La Palestina. Pregare, non tacere e agire di G.Codrignani

Giancarla Codrignani
www.viandanti.org

Il peso di un silenzio

Il silenzio significava che non si chiedevano tutele speciali per i cristiani, ormai chiaramente perseguitati in non pochi dei luoghi in cui sono stati da sempre minoranza rispettata. Infatti né Saddam Hussein in Iraq, né Bashar al Assad in Siria, né tanto meno Abu Mazen in Palestina – dove i cattolici sono poco meno del 2% e a Gaza c’è una parrocchia – hanno perseguitato i cristiani. Quel silenzio, tuttavia, pesa come un macigno perché è diventato simbolico: perfino i tanti (certo meno rispetto ad analoghe manifestazioni di anni passati) che in questi giorni hanno partecipato a iniziative di protesta e di sostegno alle vittime palestinesi, di fatto si trovano con le mani legate.

La domanda “che fare?”, se viene posta quando le armi sparano, rimette di fatto la possibilità della pace dentro la contesa e induce anche i testimoni a prendere posizione. Così la guerra si allarga e al massimo le mediazioni possono ottenere qualche pausa alle stragi. Sembrano mesi, ma sono passati pochi giorni da quando il Papa aveva cercato di incoraggiare la pace invitando in Vaticano Peres e Abu Mazen e il mondo aveva applaudito l’abbraccio. Eppure nessun governo ha voluto approfittarne, raccogliere il messaggio e proseguire iniziative distensive e pressioni anche nei confronti di Hamas, la parte palestinese più radicale, che, a sua volta, aveva appena siglato un’intesa insperata con l’Anp, sempre considerata troppo moderata. Nella dissolvenza che ne era seguita l’apparizione televisiva del Presidente dell’Autorità palestinese che abbracciava il presidente dello Stato Ebraico non aveva certo sollevato entusiasmi nei territori occupati. Una frangia incontrollata aveva sequestrato e ucciso tre studenti israeliani e altrettanto orribilmente era seguito l’assassinio di un ragazzo palestinese, di cui Israele aveva subito arrestato gli autori. Hamas ha rinfacciato a Israele la responsabilità dell’atto efferato e ha fatto partire i primi missili: Netanyahu non aspettava altro per sferrare l’attacco a Gaza.

Qual è la pace che si vuole?

Avete mai guardato la mappa della “Striscia”? da Gaza a Rafah sono 40 km. per 10, abitati da 1.800.000 arabi e riconosciuti appartenenti alla Palestina. L’area è immersa dentro Israele ed è assediata dalle occupazioni abusive dei coloni: la vulnerabilità è totale. Israele vive ancora la memoria della guerra dei sei giorni (1967), quando aveva fatto terra bruciata fino all’Egitto. Specularmente Hamas resta l’erede del “Fronte del rifiuto” di George Habbash che allora ripudiò la “moderazione” dell’Olp di Arafat. La tentazione di guardare al passato e di illudersi di tendere al massimo la corda delle prove di forza è insensata e pericolosa: il passato non può riprodursi perché la situazione non è più la stessa.

Quante generazioni sono passate dal 1947, quando tutto ha avuto inizio? Se nessun potere esterno (che guaio che l’Europa non abbia una politica comune!) ha mai interposto i suoi buoni uffici per aiutare i due popoli a stabilire una civile convivenza, se le Risoluzioni per quanto solenni dell’ONU non sono mai state rispettate, se l’odio prevale fra le due comunità e si colora sempre più di assurdi, pericolosissimi richiami religiosi, la gente di buona volontà che cosa può fare? Se l’unica cosa che è migliorata nel corso degli anni è la dotazione degli arsenali e gli interessi dei produttori d’armi (l’Italia è il primo esportatore dell’Ue in Israele) di che pace parliamo, soprattutto finché la ricorrente conflittualità resta silente?

Tutte le volte è sempre peggio. Questa volta sembra ancor più grave. I giudizi possono essere diversi e partigiani, ma è terribile che sia partita un’escalation mortale a dividere ancora di più due popoli i cui cittadini, interrogati singolarmente, non vorrebbero assolutamente subire devastazioni e veder morire i propri figli. Invece è possibile, nel 2014, avvertire il vicino che stiamo per bombardargli la casa, dirgli che se ne vada se non vuole morire. Centrare gli ospedali. Oppure impedire la messa in salvo di interi quartieri perché la gente deve resistere e affrontare il martirio: fare di donne e bambini scudi umani per ideologia.

Adamo, dove sei?

Quando, poche settimane fa, Papa Francesco era andato pellegrino a Gerusalemme e davanti allo Yad Washem aveva posto la domanda “Adamo, dove sei?”, ha ridato responsabilità agli uomini davanti al male. Non chiedeva dov’era Dio nella Shoà, interpellava noi. La malvagità, che per molti abita il nostro cuore “per natura”, va analizzata a partire dal male fatto non volendo, “a fin di bene” o addirittura per principi voluti da Dio. La stessa “sete si giustizia” puoi fare male a se stessa e addirittura aumentare l’ingiustizia: forse nessun fine giustifica i mezzi e certamente non tutti i mezzi sono accettabili.

