmente inammissibili, a imputati di mafia. E a questi fenomeni, spiace dirlo, purtroppo non fa eco nella maggior parte dei casi una più autorevole voce di Chiesa a stigmatizzarli». Il riferimento è a don Memè Ascone, anziano sacerdote di Rosarno che, deponendo al processo All Inside contro la cosca Pesce, aveva garantito: «Francesco Pesce è un mio amico, Domenico Varrà è un gran gentiluomo e Franco Rao è una brava persona». Gli amici di don Memè devono tutti rispondere di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma don Memè non ha dubbi: «In questo processo ci sono persone detenute ingiustamente».

In questa cornice vengono a collocarsi le parole di scomunica lanciate da papa Bergoglio, in un contesto in cui chiesa e ‘ndrangheta a volte convivono. Parole ancora forse troppo deboli e isolate, soprattutto perché non è chiaro e ci sarà da capire in quale forma la scomunica toccherà i prelati contigui alla ‘ndrangheta. Non è una realtà solo extra ecclesiam ma ben radicata anche nel proprio interno: nella celebrazione dei sacramenti e delle ritualità popolari.

Il suo predecessore, papa Wojtyla, tuonò in modo analogo contro la mafia dalla Valle dei Templi di Agrigento, fermo restando che poi continuò ad avere fra i suoi stretti collaboratori mons. Marcinkus, e nulla fece per la banca vaticana dello Ior, più volte finita nelle indagini antimafia perché ritenuto luogo di cui le mafie si servivano per eseguire le loro operazioni di riciclaggio. Almeno su questo papa Bergoglio «eppur si muove». Almeno sembra.