Tornando a guardare le mappe, come le leggono gli israeliani che si vedono circondati da popoli sia vicini, sia più lontani, che si si sono dati come missione la distruzione del loro stato? La paura produce il nazionalismo, il fondamentalismo, il disprezzo dei diritti umani, l’investimento al massimo grado nella difesa, i tre anni del servizio militare (due per le donne) per tutti i cittadini, le politiche aggressive. Considerando la realtà con l’occhio di noi stranieri, appare evidente che gli islamici ortodossi e i nemici di Israele e dell’Occidente, se volessero unirsi per eliminare l’epicentro di tanta crisi, sarebbero preponderanti numericamente e per potenza di fuoco. Oggi non pensano certo di farlo, perché non intendono pagare troppo onerosamente la solidarietà con l’etnia palestinese, a cui non possono negare nient’altro oltre il rifornimento di armi e dollari o il voto all’Assemblea generale dell’Onu. I loro interessi sono di altro livello e non possono essere orientabili a piacere: un conto è minacciare di chiudere i pozzi del petrolio, un altro che l’Arabia Saudita si dissoci dagli Usa.

Guardare a un contesto più ampio

Tuttavia non si deve giocare né con le paure, né con le ideologie, né con gli interessi, propri e altrui. L’attentato di Sarajevo fu la causa occasionale della prima guerra mondiale i cui risultati potevano essere in qualche modo ottenuti al tavolo delle trattative senza alcuno spreco di tante irrisarcibili vittime. A quella guerra partecipava l’impero ottomano alleato degli imperi centrali: nel 1923 fu deposto l’ultimo sultano, nacque la Turchia indipendente e fu compiuto il genocidio armeno. Nel 1917 il ministro Balfour prevedendo la spartizione del territorio ottomano aveva sostenuto l’opportunità di trovare nel prevedibile crollo uno spazio per il “focolare” della comunità ebraica.

Gli antefatti storici non sono acqua e la grandezza della Sublime Porta resta nella memoria di arabi, non arabi, islamici di varia tendenza, mentre gli occidentali ne sanno poche (a scuola non si insegnava). Recep Erdogan ha vinto le elezioni promettendo la “grande Turchia” e in Iran si sogna sempre la grande Persia come in Serbia la grande Serbia. Intanto in Irak Abu Bakr al Baghdadi si è nominato califfo del Levante e, ritenendo che lo stato sia possesso dei soli musulmani puri e non degli iracheni o dei curdi, consiglia di “tener duro per conquistare Roma, Dio volendo”. Lo definiamo il solito pazzo e la Cia cercherà di farlo fuori, ma per ora elimina cristiani e musulmani non ortodossi e, indisturbato, distrugge moschee contaminate dagli eretici. Anche prescindendo da lui, l’Islam si è fatto ideologia e nazionalismo.

Disgraziatamente gli Usa, che non hanno mai avuto scrupolo a relazionarsi con i dittatori, hanno fatto guerra a Saddam Hussein e a Bashar al Hassad, leader sicuramente dispotici, ma non fondamentalisti e socialmente tolleranti. I cristiani, che in Iraq erano 600.000, in Siria 800.000 e un milione in Iraq prima dell’intervento americano, sono stati via via costretti alla fuga, ma oggi le persecuzioni sono diventate mortali.

Cambio di logica e un diverso impegno occidentale

In questo contesto il rifiuto da parte di Israele della tregua proposta dal Segretario di Stato americano Kerry appare gravissima anche perché oltrepassa le ragioni umanitarie e i principi morali. La logica amico/nemico, che esclude ogni politica dialogica e la civiltà dei rapporti internazionali, impone la guerra a un prossimo che non è solo il terrorista e il patriota o il funzionario dell’Unrwa, ma il bambino. In un contesto così insicuro l’oltranzismo si rivela pura follia, prima o poi autolesionista perché, escludendo ogni mediazione e affidandosi solo alle armi, rischia di estendere la violenza in ogni direzione.

Lo Stato di Israele è una democrazia, speriamo, non solo perché vota: se un governo dà ordini iniqui, il popolo – e non solo gli intellettuali e le minoranze critiche – deve sapersi esprimere. All’inizio dell’offensiva alcune decine di riservisti hanno denunciato l’errore della guerra contro Gaza, condannando la militarizzazione di Israele e dichiarandosi indisponibili a servire in un esercito che rende i soldati strumenti di oppressione. La nonviolenza non ha alcun potere sul governo di Netanyahu; ma è importante che insegni, sì, a pregare, ma soprattutto a non tacere. E i governi occidentali capiscano che il silenzio li condanna: solo il ritorno ai tavoli di discussione può riparare la responsabilità delle armi vendute.